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 2022  luglio 20 Mercoledì calendario

Intervista a Gianrico Carofiglio

Gianrico Carofiglio, scrittore dalla tavolozza ricca, tiene sempre uno sguardo sulla realtà sociale e politica italiana e in questa intervista a La Stampa propone un affresco sull’Italia di questi giorni ricco di spunti personali, inediti. Sugli umori degli italiani, su Draghi, su Conte, sugli appelli della società civile, sul destino "storico" dei Cinque stelle.
Rancore è il titolo del suo più recente romanzo: le pare che in questi mesi sia un sentimento che sta attraversando l’Italia più che nel passato e che sia il motore anche di chi ha promosso la crisi politica, il Movimento Cinque stelle?
«Difficile dubitarne. Naturalmente il rancore cui fa riferimento il titolo del romanzo è un sentimento privato, ma più in generale, sì, il tema del rancore ha molto a che fare con l’attuale momento politico e sociale del Paese. È un veleno delle nostre società, sempre più evolute, più ricche, più diseguali. Il caso più clamoroso si è manifestato durante la pandemia, la ricchezza dei ricchi è aumentata a dismisura e chi si trovava dall’altra parte è sempre più in difficoltà. E la diseguaglianza genera, in chi si trova dalla parte "sbagliata", un senso grave di risentimento, che non ha un bersaglio preciso da parte di chi non ha ben chiaro chi siano i responsabili. Come spiega molto bene Michael Sandel, a mio avviso il più grande filosofo della politica vivente, nel suo La tirannia del merito, la diseguaglianza materiale ha certo il suo rilevante peso, ma nelle nostre società ad esser lesa è soprattutto la dignità delle persone: in tanti hanno la terribile percezione di essere esclusi da ogni premessa di futuro, di cambiamento e di partecipazione a quella che nel passato era una grande speranza collettiva».
Ma si possono covare anche rancori personali o di parte, non legati ad un’esclusione sociale, alimentati dal ricordo di un fisiologico avvicendamento alla guida di un governo: non pensa che nella crisi di governo questo aspetto abbia un peso?
«Penso di sì. C’è una parola inglese che rende l’idea: "entitlement", che è quella sensazione che taluni hanno di avere diritto a qualcosa che spettava e che è stata sottratta. Una situazione vissuta come un’ingiustizia. In politica può diventare un sentimento pericoloso: uno dei tanti modi di violare una di quelle che a me paiono le regole della politica, dal punto di vista dell’attitudine personale. Una di queste regole è "non farne un caso personale", che ovviamente non significa "non rubare". Farne un caso personale è quando uno è convinto che una certa carica gli spetti ed è ingiusto che gli venga tolta. Farne un caso personale significa, spesso mentendo inconsapevolmente anche a sé stessi, sostenere con ragioni di interesse generale quelle che sono ragioni di carattere personale».
Mai come in queste ore i riflettori si sono concentrati su Mario Draghi: accanto alle virtù ormai conosciute in tutto il mondo, ha trovato qualche limite nella sua azione?
«È un personaggio dal profilo straordinario, anche nella sua dedizione all’interesse pubblico. Volendo cercare il pelo nell’uovo gli suggerirei qualche astuzia comunicativa in più. Se sei più bravo non è indispensabile che questo sia reso troppo evidente. Soprattutto se i tuoi interlocutori attraversano un momento di fragilità ».
Ecco, Conte a suo avviso come si è mosso?
«Conte è un caso unico. In qualche modo ho simpatia per lui. È un uomo che si è trovato in un’avventura politica del tutto nuova per lui, in qualche modo paragonabile a quella di Zelensky, ovviamente con un carico di drammaticità assai diverso. Uno che faceva il professore d’università, da un giorno all’altro, si è trovato a fare il presidente del Consiglio, compito assolto tra luci ed ombre, ma ottenendo anche dei risultati. Poi, con un certo coraggio, ha accettato di fare un mestiere completamente diverso, quello di capo di un partito. Un partito che portava e porta dentro di sé contraddizioni enormi e insanabili. Il problema sta lì. Posto che, a mio avviso, sta facendo un errore dopo l’altro, Conte si è trovato dentro una vicenda incontrollabile e per questo ha la mia personale solidarietà».
Raramente come in questi ultimi anni l’egolatria dei leader sembra pesare più delle questione politiche. Esagerato?
«Egolatria e presentismo. Anche perché una qualità che difetta assai ai politici, ma non solo a loro, è una certa dose di autoironia, quella capacità di saper cogliere il ridicolo che ogni tanto colpisce tutti. Diceva Benjamin Franklin: "Impara a ridere di te stesso, prima che siano gli altri a deriderti". Ma questa incapacità di guardarsi dal di fuori, sul politico finisce per avere un effetto pericoloso: la derisione degli altri. Ed è un peccato».
In questi giorni si è manifestato un fenomeno originale: sindaci, associazioni di categoria le più diverse, come i camionisti, hanno chiesto a Draghi di restare. Fenomeno effimero?
«Sia pure con circospezione, lo valuterei positivamente, perché ha un carattere spontaneo ed è fuori da una certa liturgia politica. La buona politica dovrebbe sempre tentare di far incontrare pareri diversi per ottenere soluzioni, compromessi ostensibili. Che il terreno di gioco di estenda anche ad altri giocatori può essere un fatto positivo, perché può aiutare a ridurre l’emorragia della politica, quel catastrofico disinteresse da parte della popolazione dovuto al rancore diffuso e alla perdita di senso».
Una crisi politica in gran parte incomprensibile e fortemente segnata da sentimenti e risentimenti personali, ma esclude che questi giorni valgano come seduta nazionale di autocoscienza e il Paese ne possa uscire addirittura cresciuto?
«Nel valutare questa crisi non dimentichiamo quell’elemento di novità rappresentato dalle istanze non rituali dei sindaci e delle categorie: potrebbe essere un qualcosa che dura più del tempo della notizia. Questo significherebbe che qualcuno si è accorto della novità e la prende al volo. Ma non per tornaconto di partito, ma per diversificare e trasformare il racconto della politica. Per entrare in sintonia con pezzi della società che semplicemente non sentono quello che dici. Perché chi parla, anche nei casi dei politici migliori e più competenti, lo fa dal suo punto di vista, con il suo linguaggio che spesso risulta letteralmente incomprensibile. Il caso più eclatante riguarda i temi ambientali. La comunicazione della sinistra su questi temi va completamente, radicalmente reinventata».
Fra poco inizieranno i consuntivi storici per i 5 Stelle: non pensa che alla fine sia stata un’occasione persa per il Paese la loro incapacità di concretizzare almeno un po’ la loro carica anti-sistema in un Paese che resta incrostato nelle consorterie?
«Oggettivamente la violenza verbale e ideologica dei primi anni ha finito per incanalare una rabbia che poteva portare a qualcosa di peggiore. Certo, la loro idea di democrazia diretta, per cui tutti prendono parte a tutte le decisioni, era un vessillo propagandistico, una manipolazione demagogica. Hanno incanalato un bisogno di democrazia confuso e un’ideale di pulizia altrettanto confuso, ma tutto questo può essere il possibile carburante di un’azione futura, seria e consapevole. Potrebbero essere – o essere stati – l’ingranaggio di un possibile cambiamento».