La Stampa, 19 luglio 2022
Shelly Ann Fraser-Pryce vale come Bolt
Più di così lei non può fare o forse sì, ma non sarebbe comunque sufficiente, niente basta a Shelly Ann Fraser- Pryce per essere considerata, celebrata e pagata quanto Usain Bolt.
La sprinter giamaicana ha vinto cinque volte i 100 metri ai Mondiali, in diverse edizioni spalmate tra il 2009, anno in cui il suo amico Usain coltivava record, fino al 2022 quando, a 35 anni, si conferma con una corsa da 10"67 che in realtà il tempo non può catturare perché è troppo bella da vedere. Lo fa con un podio tutto giamaicano, una di quelle feste reggae di cui tanto si è parlato da Pechino 2008 ai Mondiali del 2017, a Londra, ultimo atto di una leggenda giustamente considerata così. Ultimo ballo dell’uomo capace di domare il tempo.
Per Shelly Ann Fraser-Price, con il nome e le extention più lunghi della pista, non è lo stesso. Sfida e batte le sorelle di corsia Shericka Jackson, 28 anni, con il personale, 10"73 ed Elaine Thompson Herah, 30 anni, terza in 10"81. Guida un movimento che, in Giamaica, a differenza di quello maschile, non si ferma e ha davanti solo Bubka, con 6 titoli nell’asta, nella classifica di chi ha collezionato ori multipli in un singolo evento individuale.
Tutto questo splendore non fa la luce che dovrebbe. Deve essere perché la chiamano «Mommy Rocket», la mamma razzo e a lei piace perché le ricorda che in questo percorso meraviglioso, in cui la sua corsa si è fatta sempre più affascinante, si è presa lo spazio della vita. Quando è nato suo figlio Zyon, nel 2017, sui titoli di coda di Bolt, lei non sapeva a che punto stesse la sua carriera. Non l’ha chiusa e neanche messa in pausa. Ha pensato ad altro, poi ha realizzato di poter continuare a essere chi era sempre stata ed è andata avanti. Senza clamori, con gli stessi ori di prima.
Ha preso in braccio Zyon per i giri di pista, ma non ha mai pensato che lui fosse un tema di coraggio. Lei sa correre: è nata per farlo, si allena per questo ed essere madre oppure no non è un fattore determinante. E neanche lo è l’età: «Ci facciamo spesso dire quando è ora di smettere, ci facciamo condizionare dal giudizio altrui e per una donna, per una atleta, dopo i 30 inizia l’esame rendimento, dopo i 33 l’attesa del ritiro». Lei, a 35, vince ancora, anzi domina. Eppure non è Bolt.
Record che non definiscono
Le mancano i record, vero. Peccato che quelli della velocità al femminile siano legati a tempi non proprio chiarissimi in cui lo scatto avanti di Florence Griffith si è bruciato un bel pezzo di futuro. Quei numeri, 10" 49 sui 100 e 21" 34 sui 200, sono difficili da credere e sembravano impossibile da battere. Ora c’è chi prova falcate di avvicinamento però restano un limite storico e culturale: la gloria, il valore non può essere definito da quel confine.
Shelly Ann Fraser-Pryce, sempre con l’anagrafe completa perché bisogna portare rispetto, ha fatto tutto il resto. È comparsa ai Giochi del 2008 con l’apparecchio ai denti e la coda nera. Si è trasformata e i suoi capelli colorati, eccessivi, sgargianti, oggi non sono solo un vezzo: accompagnano le frequenze, assecondano la velocità, si abbinano agli appoggi che servono. Il suo stile, un modo di prendersi la pista unico e il suo marchio: non potete non accorgervi di me. Eppure per essere evidente, appariscente quanto merita manca ancora qualcosa.
L’atletica la festeggia, lo stesso Bolt posta complimenti e bandiere giamaicane, la statistica la rende indimenticabile, ma il tributo è incollato alle medaglie, al momento in cui si contano e non a lei che riesce a fare magie.
«Non sono arrivata a Eugene al massimo della forma ma quello che conta è acchiappare le occasioni, non lasciarle andare». Ci riescono solo i fuoriclasse assoluti, persone rare. Se sono uomini diventano miti, se sono donne si notano meno. Nello sport la parità in premi e presenze è quasi totale, purtroppo è solo quella registrata, quella percepita sta a decenni dalla realizzazione.