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 2022  luglio 22 Venerdì calendario

Intervista a Bob Beamon

Dopo aver spostato i confini del possibile Bob Beamon cambia ritmo. Ancora. Più di 50 anni fa, con un solo salto, ha aperto un mondo: se un uomo può allungare di 55 centimetri un record e allargare lo spazio tanto da far valere un record, uno strappo, 23 anni allora pure il concetto di impossibile si sposta. Ben oltre gli 8 metri e 90 che hanno retto fino al 1991. Beamon non ha solo vinto un oro indelebile alle Olimpiadi più evocate di sempre, quelle del 1968, ha pure dato una scossa al coraggio, energia ai sogni ed è un effetto a lungo termine.
A Eugene ascolta «My Romance» di Ella Fitzgerald mentre pranza con la camicia più sgargiante che esista e tamburella sul tavolo. Gli anelloni quadrati che porta volteggiano sulle sue dita. Cerca di rievocare la gara che più lo ha emozionato in questo Mondiale a stelle e strisce, ma poi si perde nel battito delle sue mani che inseguono il controtempo. Beamon ora vive in South Carolina «vicino all’acqua perché così non si perde il senso». Promoter del talento olimpico, sta nel board di un’impresa che costruisce piste al coperto, ma lui ormai è soprattutto un percussionista.
Che musica vorrebbe per la colonna sonora del suo salto epico?
«Salsa. Lo sente il battito della rincorsa? Sì, salsa: l’abbandono del volo e il tempo frenetico dell’atterraggio con i piedi che scattano e non possono stare fermi una volta tornati in piedi. Salsa. Bisognerebbe ballarla più spesso, dà una certa prospettiva».
E ai Mondiali di Eugene che musica c’è?
«Manca, è tutto spettacolare, eccitante, ma mostrare gli atleti sempre e solo concentrati su un unico obiettivo, come se non potessero ascoltarsi, svelarsi veramente, mi sembra un limite. Nonostante siano forse più preparati, di certo più attrezzati rispetto ai miei tempi, fanno meno affidamento sul potere delle vibrazioni. Io metterei su proprio uno spettacolo insieme alla competizione in modo da avere gli sportivi in mezzo per esaltare il tutto. Coinvolgerebbe il pubblico».
Non è una distrazione?
«Mah. L’atletica è una meraviglia e arriva a pochi, troppo pochi. Qualcosa si sbaglia e forse pure per questo molti talenti preferiscono passare ad altro. Mi fa innervosire».
Devon Allen, il favorito dei 110 ostacoli, squalificato in partenza, è sotto contratto con gli Eagles, una squadra Nfl.
«E ha avuto proprio tutto questo senso tenerlo fuori dalla finale per un millesimo alla reazione?».
Regole. La tecnologia non serve a definire l’errore alla precisione?
«Può darsi però resta un’occasione persa. Si sarebbe mescolato il pubblico. Negli Usa il football è lo sport e trovo un vero peccato non aver usato questo incrocio come traino».
Non bastano tutte le medaglie che sta vincendo l’America?
«Queste sono le prove generali per le Olimpiadi del 2024, siamo andati maluccio a Tokyo e sui successi sportivi si misura da sempre l’orgoglio di una nazione».
Era così anche nel 1968?
«Noi eravamo fieri di rappresentare gli Stati Uniti, non tutti gli americani erano fieri di essere rappresentati da noi. L’identità era un concetto più sfuggente».
Che cosa ha pensato quando ha visto Tommie Smith alzare il pugno sul podio?
«Un gesto grandioso e pericoloso, il tempo di applaudirlo e già pensavo alle conseguenze. Sono arrivate».
Lei ha fatto niente di simile?
«Certo, erano anni in cui non volevi schierarti pubblicamente ed eri costretto a farlo comunque. Quando ti sbattevano davanti le discriminazioni non si poteva guardare da un’altra parte. Io ho perso diversi contratti e il mio sponsor mi ha abbandonato a tre mesi dai Giochi di Città del Messico perché ho rifiutato delle competizioni organizzate da gruppi dichiaratamente razzisti».
Oggi mandare messaggi è più facile?
«Davvero? È più semplice farli arrivare: sventoli un cartello e i social lo rimbalzano. Però bisogna pensarlo, scriverlo, volerlo mostrare. E ci sono ancora delle conseguenze. Ci sono sempre».
Riguarda mai il suo salto?
«Sì e mi restituisce sempre le stesse sensazioni. Mi piace quello che guardo e guardo quello che mi piace».
Quanto ha cambiato la sua vita ?
«Sono diventato padre, nonno, ho fatto altri mestieri. Sarebbe successo comunque. Quel salto forse ha spostato di più la vita di altri, di quelli che hanno provato a batterlo, di quelli che lo hanno usato come stimolo, di chi oggi fa come me e lo riguarda anche solo per sentire il ritmo».
Circola da anni la leggenda di una notte brava, in giro per i locali messicani, la sera prima della gara del 1968.
«Stupidaggini, ero dove dovevo stare. Quel salto probabilmente ha liberato anche la fantasia».
L’8,90 ha spostato l’orizzonte?
«Subito dopo mi è sembrato quasi di averlo delimitato per sempre. Fin dal secondo successivo in cui mi hanno detto "hai ammazzato la gara". E poi il record, le motivazioni, il futuro della specialità... Ci sono voluti anni per sentire il respiro di quella misura».
C’è qualche atleta italiano con cui è in contatto?
«Berruti è un amico e poi ho seguito un po’ la carriera di Howe, alti e bassi. Si è un po’ perso vero?».
Sa che Jacobs era un lunghista prima di vincere le Olimpiadi nei 100 metri?
«No, non lo sapevo, ma ha un senso. Chi sa saltare, sa anche atterrare e quindi osare».