Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  luglio 19 Martedì calendario

L’Arcimatto di Brera

Come è noto, l’Alma Mater bolognese ha stabilito di assegnare a Enzo Ferrari la laurea in Ingegneria honoris causa. (…) In un Paese come il nostro, in cui l’Università non prepara affatto i giovani alla vita moderna, quasi tutti i tecnici e gli inventori di maggior fama vengono dal banco dell’officina. Il nostro polverulento umanesimo insegna Orazio ma non l’uso del tornio e della lima ai futuri ingegneri. (…) Modenese di nascita, ha impiantato officina a Maranello e si è fatto le maestranze inducendo alla meccanica i contadini. Pian piano l’officinetta si è allargata fra gli olmi e le viti di lambrusco. I motori di Ferrari si sono tanto potenziati da battere in breve tempo l’Alfa Romeo, la quale dominava il campo con le famosissime Alfette. Quando Ferrari riuscì nell’impresa, a Monza, qualcuno lo vide piangere: “Ho umiliato mia madre!” egli esclamò con indubbia efficacia teatrale; ma subito ricordò di dover spedire un telegramma a Raimondo Lanza di Trabia, e lo fece a denti stretti, ogni poco inveendo ai “principi da operetta”. Il vivace don Raimondo aveva incautamente affermato davanti ad appassionati – come lui – di auto: “Quando Ferrari batterà l’Alfa, io mi farò pastore delle Madonie”. Realizzata l’impresa, Ferrari pretendeva che il principe tenesse fede egli pure alla promessa. Gli rispose invece con parole ammirate e affettuose, come è vero che quel birbante di don Raimondo non era affatto un principe da operetta, bensì un giovanotto pieno di intelligenza e di “humour”. Enzo Ferrari sta a mezzo fra Voltaire e il patriarca padano. Ha vòlto l’agonismo alla polemica. Uno spiritaccio bizzarro lo governa nei momenti difficili. La sola qualità che non gli viene mai meno è l’intelligenza. Odia con trasporto che definirei amoroso. Vuol bene con ritegno virile. Ha imparato in tanti anni che la tecnica riserba le stesse gioie e gli stessi dolori della poesia. Una forza arcana presiede – secondo lui – a ogni manifestazione dell’ingegno: la sorpresa vi aleggia costantemente: e ogni esito va definito fortuito, specialmente quando le cifre lo davano per scontato. Così un motore che nasce è come un figlio. Le linee di sangue non contano nulla. I suoi vagiti sono latrati furibondi: nessuno può mai dire quanti cavalli riuscirà a mettere per terra. Può sortire geniale o soltanto chiassone; potente o moscio; regolare o pazzo.
18 aprile 1960
Pare che la conclusione ultima di tale B.M., capo del governo dal 1922 al 1943, sia stata questa: governare gli italiani non è difficile, è inutile. La autenticità della conclusione non è provata, ma sì lo stupendo cinismo. E si fatica pochissimo a riconoscerne le paternità. Quel B.M. è stato in effetti un grande, grandissimo giornalista. Se invece di involtolarsi nell’ideologia fosse anche stato per il mondo, e avesse visto il ponte di Brooklin e il Golden Gate, probabilmente non avrebbe voluto la guerra e le nostre disgrazie sarebbero state minori.
Ma era ignorante di geopolitica e quando cadde Parigi ritenne già finito il conflitto: così si buttò nella fornace e non ne seppe più uscire (…).
20 febbraio 1961
A me il Giro insinua tremendi dubbi professionali. Molte volte mi sorprendo seduto ai margini di una strada foresta, la fervida mente occupata da questo dilemma: parlare di gastronomia o mentire ai lettori, parafrasando in frettoloso stile i lapidari bollettini battuti da Bollini al ciclostile? E fra dieci anni, mi dico trepidando, potrò mai seguitare queste manfrine gastro-ciclistiche? Già i figli miei arricciano il naso quando si debbono confessare afflitti da un padre sportivo. Essi pretenderebbero che finalmente liberassi dal sottoscala i personaggi che mi accompagnano dal giorno del mio primo contagio letterario. E non sanno, i miseri, che una volta aperto il sottoscala potrebbero uscirne rospi e lumaconi, ma non invenzioni poetiche. Così mi trascino da un ristorante a un traguardo; da un oste scocciato a Torriani furente. E massaggiati i polpastrelli li esercito amaramente sulla tastiera di una portatile Olivetti.
5 giugno 1961
(…) I belgi hanno fatto chiasso, dopo la Parigi-Roubaix, accusando Daems di aver tirato la volata a Van Looy. I belgi sono sentimentali. Non parrebbe, a vederli così biondi, boffici e scorengioni, ma l’ipocondrio è direttamente collegato con il sentimento e con le digestioni difficili.
17 aprile 1961
Domenica 27 agosto, “italicus vulgaris”, mi accorsi con infinito entusiasmo di riavere attributi virili. Non li avevo avuti per anni (ora non ricordo quanti) e se non fosse insopportabile sfizio retorico, mi attenterei a descrivere l’emozione profonda della scoperta. Uno è convinto di non avere proprio nulla, di non essere affatto un vir (in quanto italicus) ed ecco che una sensazione nuova lo allieta ed esalta. “Inter crura sunt colleones”. Il sangue corre, il cuore pompa gagliardo, la mente è fervida. Sono tornato vir! Non che Venere non mi allettasse anche prima. L’Italia è piena di questi allettati. Ma non basta colludere con mulieribus per essere vir: si è della specie umana, semplicemente, e non si è uomini. Invece domenica mi sono sentito vir: e non protraggo l’allegoria perché mi sovviene di Padre Paolo Segneri, che per tre ore, maestro di eloquenza, promise in una sua predica di fare una grande rivelazione ai fedeli: alla fine, allargando le braccia, arrovesciando gli occhi e facendo la bocca a cul di tacchino, disse: “Tutti si deve morire!”. Bene: io mi sono sentito di nuovo un vir quando ho saputo che sulla dolce Vltava (Moldava in italiano) una barca timonata da un astuto italianuzzo e spinta da otto giganti, aveva vinto il campionato mondiale – dico mondiale, e non europeo – di canottaggio. (…) Vincere l’“otto” e il “quattro senza” significa essere i più forti – almeno del momento – fra i regatanti di tutto l’universo. E il fatto che queste due regate abbia vinto l’umile Italia è così importante che io, vecchia ernia delusa e ambulante, mi sono sentito all’improvviso vir.
20 settembre 1961