Avvenire, 20 luglio 2022
Daesh arruola i maldiviani
Dal 15 luglio, le autorità delle Maldive hanno tolto qualsiasi limite all’arrivo dei visitatori, con una mossa tesa a riattivare i flussi di denaro necessario a consentire interventi per il rilancio economico e la pace sociale.
Sotto la cenere, in realtà sotto la sabbia e le acque cristalline, l’instabilità è costante dalla fine del trentennale regime autocratico del presidente Maumoon Abdul Gayoom, terminato nel novembre 2008, alternando periodi di consolidamento democratico ad altri di stretta autoritaria. A condizionare la vita delle Maldive sono anche i risultati dei cambiamenti climatici. Negli ultimi decenni, un terzo dell’arcipelago ha già perso la battaglia contro le acque ma le previsioni degli esperti danno per la metà del secolo l’80 per cento dei 1.200 atolli che lo compongono sommersi in tutto o in parte. Ovviamente la difficoltà di individuare una linea d’azione per fronteggiare il rischio ambientale si connette con l’instabilità politica. Allo stesso modo, la tensione tra politici laicisti e di orientamento religioso rende permeabile l’arcipelago all’influenza del jihadismo. Da diversi anni l’islam ha alzato la sua bandiera più radicale nell’arcipelago, creando aree di extraterritorialità in diverse delle isole abitate più esterne, dove in più occasioni le forze di sicurezza sono intervenute a caccia di predicatori stranieri o locali indottrinati altrove, dal Pakistan allo Yemen.
L’attentato che il 29 settembre 2007 devastò il Parco Sultan nella capitale Male fu il punto di partenza di un braccio di ferro che dura da 5.408 giorni tra militanza che vuole fare dell’arcipelago una roccaforte della sharia e le autorità di uno dei Paesi al mondo più dipendenti dal turismo globale. La conferma di come le Maldive fossero ormai nel mirino del jihadismo internazionale è arrivata nell’ottobre 2013, con l’individuazione di maldiviani in partenza per la Siria. Il flusso sostenuto di partenze ha segnalato il rischio che l’arcipelago fosse ormai diventato cruciale nel progetto dell’autoproclamato Stato islamico, sia come testa di ponte verso Oriente, sia come centro di arruolamento e di partenza di militanti. Si stima che il piccolo Paese che conta 380mila abitanti, in maggioranza musulmani sunniti, abbia avuto, in rapporto alla popolazione, il maggior numero di combattenti stranieri nel Daesh: almeno 430 (circa uno ogni 900 maldiviani) con 173 che hanno con certezza raggiunto la meta. La diaspora successiva alla sconfitta del sedicente Stato islamico ha portato a una maggiore di diffusione delle idee e dei metodi già sperimentati nel conflitto, sollevando un rischio di instabilità per il Paese e l’allarme dei servizi di intelligence stranieri per l’incolumità dei propri cittadini. Minacce, rapimenti, il ferimento di alcuni blogger e l’uccisione di uno di essi, Yameen Rasheed, nell’aprile 2017, ma ancor più l’attentato rivendicato dal Daesh che il 6 maggio 2021 ha colpito, ferendolo, l’ex presidente progressista Mohamed Nasheed, sono stati chiari avvertimenti per chi si oppone alla diffusione dell’ideologia salafita nel “paradiso” maldiviano