La Stampa, 23 luglio 2022
Il carabiniere Antonacci
«I carabinieri? Li chiamo colleghi perché carabiniere lo si rimane per sempre». È l’inedito Biagio Antonacci che svela di aver composto «Vicolo della mia città» in uno stanzone della caserma Cernaia di Torino quando era un soldato di leva. Quando, poco dopo il diploma da geometra, indossava la divisa e sotto la branda nascondeva la chitarra. Ai tempi del servizio militare si poteva decidere di entrare nell’esercito o diventare carabiniere. Lui scelse la Benemerita. Ora, per i 200 anni della Scuola allievi carabinieri di Torino, ricorda quel periodo.
Dalla divisa a cantautore. Per dirla con i suoi testi “Sono cose che capitano”?
«Destini che si intrecciano. Dopo la scuola allievi a Torino sono stato destinato a Garlasco, in provincia di Pavia. Lì viveva Ron, lo consideravo un mito. È lì che l’ho conosciuto. Uno degli incontri più importanti della mia vita nasce dall’Arma dei carabinieri. Pensi lei il destino: carabiniere cantautore destinato a Garlasco nel paese del suo mito».
Ci racconta com’è andata?
«Ron aveva una macchina rosso chiaro e noi ci siamo affiancati con la camionetta. Il mio brigadiere fermò Ron e gli disse: “C’è qua un suo grande fan”. Io mi feci avanti: “Sono un tuo fan incredibile. Indosso la divisa e scrivo canzoni”. Mi invitò a portarle a casa sua: “Se non ci sono io, lasciale a mia madre”».
Gliele portò?
«Certo. E lui continuò ad ascoltarle sino a che produsse il mio primo disco con Massimo Luca e Vincenzo Tempera. Era l’89, l’album era “Sono cose che capitano”. E Ron mi portò in tourné come supporter. Nell’88 andai a Sanremo con una canzone di Ron, “Voglio vivere in un attimo”. Io scrissi il testo e lui la musica. L’amicizia è continuata».
Ogni tanto ricordate quel momento?
«Ovviamente, quando capita».
Come arrivò a frequentare il corso allievi carabinieri?
«Ero un ragazzo di Rozzano, periferia di Milano tutt’altro che semplice. Non c’era molto affetto per l’Arma, eppure io guardavo i carabinieri con grande ammirazione. Ero attratto dalla loro figura sempre precisa, puntuale, presente, con cui potevi confrontarti».
Così decise di arruolarsi?
«Suonavo già la batteria, ero un musicista. Però la musica non era ancora il mio lavoro e presentai domanda per entrare nell’Arma. La mia destinazione fu Torino, la caserma Cernaia, è lì che iniziai la mia esperienza».
Marciava e suonava?
«Probabilmente ero l’unico carabiniere che aveva la chitarra nascosta sotto la branda».
Uno dei pochi che durante l’ora libera componeva invece di correre?
«A dire la verità suonavo pure quando non c’era l’ora libera. Suonavo anche batteria e tamburo e mi misero nella banda della scuola. Fu un’esperienza meravigliosa. Ho imparato molto, anche in fatto di disciplina. Ricordo l’educazione, la rigidità. Pensi che quando uscivamo in centro a Torino ci chiamavano i “pinguini”. Dovevi indossare i calzini giusti, tenere il portamento corretto».
E i capelli?
«Non c’erano più. Quando arrivai alla Cernaia li portavo lunghi sino alla schiena. Me li tagliarono corti. Ma non a zero, quella via di mezzo che è ancora peggio».
Capelli a parte, cosa porta con sé di quel periodo?
«La disciplina, indubbiamente. E la malinconia. Per me fu il primo vero distacco dalla famiglia. Ricordo la cabina del telefono e i gettoni per chiamare a casa, i genitori, la fidanzata. Ricordo i permessi. Pochi giorni fa ne ho trovato uno di 48 ore per poter andare a Milano».
Il giorno del giuramento come andò?
«Il ricordo non è chiarissimo, fu una di quelle mattine particolari che quando le vivi rimangono dentro, ma come immagini un po’ confuse. Fu un’emozione incredibile. Il primo giorno in cui mi sono sentito responsabile di qualcosa».
Poi scelse la musica?
«Mi congedai a malincuore. Ero geometra e musicista. A fine Anni 80 avevo una gran voglia di rientrare nell’Arma e fare la scuola sottufficiali, ma quell’anno mi presero a Sanremo. Quindi dovetti scegliere».