il Giornale, 20 luglio 2022
Nello studio di Iva Lulashi
Quando il taxi mi lascia all’indirizzo dello studio di Iva Lulashi, non lontano da Porta Venezia, la prima cosa che penso è che ci sia un errore: corrisponde all’ingresso di un condominio. Possibile, lo studio è un appartamento? A quanto pare sì: pigio il pulsante accanto a I.L., una voce femminile mi dice il piano, la serratura scatta. Dopo il portone nell’atrio trovo marmi, corrimano di legno, piante di ficus, una portineria dismessa, l’ascensore con le pareti di metallo scanalato: le stimmate del condominio piccolo-borghese anni ’70. Al piano, Lulashi mi accoglie sorridendo disinvolta. Indossa una giacca principe di Galles, pantaloni neri, e nessuna macchia di vernice, nessuna ciocca di capelli fuori posto, nessuna ombra di pensieri oscuri che le attraversi il viso. È una giovane, elegante signora che mi riceve nel suo appartamento. Anni ’70, pomeriggio, decoro, borghesia: l’atmosfera sarebbe perfetta per i miei anni del liceo e una ripetizione di latino al tavolo del tinello. Inevitabilmente mi viene in mente questo: La supplente, La professoressa di lingue, La liceale seduce i professori. Vale a dire le infinite permutazioni erotico-scolastiche nei titoli di quel certo italianissimo cinema scollacciato, i cui fantasmi ancora circolano allegramente nell’immaginario dei sessantenni mai cresciuti come me. Anche perché, in effetti, con Iva Lulashi c’è una sottile connessione.
«Sto mettendo a posto, non ho ancora svuotato gli scatoloni, non fate caso al disordine». Gli scatoloni ingombrano l’ingresso e il corridoio, non ci sono mobili, niente tappeti, l’aria è immobile e scura. Ma poi Iva ci fa strada verso lo studio ed ecco un altro mondo. È un pomeriggio di sole glorioso, la finestra che si affaccia sulla strada è spalancata, la stanza è inondata di luce. C’è qualche minuscolo quadro appeso, ci sono un paio di tele poco più grandi appoggiate al muro, c’è un divano blu. Poi solo una seggiola di legno, un carrello con i colori, il cavalletto. Sopra, un dipinto quasi terminato, una donna sdraiata che indossa un vestito decorato a motivi vivaci. Il volto, lo sfondo, il contorno, sono invece nei colori tipici dell’artista albanese, che la luce sembrano spegnerla: verde salvia, grigio, verde scuro, bruno. Le dimensioni, dice, sono insolitamente grandi per lei, 120 per 90 centimetri. Di solito dipinge su tele che di centimetri ne contano 20 o 30, la sue misure sono queste, quasi da miniatura. D’altronde anche questo studio è piccolo, è solo una cameretta, no? «Quando stavamo a Pordenone lo spazio in casa era pochissimo. Dipingevo in uno sgabuzzino». Evidentemente vengono da lì le dimensioni ridotte: questioni di contstraints.
Iva Lulashi è nata nel 1988 in Albania. In Italia è arrivata con la famiglia negli anni ’90. Quando studiava all’Accademia di Belle Arti di Venezia il suo studio era appunto quello, lo sgabuzzino di casa, e casa era un piccolo appartamento. Poi è entrata in una grande collezione privata milanese, è stata messa sotto contratto dalla galleria Prometeo, da cinque anni si è trasferita a Milano. All’inizio dipingeva in uno studio oltre Lambrate, solo da qualche mese invece si è stabilita qui, in centro, e lo studio è sì una cameretta, ma tutta aria e luce. Chissà se cambierà qualcosa nel tono e nell’umore. O nelle dimensioni. «Io sono così, mi piace restare nel piccolo», ribadisce. E in ogni caso oggi l’umore è tutt’altro che scuro. Qualche settimana fa c’è stato MIART 2022, ha venduto benissimo, una sua opera è stata selezionata tra le dodici acquistate da Fondazione Fiera Milano. Gliene parlo e lei si schermisce, sorride, usa ironia e autoironia. E se la raccontassi del mio pornoflash italianissimo e piccolo-borghese di prima, sulla porta d’ingresso? Perché Iva Lulashi, ed ecco la connessione, ha un legame con l’erotismo. «Ho cominciato dipingendo scene prese dal materiale albanese di propaganda comunista, le estraevo e le decontestualizzavo. È stato così per qualche anno. Poi ho avuto un’illuminazione quando, in un quadro, mi sono ritrovata, senza intenzione, a lasciare un capezzolo nudo». Così ha scoperto, mi racconta, la forza dell’erotismo dentro quel contesto militarizzato e oppressivo, il suo potere eversivo, liberatorio, straniante. Però lei, pantaloni neri e giacca Principe di Galles, rimane una signora anche quando dipinge. Erotismo sì ma hardcore no. Capezzoli scoperti ogni tanto ma viste frontali mai. Atti a luci rosse però fuori quadro, solo intuibili, non urlati sulla tela. Stiamo chiacchierando di questo mentre lei è seduta sulla sedia, spalle al cavalletto. La donna sulla tela riposa o forse è in estasi. La carica erotica si sente, benché non ci sia nulla di esplicito. E un quadro meraviglioso. Lo posso comprare? Il prezzo mi lascia fulminato, no, non mi ci posso nemmeno avvicinare. Andrà ad Artefiera di Bologna insieme a una selezione di opere di Iva, il cui coefficiente, dopo il successo di MIART e degli ultimi mesi, è molto cresciuto. «E quello? E quell’altro?». Indico i quadretti a parete, scendendo dai medi a quelli più minuti, fino a che arriva qualcosa che mi posso permettere e lo fermo, lo blocco, basta, è mio, perché non riuscirei ad andarmene senza portare via qualcosa. È la vocina ossessiva nella testa del collezionista che non vuole perdere l’occasione? Oppure è la sintonia, l’interferenza positiva tra la lunghezza d’onda dell’artista e la mia?
Risposta: sintonia. Perché la sera sono a cena da un amico milanese, ci sono collezionisti, ci sono artisti. C’è anche Iva. Beviamo un bicchiere, ne beviamo un secondo, e lei mi dice: «Posso farti una domanda? Però mi prometti di non trovarmi strana?». La domanda riguarda cosa, negli artisti, io detesti di più. I falsi intellettualismi, rispondo. L’atteggiarsi. L’essere compresi fino al midollo nel proprio ruolo. «La mancanza d’ironia» dice Iva, ed è esatto, proprio quello, e la detesta anche lei. Poi ancora: «Ma posso farti un’altra domanda, non penserai male di me se te la faccio?». E completamente out of the blue eccola: «A te piace Big Bang Theory?». Ebbene sì, condividiamo anche questo guilty pleasure, e ci scherziamo su per mezz’ora. Un terzo bicchiere. Ora le dico del flash sulla porta di oggi pomeriggio, lei come professoressa che dà ripetizioni in un contesto di cine-erotismo all’italiana. Ma perdo l’attimo, e Iva viene rapita dal tavolo dei collezionisti. Un piccolo vantaggio del fare lo scrittore? Che glielo posso dire adesso, qui, che in fondo lei a quel modello softcore un po’ somiglia: nella leggerezza, nella spensieratezza. E in quella sua meravigliosa risata che adesso riecheggia al tavolo, compiutamente birichina.