Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  luglio 21 Giovedì calendario

Gli invisibili dei campi pagati tre euro l’ora

Non si chiamano più “braccianti”, nome antico e per niente eufemistico che definiva chi, per vivere, poteva contare solo sulle proprie braccia: e quelle dava in affitto al padrone. Si chiamano operai agricoli, o lavoratori stagionali. Ma pochi lavori, pochi ruoli sociali, poche vite sono rimaste così simili nel tempo, una generazione dopo l’altra. Con una differenza: che per i braccianti ottocenteschi di Pellizza da Volpedo e quelli novecenteschi di Di Vittorio valeva un’idea di redenzione politica, e di emancipazione sociale, che oggi sembra essersi dissolta, o comunque viaggia a ranghi dispersi, senza la compattezza “di classe” del socialismo degli avi.
Non dappertutto, e non ovunque allo stesso modo, le braccia in agricoltura sono ancora la macchina più utilizzata ma anche la più trascurata. La più preziosa e la meno pagata, la più versatile e la meno custodita. E la grande disponibilità di manodopera immigrata, spesso indifesa, incosciente dei propri diritti, ricattabile, ha enormemente infoltito i ranghi delle braccia a basso costo. Si parla di salari che possono toccare il fondo dei tre euro all’ora, e il fondo, sia chiaro, non è solo per chi li percepisce. È anche per chi li paga, reso miserabile e tirchio pure lui da un’economia miserabile e tirchia; è per una società intera che vede la sua patina di modernità e di progresso traballare su fondamenta così arcaiche, incredula di contenere nel suo profondo (il primario, la produzione del cibo) condizioni umane e paesaggi sociali da secoli passati. La meccanizzazione ha fatto molto, la tecnologia altro farà, ma la fanteria, sul fronte del cibo, è ancora l’uomo, specialmente in certe fasi (le potature, la pulizia, i trattamenti, la raccolta) in cui la presenza sul campo è indispensabile, e nessuna macchina, nessun drone può surrogare le braccia, le gambe, gli occhi, l’esperienza. Il corpo umano è una macchina frutto di centinaia di migliaia di anni di evoluzione e sperimentazione: non è un brevetto che la robotica e l’automazione possano illudersi di rendere obsoleto d’un tratto. Perché dunque lo trattiamo così male?
Aboubakar Soumahoro, ivoriano, sindacalista inquieto, agitatore politico, figura di primo piano in quel mondo nonché l’unico, fin qui, che sia riuscito a conquistare la scena mediatica e l’attenzione politica, li ha chiamati “gli invisibili”. Definizione che si scontra, almeno in apparenza, con la grande quantità di materiali (giornalistici, istituzionali, politici, sindacali) sui lavoratori stagionali nelle campagne italiane, e sulla principale piaga che li affligge, che è il caporalato. Ovvero l’intermediazione illegale di mercanti di uomini che da un lato speculano sulla tratta delle braccia, dall’altro esercitano un odioso controllo sociale sui braccianti: spesso ambedue le cose per conto delle mafie.
È un “modello”, quello del caporalato, che secondo la Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni del lavoro nel nostro Paese ha preso piede anche nelle città, in particolare nella logistica e nel facchinaggio.
È come se la stagionalità del lavoro, prerogativa strutturale delle campagne (mesi di attività febbrile, poi mesi di disoccupazione) avesse contaminato anche il terziario. E quando il lavoro diventa fragile, frantumato, indifeso, prosperano i “protettori”, gli organizzatori di strada, le finte cooperative. Il lavoro “liquido” è più trasportabile, manipolabile, sfruttabile, ricattabile. Più vendibile e comprabile a buon mercato.
Basta una breve ricognizione in rete per farsi un’idea del tanto che si è detto e scritto in materia di stagionali agricoli e caporalato. A partire dal lucido e tremendo romanzo- inchiesta di Alessandro Leogrande, “Uomini o caporali”, viaggio agli inferi nelle campagne pugliesi; dal libro-inchiesta di Marco Omizzolo “Sotto padrone” sui braccianti sikh dell’Agro Pontino; e le decine di inchieste giornalistiche e talkshow dedicati al tema, la legge 199 del 2016 (disciplina organica per il contrasto del caporalato), i fascicoli aperti dalla magistratura, i documenti parlamentari e relazioni sindacali, possiamo dire di sapere tutto, o quasi, della condizione di semi-schiavitù di centinaia di migliaia di persone, in larga parte immigrati. Spesso accampati come capita, in condizioni igieniche primitive, malpagati, massacrati da turni di lavoro che nell’industria sono dimenticati dai tempi dell’inchiesta di Engels sulle condizioni della classe operaia in Inghilterra. Qualcuno morto di fatica, finito sui giornali e nelle interrogazioni parlamentari, altri ammazzati per “punizioni” a sfondo razziale, altri ancora imbottiti di farmaci per sopportare la fatica, come i sikh del Lazio; tutti comunque in balia di un sistema produttivo che raramente li considera persone, depositari di diritti e di dignità.
