il Fatto Quotidiano, 24 luglio 2022
Biografia di Franco Nero raccontata da lui stesso
Saggezza guadagnata a colpi di ciak. “Alla fine l’attore è solo. È totalmente solo. Finisce le riprese e non ha nessuno attorno; per questo quasi tutti finiscono davanti a una bottiglia di alcool. O droga”.
Maestri. “Da Strehler a Buñuel, da Brass a Huston e Tarantino li ho conosciuti tutti. E ho recitato quasi per tutti. Il regista geniale? È quello che resta un bambino”.
Slalom. “Una volta la moglie di un generale indonesiano mi portò su un’isola semi deserta: la scusa erano le tartarughe, in realtà voleva altro; (pausa) ho temuto il peggio”.
Evergreen. “Django è stato il mio passepartout per la vita. E gli sono molto legato”.
Sudori storici. “Ho conosciuto molti potenti; con Reagan ci capivamo, parlavamo di cinema, mentre il massimo dell’imbarazzo l’ho raggiunto con Breznev: mi volle incontrare. E con lui sono finito in una sauna, tra miei silenzi e sguardi bassi”.
L’amore fa 55. “Con Vanessa (Redgrave) stiamo insieme da 55 anni. La prima volta che l’ho vista non mi è piaciuta; la seconda l’ho trovata la donna più bella ed elegante del mondo”.
Franco Nero ha sulle spalle dei numeri rari: a parte il “55”, da record, sfoggia il “240” per numero di film girati e il “30” per le nazioni dove ha recitato. È cosmopolita, infaticabile, serio ma non serioso, in alcuni momenti stupito di se stesso, e non nasconde una sana dose di “fortuna” rispetto alla sua vita e carriera. Lui per tutti è Django, e proprio come il celebre personaggio ha intitolato la sua biografia scritta con Lorenzo De Luca.
Una biografia lunga…
E neanche volevo accettare; sono di quella generazione, poco social, secondo la quale l’attore meno appare, meglio è; noi andavamo al cinema per vedere i nostri idoli, lì e solo lì, per questo non ho mai accettato di girare uno spot pubblicitario. E sono l’unico in Italia.
Invece.
Ho passato gli 80 anni: a questo punto mi fa piacere raccontare all’Italia chi sono e cosa ho combinato nel mondo.
L’Italia lo ignora?
Quelli del cinema non sanno nulla; (sorride) in certi Paesi esteri mi conoscono più che in Italia: fuori ho lavorato tantissimo.
A partire dalla fama acquisita con Django.
Quel film mi ha regalato una fama impressionante: anni fa, quando andavo all’estero, in alcuni Paesi neanche mi chiedevano il documento ma scrivevano “Django” sulla prenotazione.
Grazie a Sergio Corbucci.
Stupendo come regista e come amico, ma per Django ho rischiato di morire assiderato.
Esagerazione da leggenda.
Ma cosa? Il budget era super ridotto, non c’era una lira, quindi tagliarono le controfigure: le scazzottate, le cadute e le sparatorie erano girate da noi; (pausa) il peggio arrivò il giorno della palude: eravamo in pieno inverno, io vestito con una camicetta e un giacchetto, tutto il giorno immerso nel fango. La sera sono finito dai medici con dei principi di congelamento.
E Corbucci?
Divertito. Questo è cinema; (pausa) ancora oggi al 90 per cento recito all’estero: sono appena tornato da Los Angeles e fra tre giorni parto per l’Irlanda dove sarò sul set con Russell Crowe: interpreto il Papa; poi devo andare a Cuba per una pellicola con mio nipote (Micheàl Richardson, figlio di Natasha Richardson e Liam Neeson. Natasha Richardson è la figlia di Vanessa Redgrave).
Nel libro definisce la città di Los Angeles un posto dove droga, alcool e orge comandano.
Eppure nella mia vita non ho provato neppure la marijuana, al massimo fumo tre sigarette al giorno.
Quindi…
Quando sono arrivato lì, negli anni Sessanta, non era facilissimo: alle feste tutti andavano al bagno per la cocaina; (cambia tono) fine anni Settanta, mi trovo a casa di Jack Nicholson: a un certo punto i presenti si siedono a terra, su dei cuscini e attorno a un tavolo tondo. Poco dopo vedo arrivare un cameriere, in mano un vassoio, lo poggia e c’erano solo strisce di cocaina e cannucce per tirare.
