ItaliaOggi, 21 luglio 2022
La Cina è a caccia di terre rare
Il termine «terre rare» risale al 1787. Indica un gruppo di 17 elementi chimici della tavola periodica che fanno parte della famiglia dei metalli. Sinora il monopolio sulle preziose riserve era appartenuto alla Cina, ma negli ultimi anni il dominio di Pechino è diminuito. Per Xi Jinping, data l’attuale crisi energetica, non è una buona notizia. Ecco perché il presidente della Repubblica popolare ha rilanciato con nuovi accordi geopolitici e corposi investimenti nel comparto.
Dalle rinnovabili all’industria militare e aerospaziale, dalle auto elettriche alla fibra ottica e alla produzione di smartphone: le terre rare sono fondamentali per l’economia del presente, ma soprattutto del futuro. Le miniere in Myanmar, Madagascar, Groenlandia, Oceano Pacifico e Afghanistan sono quelle in cui la Cina ha investito maggiormente per mantenere l’esclusiva commerciale sul settore.
L’ingresso di Pechino nella politica e nell’economia delle terre rare iniziò attraverso il programma di industrializzazione sino-sovietica del 1956, quando la Russia iniziò a sviluppare leghe di prova nel Paese asiatico per sviluppare aerei e missili balistici. La Cina ha condotto il suo primo test sulle armi nucleari nel 1964. E si è resa conto che doveva sviluppare la propria industria delle terre rare.
Il principale giacimento cinese, il Bayon Obo, contiene minerali di bastnaesite e monazite che negli anni ’80 hanno permesso alla Cina di colmare il divario con l’industria degli Stati Uniti. Il monopolio cinese sulla catena di approvvigionamento è iniziato in quel periodo.
E nel 1992 è stato certificato dalle parole dell’allora leader politico e militare del Paese, Deng Xiaoping: «Il Medio Oriente ha il suo petrolio, la Cina ha le terre rare».
L’esclusiva cinese può essere attribuita a tre fattori principali: un governo economico avanzato, una disponibilità di manodopera a basso costo e leggi ambientali praticamente inesistenti. Con l’obiettivo di migliorare la ricerca e lo sviluppo, la Cina ha creato due laboratori chiave che lavorano sugli elementi delle terre rare: lo State key laboratory di chimica e applicazioni dei materiali delle terre rare all’università di Pechino e lo State key laboratory sull’utilizzo delle risorse delle terre rare all’università di Changchun, oltre a essere l’unico Paese a stampare una rivista specializzata, il Journal of Rare Earths.
Sino al 2000 la Cina aveva una quota di riserve e capacità di produzione del 70%. Nel 2020 è scesa al 38%. Quasi dimezzata. Ecco perché Pechino, in un momento di scarsità energetica, sta cercando di ristabilire le distanze con Usa e Australia, che stanno ampliando i loro mercati metallurgici.
Oltre al Madagascar, dove si trova il principale investimento geoeconomico delle terre rare della Cina, gli uomini di Xi stanno mostrando interesse per l’industria mineraria afghana. L’ex colonnello cinese Zhou Bo ha scritto sul New York Times che «Pechino, col ritiro degli Stati Uniti, può offrire ciò di cui Kabul ha più bisogno: imparzialità politica e investimenti economici. L’Afghanistan, a sua volta, ha quel che la Cina apprezza di più: l’accesso a un trilione di dollari in giacimenti minerari non sfruttati, inclusi metalli industriali critici come litio, ferro, rame e cobalto». Sarà sufficiente per consentire a Pechino di mantenere il suo monopolio sulle terre rare?