Sappiamo tutto o quasi tutto, dunque. Molto è stato raccontato e documentato. Eppure, la definizione di “invisibili” conserva una sua verità, una sua durezza. La visibilità oggettiva del problema, la sua narrazione spesso drammatica, devono poi fare i conti con un fenomeno di vera e propria rimozione sociale, che non riguarda solo le condizioni del lavoro, riguarda il mondo agricolo nel suo complesso. Nella percezione comune, che è una percezione urbana (i partiti, i giornali e le reti televisive sono in città), l’Italia rurale rimane sempre sottotraccia. La filiera del cibo è tra le più occultate, e il mondo agricolo è diventato, dal dopoguerra a oggi, sempre più periferico, culturalmente e politicamente. Falcidiato nel numero degli addetti, non è più quel formidabile serbatoio di voti che fu dopo la guerra, tanto che nessun partito, oggi, metterebbe l’agricoltura, il cibo e il settore primario in cima alla sua agenda.
Nei manuali di economia e nelle enciclopedie (qui cito Wikipedia) si legge che “nelle economie meno progredite il primario occupa gran parte della forza lavoro, che si sposta poi progressivamente verso i settori secondario e terziario al progredire della società stessa”. C’èdunque una equivalenza tra il “progredire della società” e lo spostamento del lavoro lontano dai campi. L’abbandono dei crinali e delle campagne nell’Italia della seconda metà del secolo scorso è stato forse il più impressionante fenomeno di mutazione sociale e urbana della storia nazionale (in Appennino è normale che paesi di mille abitanti, in un paio di decenni, i Cinquanta e i Sessanta del secolo scorso, si siano ridotti a cento, quasi solo i vecchi, con scuole chiuse, negozi chiusi, ambulatori chiusi). Il Paese ne è uscito profondamente rinnovato, ma anche stravolto. La parola “contadino” parla dei nostri nonni, muove nostalgie arcadiche, è come consegnata al passato. I legami un tempo profondi con la produzione del cibo, le bestie, i campi, i pascoli, i boschi, non sono leggibili nei supermercati, dove il cibo arriva quasi “sterilizzato”, monco della sua storia e del lavoro che contiene. Le nuove leggi sulla etichettatura di molti prodotti (non tutti) costringono almeno a rivelarne l’origine, ma la grande distribuzione pialla le differenze e recide le radici. Anche per questo le notizie che ci arrivano dai campi ci colgono sempre di sorpresa, come se l’agricoltura fosse sempre altrove, o sepolta nel passato o nascosta ai nostri sguardi cittadini. Consumatori vigili, attenti a evitare palloni da calcio cuciti da bambini, o abbigliamento a basso costo confezionato da schiavi, non sanno che lo sfruttamento feroce degli stagionali contribuisce molto al prezzo invitante di molti prodotti della grande distribuzione alimentare. Non in India o in Cina: in Italia.
Ci vogliono le alluvioni e le frane (dissesto idrogeologico prodotto in buona parte dell’abbandono dei crina-li), ci vuole la siccità per lacerare la coltre di artificialità sotto la quale ci siamo accomodati, e richiamarci alla nostra dipendenza dalla natura e al nostro obbligo di governarla, se non vogliamo esserne disarcionati. Non sono solo gli stagionali, a essere “invisibili”, è nel suo insieme l’enorme questione della produzione del cibo, così impattante su ambiente e clima, sulla salute umana, sulla vita quotidiana.
Si parlò tanto, sul finire dello scorso millennio, di “terziario avanzato”, bisognerebbe che qualcuno, anche solo come slogan, lanciasse l’idea di un “primario avanzato”, una nuova agricoltura che al supporto della tecnologia affiancasse quello della cultura dei diritti, del lavoro ben retribuito. Non c’è proprio nulla di arcaico, nella produzione di cibo, né di scontato. Sta alla base della sopravvivenzae del benessere. “Mangiare è un atto agricolo”, scrisse Wendell Berry, contadino e intellettuale, tra i padri nobili dell’ambientalismo americano. Voleva sottolineare le profonde implicazioni culturali, sociali, politiche di un atto primario che nelle società opulente affrontiamo con frettolosa distrazione. Come se l’opulenza, moltiplicatrice di bisogni e di desideri, avesse reso meccanico, non consapevole, il gesto primario di nutrirsi. Il Paese più opulento, gli Stati Uniti, è anche quello dove forse nella media si mangia peggio nel mondo, a parte le élites più informate e più esigenti.
La separazione delle nostre bocche e dei nostri sguardi da luoghi e modi dove il cibo nasce è una forma di alienazione, che riassumiamo in genere nella formula retorica “i bambini di oggi non hanno mai visto una mucca”. Parafrasando, potremmo aggiungere che non hanno mai visto nemmeno un bracciante, a conferma che non solo animali e piante, anche gli esseri umani perdono fisionomia, identità, consistenza fisica, nella società incorporea nella quale ci siamo temporaneamente trasferiti sperando di farla franca.