La Stampa, 24 luglio 2022
Gli eredi di casa Savoia rivogliono gioielli e corona
La battaglia dei gioielli. Quelli della Corona, chiusi e nascosti in un caveau della Banca d’Italia, dal 5 giugno 1946. Gli eredi di Casa Savoia li rivogliono indietro, a suon di carte bollate, ingiunzioni, richieste, denunce e processi, appellandosi adesso persino alla Corte costituzionale, e alle leggi della Repubblica, nata sulla sconfitta della monarchia. L’ultima tappa è questa. Se va male, Strasburgo: «Noi non ci arrendiamo». Anche perché è tanta roba. Secondo Sotheby’s, che un po’ se ne dovrebbe intendere, valgono 300 milioni di euro. Per Emanuele Filiberto, invece, non hanno prezzo, come tutte le cose care, «perché rappresentano la storia di una famiglia che ha regnato sull’Italia dalla sua nascita, e di conseguenza anche la storia del nostro Paese». Da 76 anni stanno sigillati, come sepolti e dimenticati, dentro a un cofanetto a tre piani in pelle scura, foderato di velluto azzurro Savoia, dopo essere stati catalogati al tramonto di quel lontano 5 giugno dal Ministro della Real Casa Falcone Lucifero, con l’assistenza di Daniele Ventrella, segretario del sindacato nazionale degli orafi. Da allora hanno visto la luce solo una volta, negli Anni 70, perché qualcuno aveva scritto che erano stati trafugati, anche se non era vero. Poi basta. Un’assurdità, secondo Emanuele Filiberto, il figlio di Vittorio Emanuele e Marina Doria.
Prima, bisognerebbe solo decidere di chi sono questi monili di rara bellezza, che comprendono uno splendido diamante rosa, le collane della regina Margherita, il suo celebre diadema, 6732 brillanti e 2000 perle. Lo Stato non ha dubbi, lo sancisce la «XIII disposizione transitoria e finale»: «I beni esistenti nel territorio nazionale, degli ex re di Casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi sono avocati allo Stato», e «i trasferimenti e le costituzioni di diritto reali sui beni stessi, che siano avvenuti dopo il 2 giugno 1946, sono nulli». Peccato però che non li abbia mai rivendicati. La storia di quei gioielli sta scritta in un documento in carta da bollo da 12 lire: «L’anno del 1946, il 5 giugno, alle ore 17, nei locali della Banca d’Italia, via Nazionale numero 91, si è presentato il signor avvocato Falcone Lucifero, reggente il Ministero della Real Casa», il quale «dichiara di aver ricevuto incarico da Sua Maestà Umberto II di affidare in custodia alla cassa centrale, per essere tenuti a disposizione di chi di diritto, gli oggetti preziosi che rappresentano le gioie in dotazione della Corona del Regno».
L’inghippo è tutto qui. «Chi di diritto» per i Savoia è la loro famiglia. E sono così sicuri di aver ragione che nell’ultima richiesta rivolta al Tribunale civile di Roma, invitano i giudici a far decidere in merito alla Corte Costituzionale. Perché, spiega l’avvocato Sergio Orlandi, che tutela gli interessi degli eredi, - i 4 figli di Umberto II, e cioé Vittorio Emanuele e le tre sorelle Maria Gabriella, Maria Pia e Maria Beatrice,- «la XIII disposizione entra in contraddizione con 5 articoli riconosciuti dalla stessa Carta: l’articolo 42 secondo il cui comma 3 viene espressamente vietato che i beni di proprietà privata possano essere espropriati senza un indennizzo, e gli articoli 24, 25, 27 e 111, che dimostrano tutti come la Costituzione sarebbe stata violata».