Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  luglio 23 Sabato calendario

Biografia di Joël Dicker raccontata da lui stesso

Guardando il lago cittadino dall’alto, insieme a Joël Dicker — acqua cristallina baciata da un tiepido sole, sponde che trasudano serenità, atmosfera di assoluto relax — viene subito in mente la battuta pronunciata da Orson Welles nel cult Il terzo uomo: « In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto guerre, terrore, assassinii, massacri: e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, 500 anni di pace e democrazia, e cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù » . E del resto siamo nella tranquilla Ginevra, negli uffici della neonata casa editrice Rosie & Wolfe, poche stanze, bianchissime, in un edificio signorile in centro, tra uffici e boutique delle griffe. Quando ascolta la citazione dal film — « incredibile, non la conoscevo! » — lo scrittore trentasettenne nonché padrone di casa scoppia in una risata: « È vero, sono nato e lavoro in un posto che ispira serenità » , ammette. E che adesso vanta un nuovo prodotto di esportazione: i suoi romanzi.
Pubblicati da noi da La nave di Teseo, hanno venduto già oltre quindici milioni di copie. Un successo esploso con La verità sul caso Harry Quebert e proseguito senza sosta fino all’ultima uscita, che completa una trilogia ambientata nel Maine: si intitola Il caso Alaska Sanders ed è il dominatore assoluto delle classifiche di vendita, nella torrida estate italiana. Come le altre due storie “ sorelle” è un crime raffinato, letterario, esistenziale, com’è nello stile di un autore che spopola con thriller senza adrenalina né pallottole: una rarità. In più chi li crea è diventato anche editore, fondando un proprio marchio che distribuisce i suoi titoli sui mercati francofoni: seconda rarità. Ecco perché, per conoscerlo meglio, Robinson si è trasferito per una giornata nel suo regno. Il “ sovrano” — t- shirt scura, camicia di jeans — ci apre la porta con un bel sorriso. Prima di svelarci gli ingredienti della sua ricetta vincente: «Personaggi accattivanti capaci di dirsi la verità » , lontananza « dall’attualità ansiogena » ma capacità di «raccontare storie anche disturbanti e sentimenti ambivalenti (come l’invidia)». E poi «grande spazio lasciato al lettore, per stimolare il dialogocon se stesso».
Però, Joël , cominciamo dalla scelta di fondare una casa editrice, la Rosie & Wolfe.
«Non è stata una decisione presa da un giorno all’altro. Tutto inizia anni fa, quando ho cominciato a pubblicare a Parigi per il grande editore Bernard de Fallois. Nonostante avesse sei decenni più di me (era nato nel 1926) tra noi c’era una forte intesa, mi dava la sensazione che sarebbe stato al mio fianco per sempre.Con lui partecipavo a tutte le fasi del progetto, dalla pubblicazione alla vendita dei diritti: un modus operandi molto insolito per un autore. Così quando nel 2018 Bernard ci ha lasciati, ordinando nelle ultime volontà la chiusura della casa editrice dopo la sua morte, ho realizzato che non volevo andare da qualcun altro. Sia perché mi sembrava di tradirlo, sia perché sono abituato a essere coinvolto anche sul piano editoriale e altrove non me lo avrebbero permesso. Ed eccomi qui: abbiamo iniziato nella primavera 2020, ma aperto ufficialmente nel marzo di quest’anno».
Ci dice qualcosa di più sul rapporto con il suo mentore?
«Era un uomo speciale. Anche se tra noi due all’inizio è stato molto difficile, a causa del gap generazionale. Non ci capivamo proprio: lui mi giudicava una persona giovane e inutile, io una persona vecchia e inutile. Poi è scattato il clic, l’intesa, grazie al suo entusiasmo perHarry Quebert, già molto prima che il romanzo avesse successo. Troppo facile quando accade dopo: è ovvio che se il libro sfonda l’editore diventi il migliore amico dell’autore! Con Bernard non è stato così».
E ora lei ne segue le orme: come sta organizzando il lavoro?
«La prima parte del 2022 l’ho dedicata all’uscita di
Alaska Sanders e alla ripubblicazione, sotto l’egida Rosie & Wolfe, dei miei libri precedenti, di cui ho recuperato i diritti dopo la chiusura delle edizioni de Fallois. Veniamo da due anni di pandemia, in cui in pratica la promozione si è fermata: il mio L’enigma della camera 622 è uscito in pieno lockdown. Non incontrare il pubblico è una sensazione strana per un autore. Per questo ora andrò in tour ovunque: paesi europei, Canada, Stati Uniti. Sento il bisogno di riconnettermi con i miei lettori».