E lei?
Ho ringraziato e declinato: “Ho male al fegato”; (pausa) oramai avevo imparato a schivare certe proposte; (ci pensa) negli Stati Uniti sono ipocriti: ti rompono se fumi una sigaretta all’aperto, poi pippano a sfare.
Per anni è stato nelle grazie di Hugh Hefner, il patron di Playboy.
Da lui mangiavo benissimo.
Non era famoso per il cibo…
Era un grande appassionato di cinema: la sera, nella sua villa, organizzava delle proiezioni e si era innamorato di un film di Salvatore Samperi, Scandalo, dove ero il protagonista. Quindi volle conoscermi, e da lì siamo diventati amici; (cambia tono)una volta ci ho portato Vittorio Gassman, anche perché da Hefner incontravi l’intera Hollywood e serviva per i rapporti professionali.
Dalla provincia italiana agli Studios.
Lo so, è incredibile.
Il primo grazie?
Professionalmente a Giorgio Strehler, quando avevo 19 anni andai da lui al Piccolo e non smontò le mie velleità attoriali: “Hai fisico e voce. Vai avanti”; poi un giorno mi disse: “Girano un film sotto la metro. Provaci”. Era Pelle viva. Io in mezzo a non so quante comparse. Il caos. Fino a quando l’aiuto regista si mise a urlare: “Chi se la sente di pronunciare una battuta?”. “Eccomi!”
Però nel libro si definisce timido.
Lo sono, ma è sempre stata più forte l’ambizione.
Si è mai proposto per un ruolo?
Nel 1969 leggo il copione de La vergine e lo zingaro. Me ne innamoro. Allora mi presento dal produttore e senza appuntamento: “Lo zingaro sono io”; (pausa) la “vergine” era Joanna Shimkus, futura moglie di Sidney Poitier. Sidney era sul set, gelosissimo di noi due. Alla fine delle riprese le pose l’aut aut: “Decidi, o mia moglie o la carriera di attrice”. Joanna ha abbandonato il cinema.
Tutte innamorate di lei.
È possibile.
È cronaca.
Nel 1968 sono stato nominato l’attore più sexy del mondo, davanti a Marlon Brando e Paul Newman.
Qualche volta le sarà costata, questa bellezza.
Una sera, a Giacarta, la moglie di un generale mi corteggia tutto il tempo con il marito che nel frattempo raccontava della sua collezione di bestie feroci.
Perfetto.
Non era una donna abituata ai “no”; (cambia tono) mi ha portato su un’isola e durante la cena ha allontanato le hostess: aveva deciso di ballare guancia a guancia, nel frattempo vedevo imminente il momento della camera da letto e automaticamente la mia testa pensava a quegli animali feroci.
Soluzione?
Ho portato il discorso sulle mie profonde convinzioni cattoliche, poi ho concluso su Vanessa e la dedizione a lei.
Tanto timido non è.
(Ride) Invece sono chiuso, e ringrazio Laurence Olivier per un consiglio: “Quello che conta è lo schermo, non il resto. Anche la roulotte e la segretaria sono stupidaggini. Basta essere lì sopra…”.
Tra lei e Giuliano Gemma c’era competizione?
No, eravamo amici. Ed era una persona perbene.
Secondo la figlia di Gemma c’era competizione.
Va bene, qualcosa, ma positiva: sotto alcuni punti di vista uno tirava l’altro.
Ha girato con sua maestà Buñuel.
Era talmente antifranchista da rifiutarsi di chiamarmi “Franco”: per lui sono sempre e solo stato Nero; (pausa) con lui ho capito un aspetto cruciale dei geni: sono dei bambini.
Esempio.
Ero sul set di Tristana, siamo pronti, ma scoppia il casino: Buñuel non trova la sua borsa. Tutti iniziamo a cercarla, altrimenti non si calmava. Dopo un po’ ecco la borsa. Allora la troupe ricomincia a lavorare, ma Louis si allontana. Lo seguo. Mi nascondo. E lo vedo sedersi su una panchina, aprire la borsa ed estrarre un panino con il prosciutto e una bottiglietta piena di vino rosso.
