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 2022  luglio 23 Sabato calendario

In morte di Mario Pappagallo

«Mario, adegua». L’invito rivolto con tono stentoreo dal caporedattore mentre era al telefono con il proto risuonava almeno una ventina di volte a sera. A quei tempi, neppure così lontani, gli articoli troppo lunghi si sistemavano con l’aiuto decisivo dei tipografi, i quali li adeguavano, ovvero li mettevano a misura dopo averli ricevuti da un paziente uomo di macchina. Quando uno di loro scese in redazione determinato a capire chi fosse questo misterioso signor Mario Adegua così importante nell’economia del giornale ma che lui non conosceva, ci buttammo tipo pacchetto di mischia del rugby ad abbracciare lui. Il nostro dottor Mario, l’unico e inimitabile Paps. 
Adesso che gli innumerevoli aneddoti ci aiutano a sorridere per tenere indietro le lacrime dovute alla sua scomparsa improvvisa, ci accorgiamo che non gli rendono giustizia. Mario Pappagallo non è stato solo un collega molto amato. Era soprattutto un bravo giornalista, un divulgatore di cose mediche serio e preciso, e al tempo stesso una roccia del desk, il caposervizio che chiudeva le pagine di notte, che non si tirava mai indietro. Trent’anni di ribattute, di sigarette, di tensioni spente con quel sorriso ironico, con la sua calma inscalfibile. 
Ma non è per le sue doti professionali che viene così difficile scrivere queste righe. Con la sua umanità, Mario è stato un pezzo della vita di almeno tre generazioni di giornalisti del Corriere. Quando andò in pensione, si mise ad aspettarlo un picchetto d’onore composto da colleghi, tipografi, fattorini. Giunto alle scale del primo piano, convocò tutti fuori dalla redazione. Aveva noleggiato un Ape Car, un baracchino che attendeva in via San Marco, per un bicchiere di commiato. E siccome anche lui era prigioniero volontario di questo nostro senso di appartenenza, non andò lontano. La mattina dopo l’inizio della guerra, quando dopo lo sforzo immane di rifare il giornale si viene assaliti dalla sensazione di aver sbagliato tutto, suonò il telefono nella stanza dei capiredattori centrali. Mario voleva fare i complimenti. Era via ormai da anni. Ma se lo diceva l’uomo delle imprese impossibili, delle pagine stravolte da capo a piedi nello spazio di un paio d’ore, voleva dire che era stato fatto un buon lavoro. 
Caro Paps, da ieri riusciamo solo a pensare questo. E poi un ricordo, nel segno del tuo modo tranquillo di essere, state buoni che tutto andrà a posto. «Nasconditi all’ingresso di sala Albertini, e quando passa urlando gli salti addosso, così lo blocchi ed evitiamo una tragedia» fu l’ordine rivolto durante una sonnolenta domenica di tanti, troppi anni fa, a un praticante incaricato di sbarrare la strada a un caporedattore intenzionato a dirimere una lite nata per una questione di spazi in pagina uccidendo l’allora capo dei grafici. 
Potremmo andare avanti per giorni, e lo faremo. Quella volta che ti vedemmo con gli occhi lucidi per lo scudetto della tua Roma; quella volta che per sbaglio il centralino ti passò Cesare Romiti, e tu con grande professionalità gli facesti una visita a distanza, con relativa diagnosi. Tanti pezzi di vita vissuta insieme non tolgono nulla al dolore che proviamo ora, mentre ci stringiamo a Franca e ai tuoi ragazzi. Perché se ci fosse davvero un senso, questo articolo dovrebbe avere una firma collettiva. I tuoi amici delle Cronache italiane e di ogni altra redazione, i colleghi che hai aiutato, ai quali hai dato un consiglio, guardandoli crescere e poi magari volare via verso altri incarichi. 
«Le uniche cose che contano sono il rispetto e lasciare un buon ricordo» scrivesti alla fine del tuo ultimo giorno di lavoro. Ma averti detto tante volte quanto ti vogliamo bene, non rende meno doloroso il compito di farlo oggi, per l’ultima volta. Ci mancherai moltissimo. E non sai quanto pagheremmo per tornare a sentire quel grido. Mario adegua, per sempre.