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 2022  luglio 19 Martedì calendario

Intervista a Arturo Pérez-Reverte

«Perché non scrivo mai un romanzo ambientato nel presente? Perché ho un problema con questa epoca: è troppo volgare. Oggi tutto si misura a colpi di smartphone, computer, hacker». A parlare è Arturo Pérez-Reverte, grande autore spagnolo di romanzi storici e d’avventura, dalla serie dedicata al capitano Alatriste interpretato al cinema da Viggo Mortensen al Club Dumas diventato un film di Roman Polanski. Tornato in libreria con L’italiano, Pérez-Reverte è protagonista stasera del festival Letterature. «Oggi – scandisce al telefono – la tecnologia è ovunque e questo è molto noioso. I film sono tutti uguali: i personaggi parlano sempre al cellulare, vengono seguiti ovunque dai satelliti, gli hacker intervengono per intercettare le comunicazioni. Per questo nei miei romanzi non vado mai oltre il XX secolo».
In quale epoca avrebbe voluto vivere?
«A dire il vero non c’è un’epoca che preferisco, ma trovo il ventesimo secolo molto interessante, perché è quello della grande disillusione. Il Novecento si apre con idee innovative, e la perversione di ideologie come il comunismo, l’anarchismo, il fascismo. Era inevitabile che il loro fallimento portasse anche l’umanità a perdere la speranza, a scoprire che il mondo non migliorerà mai».
Nel suo ultimo romanzo, L’italiano, lei racconta la storia (ispirata alla realtà) degli incursori della Marina italiana in azione a Gibilterra all’inizio della Seconda guerra mondiale, che riuscirono ad affondare navi nemiche con metodi molto innovativi. Perché ha deciso di scrivere questo libro quarant’anni dopo avere conosciuto alcuni dei suoi protagonisti?
«Ho un grande debito nei confronti dell’Italia, per molte ragioni. La prima è che sono nato a Cartagena, la città mediterranea che è stata una provincia romana. E poi perché per ragioni personali la conosco molto bene: l’Italia è la mia seconda patria. E poi serviva un atto di giustizia per riconoscere gli atti di eroismo di alcuni italiani, che furono veramente impressionanti».
Dobbiamo rivalutare i nostri eroi?
«C’è un problema della memoria storica in Italia, e a dirlo è uno spagnolo che in patria riscontra simili errori. A causa del passato fascista, gli italiani hanno preferito dimenticare anche gli eventi positivi, gli atti di eroismo. La mia è una piccola riparazione nei confronti di questi uomini. La Decima Mas nella fase finale della guerra fu implicata in un’attività antipartigiana che ebbe risvolti criminali esecrabili. Junio Valerio Borghese era, in senso politico e sociale, un gran hijo de puta. E però, prima che accadessero questi orrori, nella prima fase della guerra, molti soldati di valore combatterono coraggiosamente contro gli alleati».
Quando la libraia di Algeciras, Elena, trova il corpo di Teseo, l’incursore, non ha esitazioni: lo porta a casa e gli salva la vita. Perché?
«Teseo non dice mai nulla di intelligente né di speciale, in tutto il libro. È un uomo bello e valoroso, un classico italiano bruno, del Nord, silenzioso e coraggioso. Un costruttore di gondole veneziano. È lo sguardo della donna a convertire questo personaggio in un eroe omerico».
Il libro è stato opzionato per una serie tv, è così?
«Cattleya Producciones, la casa di produzione (recentemente lanciata da ITV Studios e Cattleya, ndr) che ha già prodotto Gomorra, Romanzo criminale, Zero Zero Zero, Suburra, ha acquisito i diritti. Ora ci stanno lavorando per trarne una serie in otto episodi».
Cosa le ha insegnato la sua esperienza come inviato di guerra?
«Che l’essere umano tende a dividere il mondo in bene e male, in bianco e nero, dimenticando che esiste una scala infinita di grigi. E questa visione non è solo falsa, ma anche pericolosa. Ero tra i guerriglieri eritrei alla battaglia di Tessenei, nel 1977: ho visto persone eroiche di mattina che invece, la sera, uccidevano e saccheggiavano».
La guerra in Ucraina è diversa da altri conflitti?
«Cambiano le tecnologie, la maniera di uccidere. Ma il meccanismo è lo stesso: si vedono in azione esseri umani che si confrontano con le proprie contraddizioni, offrendo il meglio e il peggio di sé».
Nelle sue opere lei sembra ispirarsi ai grandi narratori del passato, come Dumas.
«Tra i miei libri, metà sono romanzi storici o classici greci e latini, ma Dumas è stato il mio primo amore. Quando a nove anni lessi I tre moschettieri, scoprii la letteratura».
Quali sono le sue radici?
«I miei genitori mi hanno insegnato ad amare il Mediterraneo, che è diventato la mia patria. Tutto è nato qui: gli dei, le leggende, l’olio di oliva, il vino rosso... Italia, Spagna e Grecia condividono lo stesso ambito sociale e culturale. Ettore, Achille, Enea, Dante. Tutto fa parte della mia memoria culturale e filtra in forma di romanzo».
Lei spesso ha criticato l’eccesso del politicamente corretto. Si è mai sentito censurato?
«Sono giornalista da cinquant’anni, romanziere da venticinque. Posso permettermi la libertà e anche di avere opinioni che per altri potrebbero rivelarsi pericolose. Non mi sono mai sentito censurato. Mi piace provocare, ma è certo che la cultura del politicamente corretto abbia prodotto effetti molto negativi nella società. Ha creato un’ipocrisia senza alcun legame con la realtà».
Di cosa parlerà a Roma?
«Porto un testo inedito, Il ritorno a Itaca. Racconto un Ulisse moderno, speciale, che si mescola con l’attualità: mentre si incammina per raggiungere Penelope, dopo vent’anni di peregrinazioni in mare, è roso dai dubbi».
Nel suo prossimo progetto letterario in quale epoca ci porterà?
«Ho finito adesso un libro che uscirà in Spagna in autunno, che si intitola
Revolución, sulla rivoluzione messicana, ambientato tra il 1903 e il 1923. E il prossimo romanzo a cui sto pensando adesso si svolge nel 1960. Come vede, cerco di tenermi igienicamente lontano dai nostri tempi».