Tutto qui?
Appunto: tutto qui. Vado da lui e gli domando: “Ma che fai?”. Lui con gli occhi persi: “Nero, non dire nulla, ma ho fame. E non voglio farmi vedere dagli altri, altrimenti si fermano e non lavorano”.
Altro genio?
Tarantino è un fanciullo meraviglioso e gliel’ho detto; (pausa) aggiungo Fassbinder, con un piccolo rimpianto.
Quale?
Nel 1982 ho recitato per lui in Querelle de Brest, ma sul set non ho capito quanto stesse male, quanto fosse preda di droga e alcool.
Poco dopo è morto per overdose.
Alcuni giorni prima del decesso lo incontro in un ristorante. Ci salutiamo. Poi chiama un cameriere, prende la sua penna, trova un foglio e scrive un simil-contratto per scritturami per i suoi prossimi tre film; (pausa) la prima volta che ci siamo parlati era al telefono, ma lui è rimasto zitto.
Zitto?
Il suo segretario me lo ha svelato tempo dopo: “Era talmente emozionato di conoscerla da non trovare le forze per parlare”.
A differenza di sua moglie, attivista di sinistra, non si è mai impegnato politicamente.
Sono figlio di un carabiniere, ho in me i suoi insegnamenti, la sua discrezione; (cambia tono) però se sto con Vanessa da 55 anni qualcosa vorrà dire.
Cosa?
Le sono stato vicino pure nelle sue battaglie condotte negli Stati Uniti e lì non sono stati teneri con lei: una volta doveva vincere l’Oscar, era chiaro a chiunque, e invece nulla. Con Jane Fonda e Ingrid Bergman che urlavano allo scandalo.
Con sua moglie ha girato due film di Tinto Brass.
Che non hanno incassato una lira. Ma belli.
Casti.
(Sorride) Dopo quei due flop si è rotto i coglioni e ha cambiato genere; Tinto è un altro bambinone.
Ha mai provato a coinvolgerla di nuovo?
Pochi anni fa mi ha inviato una sceneggiatura. Bellissima. Allora lo chiamo: “Ci sto, però togli qualche esagerazione”; mi ha mandato a quel paese.
Le scene di sesso la imbarazzano.
Alcune volte; (pausa) non è sempre semplice spogliarsi davanti a tutta quella gente e quando si girano quelle scene improvvisamente ci sono tutti.
Curiosoni.
(Cambia tono) Pochi anni fa il regista di Amiche all’improvviso chiese a me e a Joan Collins di spogliarci. Lei si rifiutò. Io no; (pausa) per fortuna è stata una scena veloce, non ho più il fisico di un ventenne.
Da regista ha appena finito di girare L’uomo che disegnò Dio. Nel cast c’è Kevin Spacey, più volte accusato di molestie e violenza.
Prima che uscisse questa notizia ero circa il cinquemilionesimo uomo più conosciuto al mondo; dopo sono entrato nei 200, davanti a De Niro; (cambia tono) negli Stati Uniti e in Inghilterra è scoppiato il bordello.
Pentito?
Anni fa ho conosciuto Kevin a Londra, era impegnato in teatro, ed è il più grande attore statunitense. Un fenomeno.
E allora?
Tutti sbagliamo, poi nella vita si può perdonare.
Su di lui ci sono nuove accuse.
(Silenzio) L’ho visto molto provato, ha l’atteggiamento di chi affronta un trauma immenso.
Lei è mai stato depresso?
(Aspetta a rispondere) Credo proprio di no.
Eppure…
Nel mio mondo è comune e non solo con nomi conclamati come Vittorio (Gassman) e Alain Delon; il problema è il set, quella solitudine assoluta, i famosi alti e bassi, il riflettore acceso e poi spento. È facile sopperire con una bottiglia di alcool.
Non si è mai sentito solo.
Ogni tanto ho portato mio figlio Carlo sul set, altre volte Vanessa, altre ancora ho scelto di dormire in luoghi popolari per poi stare con le persone del luogo. Ed è sempre andata bene.
Chi è lei?
Sono un contadino un po’ intellettuale e un po’ fortunato; (pausa) Anzi no, sono filosofico.