Pubblicherà anche libri di altri autori?
«Solo a partire dal 2023, e in quantità limitata: due all’anno. Pochi, è vero, ma è per essere sicuro di poterli sostenere e difendere con il massimo dell’impegno.
Certo, questo mi obbliga a prendere decisioni difficili.
Mi vengono proposte tante buone storie, è arduo dire no. Alcune mi arrivano da editori di altri paesi, e tante direttamente qui, una media di dieci a settimana».
Ci saranno esordienti nel catalogo?
«Questo accadrà ancora dopo, tra qualche anno, quando ci saremo consolidati. Tengo a leggere tutti i romanzi che mi arrivano con molta attenzione: non voglio fare il passo più lungo della gamba, ma procedere con tranquillità, passo dopo passo».
Quando era un aspirante scrittore ha ricevuto rifiuti?
«Certo, tanti!».
Dirle no è stato come smarrire il biglietto vincente della lotteria.
«Mi rendo conto che ora, col senno di poi, respingermi può sembrare una scelta da perdenti. La realtà però è che un editore deve essere cauto nell’accettare un libro, perché poi se ne deve prendere cura, coccolarlo, come fece Bernard de Fallois per
Harry Quebert.
E come per l’Italia ha fatto Elisabetta Sgarbi, che ne ha acquisito i diritti per prima, quando ancora non lo conosceva nessuno. Le sono davvero grato per come segue ogni mio romanzo».
Il mercato in generale non è così attento e sensibile?
«Credo che ovunque si pubblichino tanti, troppi volumi: e questo non fa bene. Gli addetti ai lavori, dal marketing delle case editrici ai giornalisti che li ricevono sulle loro scrivanie, sono assediati da troppe uscite. Questo è un brutto segnale per la qualità complessiva del sistema. La linea dovrebbe essere “meno libri, più opportunità”».
Una chance lei l’ha avuta. Prima ha fatto la gavetta?
«Da giovanissimo ho frequentato a Parigi una scuola di recitazione. Non sapevo cosa fare, e ho scelto quella strada più che altro per prendere tempo per riflettere. È stata una grande esperienza, mi sono divertito, ma ho capito che non volevo farlo a vita. Allora mi sono detto: prendo un titolo di studio, può sempre servire. Mi sono iscritto a legge. Dopo ho lavorato part time come assistente parlamentare e intanto scrivevo. Finché Bernard de Fallois mi ha detto di lasciare tutto e di dedicarmi a tempo pieno alla letteratura».
A proposito di letteratura: si considera come uno scrittore di quel genere che in Italia definiamo noir?
«No, non mi vedo così. Trovo difficile definirmi, mi sento nel pieno di un processo che produrrà spero ancora tanti romanzi. E anche se molti dei miei libri sono in effetti delle crime stories, non seguono gran parte dei codici del genere».
Ci fa qualche esempio di “trasgressione”?
«In primo luogo, non hanno atmosfere dark. Nelle mie pagine c’è molta più luce che ombra. E poi non c’è il classico poliziotto borderline, stropicciato, magari bevitore. È vero, qualcuno muore e c’è un’indagine, ma, anche se non ci fossero, la storia starebbe in piedi lo stesso. Sono vicende trainate non dall’omicidio, ma dalla descrizione dei caratteri. Il latocrime è solo il sale con cui condire la pietanza».
Però, vedi “Il caso Alaska Sanders”, sa maneggiare con sapienza alcuni strumenti tipici del thriller come i twist, i colpi di scena.
«Non esiste una ricetta per utilizzarli al meglio, evitando di abusarne. Però so per certo che molti miei lettori sono riusciti a leggere in soli tre giorni il mio ultimo romanzo, che pure è impegnativo sul piano della lunghezza e che ho impiegato due anni e mezzo a scrivere! Diciamo che il mio procedimento ricorda loslow cooking: tanta preparazione e 15 minuti per assaporare il risultato, ma ne vale la pena».
Ok, non ci sono formule magiche. Ma qualche idea sul segreto del suo successo se la sarà fatta.
«Al primo posto metterei i personaggi. Sono uomini e donne accattivanti che si muovono in scenari altrettanto gradevoli, e che per la gran parte ci piacerebbe incontrare, conoscere. Non sono né buoni né cattivi. Ma è gente che, al contrario di quanto accade ad esempio sui social media, si dice la verità. Sa che vivere, avere relazioni umane, è complicato, e che il nostro cammino è lastricato di cose che non sappiamo. L’altro elemento vincente, a mio giudizio, è che do tanto spazio ai lettori: non bisogna dire loro troppo. Il libro è di chi lo legge, non di chi lo scrive. Io ho meno potere del lettore: se non ci fosse, questo oggetto qui (prende dal tavolo una copia diAlaska Sanders, ndr) sarebbe solo un soprammobile. Bisogna che qualcuno lo accolga».
