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 2022  luglio 25 Lunedì calendario

I chips di Taiwan sotto la minaccia cinese

Taiwan è un frontline geopolitico che non ha voglia di esserlo. Razionalmente conosce i rischi che corre. «Siamo costretti a vedere nella Cina un nemico», dicono privatamente ma esplicitamente gli esponenti governativi. Emotivamente la minaccia si stempera in tre quarti di secolo di pace, trenta di democrazia e in un livello di benessere fra i più alti dell’Asia – e del mondo. I taiwanesi sanno di dover alzare il livello di guardia militare mentre, in cuor loro, non chiedono di meglio che continuare in quello che fanno meglio: affari e semiconduttori. Questa dicotomia è onnipresente. La Presidente, Ing-wen Tsai, fascio di calma energia, la traduce in necessità di essere (più) pronti alla difesa senza provocare Pechino. Difficile bilanciamento senza una rete di sicurezza internazionale. Degli Stati Uniti, ma non solo.
La delegazione dell’Atlantic Council di Washington, di cui faccio parte insieme all’ex-Segretario alla Difesa americano, Mark Spencer, vuole portare a Taipei un segnale transatlantico. Le posizioni non sono fondamentalmente diverse. Usa e europei non riconoscono Taiwan ma mantengono ottimi rapporti con l’isola, sotto il livello dell’ufficialità diplomatica. Tutti abbiamo bisogno dei semiconduttori: Taiwan ne produce il 63% dell’intera produzione mondiale. Gli Usa sono anche il secondo partner commerciale – dopo la Cina… – La differenza non è economica, sta nella responsabilitàstrategica. Garanti ultimi della sicurezza di Taiwan gli Stati Uniti affrontano continuamente la sottintesa domanda «cosa fareste in caso di attacco cinese?». Hanno sempre praticamente non risposto. IL Comunicato di Shangai del 1972 riconosce «una sola Cina» (One China Policy) – Pechino – ma lascia ampia libertà di relazioni con Taipei, compresa la fornitura di armi. Sul piano concettuale è sempre un’arrampicata sugli specchi. Nel 2007 il Congressional Research Service concludeva che gli Usa non riconoscono né la sovranità della Rpc su Taiwan, né Taiwan come Stato sovrano.
Questa “ambiguità strategica” ha mantenuto lo status quo: Pechino rivendica la sovranità sull’isola e Taiwan si comporta da Stato indipendente anche se non riconosciuto tale tranne che da una quindicina di Paesi – fra cui il Vaticano. Gli affari fra le due sponde degli Stretti vanno a gonfie vele, Taiwan non è nell’Onu ma fa parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Non contenta Pechino che vorrebbe l’unificazione, non contenta Taipei che vorrebbe «essere trattata come chiunque altro», il problema non è risolto ma gestito. A questo serve la miglior diplomazia. Questo equilibrio diventa ancor più importante all’irrompere della contesa globale Usa-Cina. Non è un caso che il comunicato del G7 di Elmau ribadisca lo status quo come chiave di volta di pace e stabilità regionale.
Tre fattori adesso lo mettono a rischio: le accresciute capacità militari cinesi che rendono realistica la minaccia dell’uso della forza perprendere l’isola; il tramonto del modello «un Paese, due sistemi» a Hong Kong che, pur molto difficilmente percorribile con Taiwan, non è più credibile; l’esplicito obiettivo di Xi Jinping di riunificazione in un orizzonte temporale ravvicinato, con le buone o con le cattive. I taiwanesi chiedono pertanto agli americani di fornire assicurazioni più esplicite sulla difesa di Taiwan in caso di attacco cinese. Esper, tendenzialmente favorevole, auspica un riesame a Washington. Pur non parlando e nome dell’amministrazione Biden, ricorda più volte che sulla Cina c’è un consenso bipartisan. Aggiunge però un richiamo familiare alle orecchie europee: «Spendete in più per la difesa».
Pur essendo frontline Taiwan spende meno del fatidico 2% del Pilper la difesa. L’attuale governo del Partito Democratico Progressista, di Dna indipendentista, vuole aumentare il bilancio militare e allungare il servizio di leva dagli irrisori quattro mesi attuali a un anno. Non sono misure popolari e vanno fatte assorbire agli elettori. Il nodo viene al pettine: come conciliare minaccia e desiderio di normalità. Eppure la minaccia si alimenta di due componenti: a Pechino la retorica di Xi Jinping soffia su un montante nazionalismo; al tempo stesso, «Taiwan è diventata importante per la sicurezza internazionale perché al centro della competizione fra grandi potenze». È una non tanto celata chiamata in causa degli Stati Uniti. Se Washington mollasse Taiwan la Cina avrebbe compiuto il primo passo per assicurarsi il predominio sul Pacifico. Un attacco cinese a Taiwan sarebbe un’altra Pearl Harbor: gli americani dovrebbero reagire.
Ma non ci sono solo gli Usa. Taiwan vuole diversificare le relazioni internazionali, sia economiche che politiche, in due direzioni: Indo-Pacifico e Europa. Il teatro regionale è il più importante, Taipei ha già intessuto una fitta rete, fa leva sul comun denominatore di diffidenza nei confronti di Pechino, fa molto affidamento sul Giappone sperando nella continuità post-Abe, molto rimpianto, e guarda con interesse alla crescita di ruolo dell’Australia e di statura strategica dell’India.
L’approccio all’Europa è più cauto. Non è certo sfuggito lo spazio dato alla Cina e all’Indo-Pacifico nel nuovo concetto strategico della Nato, ma nessuno si aspetta che dall’Atlantico vengano impegni per la sicurezza di Taiwan. Ma gli europei possono dare segnali coerenti a Pechino sulla minaccia alla pace e stabilità internazionale in caso di azione militare contro l’isola. L’Ucraina, la cui ombra lunga si avverte in pieno a Taipei, dimostra come la sicurezza internazionale non possa più essere frazionata regionalmente. Nel mondo globalizzato e delle grandi potenze in competizione, la tenuta di Taiwan e della sua democrazia è un interesse strategico anche dell’Europa. Farlo capire a Pechino fa da deterrente politico che puntella quelli militari. E aiuterebbe Taiwan ad essere sempre più “normale”. Che è quello che l’isola vuole: fare chips, non missili. Pechino permettendo.