il Fatto Quotidiano, 22 luglio 2022
Cronologia della caduta di Draghi
Dall’inceneritore di Roma allo scioglimento delle Camere e al voto anticipato, passando per le modifiche al Reddito di cittadinanza e alle pressioni per formare un nuovo governo senza il M5S. Il “governo dei Migliori” è caduto così, in poco meno di tre mesi.
2 maggio. Il Cdm approva il decreto Aiuti ed Energia. È una riforma pensata “per 28 milioni di italiani”, esulta il premier. Ma nel provvedimento c’è anche altro ed è l’innesco della protesta pentastellata. Dentro, infatti, c’è pure la controversa norma sull’inceneritore di Roma con cui si nomina ufficialmente il sindaco, Roberto Gualtieri, Commissario per i rifiuti della Capitale. Questo permetterebbe a Gualtieri di realizzare l’impianto usando poteri speciali e bypassando il piano rifiuti regionale, che invece non prevede inceneritori. Il M5S non ci sta e si astiene dal voto. Conte è amareggiato: “La norma è un’autostrada per gli inceneritori in tutta Italia. Abbiamo cercato di farla togliere perché non è neppure in linea con la direttiva europea”. Deluso il ministro Patuanelli: “Sbagliato sporcare le idee politiche del M5S”.
30 giugno-1 luglio. Nella notte la Camera approva un emendamento al decreto Aiuti che applica una stretta al Reddito di cittadinanza: anche i privati potranno proporre offerte ai beneficiari del reddito, ma in caso di doppio rifiuto bisognerà accettare la terza proposta di lavoro. Pena la decadenza del beneficio. È una stretta a un altro cavallo di battaglia M5S, introdotto col Conte-1. Il Movimento si sente accerchiato: prima l’inceneritore, ora il Reddito di cittadinanza. La misura passa con il voto contrario dei 5S, ma con il consenso di centrodestra e Pd, che sentenzia glacialmente: “Modifica utile per aiutare i settori in carenza di manodopera, come quello turistico e ricettivo”.
6 luglio. La tragedia della Marmolada fa rinviare di 48 ore l’incontro tra Draghi e Conte. Il M5S vede le proprie bandiere identitarie intaccate, così Conte presenta a Draghi un documento e richieste specifiche su cui il M5S attende risposte dal governo. Nove punti: reddito di cittadinanza, salario minimo, decreto dignità, aiuti a famiglie e imprese, transizione ecologica, superbonus 110%, cashback fiscale, intervento riscossione, clausola legge di delegazione. “Nove punti per dare un segnale”, commenta l’“avvocato del popolo”. C’è poi altro e riguarda il rapporto che ultimamente il premier ha coi partiti. Da qualche tempo, nel M5S e non solo, ci si lamenta di non essere coinvolti nelle decisioni di Palazzo Chigi. Il governo da qui a fine legislatura pare non avere obiettivi davanti a sé e quel che approva lo fa spesso in modo autoritario: “Non c’è programmazione, non c’è confronto, non facciamo più cabine di regia”, sospira qualche ministro. Il sospetto è che Draghi abbia cambiato approccio nei confronti dei partiti da fine gennaio in poi, cioè da quando quegli stessi partiti gli sbarrarono l’elezione al Quirinale.
7 luglio. Il M5S conferma la linea dura sul decreto Aiuti. Alla Camera potrà sfruttare il regolamento che prevede il voto disgiunto prima sulla fiducia e poi sul testo, mentre l’operazione non potrà essere replicata in Senato. Ed è proprio quello che accade a Montecitorio: il governo incassa la fiducia con l’ok dei grillini, anche se 28 di loro – tra assenti e “in missione” – non partecipano al voto. Conte ribadisce: “Vogliamo collaborare. Sul decreto Aiuti votiamo la fiducia, al Senato vediamo”. Ed è infatti lì che si dovrà dare una risposta definitiva sull’inceneritore tanto osteggiato dal M5S.
11 luglio. Prima del voto sul testo del decreto Aiuti, che sarà poi approvato dalla Camera, il M5S abbandona l’aula. Conte è irremovibile: “Nel decreto Aiuti c’è una questione di merito per noi importante. È questione di coerenza e linearità”.
14 luglio. Il governo incassa la fiducia del Senato sul decreto Aiuti, che viene approvato. I senatori 5S però non partecipano al voto e Draghi coglie la palla al balzo nonostante l’ampia fiducia appena incassata. Fa annullare un Cdm previsto nel primo pomeriggio e sale al Colle da Mattarella per rassegnare le dimissioni. L’incontro dura un’ora e per il Quirinale c’è “totale identità di vedute”. Ma tra Mattarella e Draghi qualche frizione c’è. Il premier si dice stufo di una maggioranza litigiosa, vorrebbe andarsene perché non tutti sono dalla sua parte, ma a Mattarella non va di staccare la spina ad un governo che ha appena incassato una comoda fiducia, così respinge le dimissioni e rinvia Draghi alle Camere. Il premier sarà in Parlamento il 20 luglio e avrà dunque cinque giorni per ricomporre la frattura.
20 luglio. Il governo ottiene la fiducia in Senato ma senza il voto di Forza Italia, Lega e M5S, che rispediscono al mittente la richiesta di un “nuovo patto”. Il no dei grillini era atteso, meno quello di Salvini e Berlusconi. Se non altro perché negli ultimi giorni s’era fatta strada l’ipotesi di un esecutivo a guida Pd-centrodestra, senza la partecipazione dei 5S. L’atteggiamento di Draghi è dunque incomprensibile perché in mattinata, anziché accompagnare il nuovo corso, prende di mira i leghisti attaccandoli in aula su tassisti e balneari. Di contro, la Lega non vota la fiducia. Altrettanto criptico è l’atteggiamento del Pd, che potrebbe entrare in un esecutivo col centrodestra e invece continua a pressare Conte per votare la fiducia, fargli ritirare i ministri, dare appoggio esterno al governo e fare scacco matto al centrodestra. D’Incà e Franceschini lanciano per tutto il giorno, inutilmente, scialuppe di salvataggio per il campo largo. Letta, Conte e Speranza s’incontrano senza cavare un ragno dal buco. Forse qualcuno pensa di intestarsi da lì in avanti l’agenda Draghi e avvicinarsi alle elezioni sul terreno “progressisti vs populisti”. Ma come potrebbe domani, Draghi, accettare un governo giallorosso, se nemmeno un esecutivo che gli attribuisce il 70% di fiducia gli è sufficiente per restare? Già, Draghi. Per tutto il giorno proverà a parlare con Berlusconi, senza riuscirci. Forza Italia ha già scelto altre strade, come però i fedelissimi Brunetta e Gelmini che lasciano il partito dopo quasi 30 anni di onorata carriera. Ai due ministri non è andata giù la decisione del partito di mollare l’esecutivo.
21 luglio. Draghi torna al Quirinale e reitera le dimissioni presentate la settimana precedente, stavolta Mattarella le accetta. Termina amaramente qui “il governo dei Migliori”, andato avanti a colpi di fiducia e col sostegno di una maggioranza mai vista. Non resta che tornare al voto, il 25 settembre. Per la prima volta nella storia repubblicana lo si farà in autunno.