Ci spieghi meglio questo processo.
«Il mio scopo è dare al lettore un’opportunità di dialogare con se stesso. Forse l’unico momento, in questo pianeta pieno di chiasso, in cui non si è connessi (o iperconnessi) con gli altri, ma si è soli, concentrati su di sé. Quando veniamo toccati da una storia arriviamo a conoscere un po’ di più noi stessi: chi siamo, cosa vogliamo. È una sensazione rara, in un mondo in cui aspettiamo sempre di sapere quanto valiamo dagli altri, dai like su Facebook o Instagram. Un libro ci riallaccia al nostro istinto, che abbiamo ma non usiamo quanto dovremmo: e infatti camminiamo con Google Maps perfino nella città in cui viviamo. È tempo di tornare a servirci dell’istinto.
Prendiamo il sentimento della paura: solo l’istinto ci fa capire se nasce da una giusta prudenza o dall’ansia».
Ha detto una volta che uno dei sentimenti più potenti dell’uomo è l’invidia.
«È una sensazione fortissima, e dice molto sia di chi la prova che di chi ne è oggetto. Ti può distruggere, bruciare, o darti l’energia per andare avanti. Poi come narratore è preziosa: da quest’unica emozione si possono ricavare migliaia di storie».
E le sue, di storie, entusiasmano tanti lettori italiani: questa estate è lei il re delle classifiche di vendita.
«Le nostre culture sono molto simili, non dimentichiamo che un pezzo del mio Paese parla italiano, una lingua che capisco bene, mia nonna era italiana, di Trieste, fuggita qui durante la guerra. Quando vengo in Italia mi sento acasa. Nel vostro Paese, ma anche altrove, scopro che i miei lettori sono di tanti tipi diversi: dai professori di grande cultura a chi finisce uno, massimo due libri all’anno».
Un altro merito che le va riconosciuto è che, in un mondo di autori votati all’autofiction, in cui tutti parlano di se stessi, dei propri genitori o antenati, delle proprie grandi e piccole nevrosi, lei scrive storie di finzione ambiziose, complesse, a tutto tondo.
«È perché sento di appartenere a una grande tradizione, quella dello storytelling, della narrazione che ha le sue radici nell’oralità, dall’Iliade in poi. Un’arte che stimola l’ascolto, che richiede attenzione, una grande cura. Oggientertainment è diventata una brutta parola. Io invece credo il contrario: viviamo in un periodo terribile, guerra, pandemia, crisi climatica. Abbiamo bisogno di uno spazio sicuro in cui essere per un po’ qualcun altro. È questo che spiega l’attuale boom delle serie tv. Ma sono ottimista sul fatto che prima o poi su questo piano la letteratura riprenderà centralità: è la più forte e potente forma di intrattenimento che ci sia».
Come mai per la sua trilogia più celebre non ha scelto la sua Svizzera ma l’americanissimo Maine?
«Ci vivevano i cugini di mio nonno e da quando avevo quattro anni ho trascorso tante vacanze lì, con miofratello e mia sorella. Un posto fantastico: oceani, foreste, costruivamo case sugli alberi, pescavamo granchi. Ero uno studente svogliato, quelle estati per me rappresentavano la promessa di un nuovo inizio. Ma credo a catturarmi a livello letterario sia stata soprattutto la sua luce: mi ha ispirato, Harry Quebert l’ho iniziato lì».
Poi il libro è diventato una serie tv: succederà anche ad “Alaska”?
«Probabilmente sì, siamo in trattative, per ora non posso dire altro. E comunque lo spero: stare sul set diHarry Quebert è stato entusiasmante».
Ultimissima domanda: quanto è preoccupato per gli episodi di cancel culture degli ultimi tempi? Tra le sue fonti di ispirazione dichiarate c’è Nabokov, uno degli autori finiti nel mirino.
«Penso che siano gravi forme di censura. Non posso ancora credere che recentemente, in Texas, abbiano cancellato Maus di Art Spiegelman. Quando si arriva a questi livelli si finisce per distruggere la società. Perché una società che non è più in grado di guardarsi allo specchio è spacciata. E la letteratura è il nostro specchio: per questo è e deve essere disturbante, si deve chiedere il perché delle cose. Ci aiuta ad ammettere che quelle cose in qualche modo ci riguardano. Tutti».