Corriere della Sera, 24 luglio 2022
Parla Tredici Pietro, il figlio di Gianni Morandi
«Il peso del cognome si può subire o meno; come tutte le cose della vita dipende da come ti approcci tu, non credo sia un danno, anzi è piuttosto una fortuna. Certo poi a vedere il pelo nell’uovo sono andato a scegliermi il peggior mestiere che potessi fare, ma è anche una bella sfida». Tredici Pietro di cognome fa Morandi, quello che «uno su mille ce la fa», ma magari diventano due pure con il figlio, 25 anni e il sogno di affermarsi anche lui come cantante, ramo rapper.
Guardami le spalle è il suo nuovo singolo, ma a dispetto del titolo avverte: «Non devo guardarmi le spalle da nessuno, è un modo per dire “stai con me”, “combatti con me”, è un inno al supporto vicendevole. Un tema che prescinde dal periodo che stiamo vivendo. Il bello della musica è che tutto si può leggere come si vuole, certe parole diventano attuali o perdono di significato a seconda del contesto».
Cresciuto a San Lazzaro di Savena, in provincia di Bologna, il nome d’arte Tredici è il lascito delle giornate tra amici: «Il nome me l’ha dato un mio compagno, eravamo in tredici amici al paese, è il ricordo della nostra comitiva». Già alle medie le prime rime, «ognuno è portato a fare le cose che gli vengono spontaneamente, io avevo questa propensione a scrivere quello che volevo esprimere, ho sempre mantenuto la scrittura come elemento espressivo, non solo di sfogo. La musica non è solo una valvola di scarico, è anche una passione che ho sempre coltivato».
Consigli dall’ingombrante figura paterna nessuno: «È un percorso che ho tenuto per me, i miei genitori hanno saputo che facevo musica solo nel momento in cui ho pubblicato le prime canzoni. Sono rimasti sorpresi positivamente, ma io non sono uno che sfrutta l’occasione, faccio fatica a condividere questa cosa, l’ho tenuta riservata, ne parlo poco, mi pesa chiedere, parlarne». L’intramontabile Gianni Morandi sarà sul palco nel Sanremo 2023, conduttore per cinque serate a fianco di Amadeus, ma lui non si scompone («sono molto contento per lui»). Il piano B non ce l’ha: «Non ci penso perché non fa bene pensarci, è un pensiero perdente e io invece vincerò».
Spotify è bello, ma non troppo: «Strumento fantastico, è bellissimo poter avere un catalogo infinito, ma allo stesso tempo non ha quasi più senso produrre un album, si è perso il gusto di comporre un disco concettuale, di offrire a chi ascolta un trip artistico. E invece a me piace vedere il viaggio che un artista ha concepito ed entrare nel suo mondo, partecipando alle sue emozioni». Riservato in famiglia ma anche sui social: «Non sto tanto al cellulare, lo uso per gli appuntamenti istituzionali; sono uno che tende a tenersi le cose per sé, al massimo è la musica che parla delle vicende personali. Sono convinto che custodire la mia vita privata faccia bene al mio ecosistema».
L’iconografia classica da rapper sono soldi, sesso e droga. «Cose che fanno parte di tutti noi, quindi inevitabile che nei miei testi ci sia anche quello, ma non in maniera esposta e ostentata: a me piace emergere per originalità a livello tematico. E poi non credo che ci siano tanti rapper che sono così come raccontano, è più scena che altro».