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 2022  luglio 18 Lunedì calendario

La scienza è pop


Se è vero – citando Salvador Dalí – che «l’arte è fatta per stupire, la scienza per rassicurare», oggi l’ibridazione tra i due generi ha dato vita a una terza creatura, figlia del combinato disposto tra ispirazione d’«élite» e comunicazione «pop». Benvenuti tra la «Gaia Scienza» dove il superuomo nicciano è diventato eroico superman: un ricercatore 2.0 work in progress dell’antico sapiens galileiano. Sperimentazione di laboratorio, ma non solo. Perché la new science evolve anche attraverso strumenti «non convenzionali», estranei alle tradizionali provette. E le giovani generazioni gradiscono l’evoluzione. In quest’anno accademico più della metà delle 206 nuove lauree si riferisce a facoltà tecniche legate alla «creatività della vita». Tante le possibili etichette («science-à-porter», «scienza show», «scienza ludica», ecc.): tutte suggestive ma inadeguate, come pretendere di delimitare il fiume della novità nell’alveo di una formuletta linguistica. Chi ne banalizza il modello parla addirittura di gag-scienza. Ma il termine «gag» non deve ingannare, perché qui non si tratta di «buttarla sul ridere», sebbene in libreria spopolino le raccolte (...)
(...) di «barzellette scientifiche». La scienza rimane una cosa seria, ma la sua versione light spopola a colpi di festival. Molte le città (apripista: Bergamo, Genova, Verona e Roma) che programmano fiere ad hoc seguite da migliaia di «turisti del sapere» attratti dalle tecno-holiday: «vacanze intelligenti», nel vero senso della parola.
La gente risponde, affollando i padiglioni dove gli esperimenti di laboratorio vengono fatti dal vivo in «luna park didattici» di nuova concezione. Un tour d’avanguardia che prosegue in libreria dove fra i titoli più graditi non mancano mai «manuali didattici» per alleggerire la pesantezza di discipline in passato riservate ad «uso» esclusivo degli «addetti ai lavori». Trend da salutare con favore? Sì, ma tenendo presente un rischio: lo stile scientific easy potrebbe aumentare il «deficit di autorevolezza» che ha colpito alcune branche della scienza (medicina, in primis) nel corso della recente emergenza Covid. E ciò anche per colpa dei tanti sedicenti esperti che si sono trasformati in star televisive, contraddicendosi a vicenda: un pessimo contributo rispetto alle certezze che i cittadini si aspettano da uomini di scienza.
C’è addirittura chi teme che il filone che ruota attorno al divertissement rimanga l’unico approccio verso temi ostici per i comuni mortali. Emblematica la sorte toccata al libro di James Kakalios, La fisica dei supereroi, divenuto un best seller (venduto anche nei negozi di giocattoli) proprio grazie al gemellaggio tra scienza ed eroi-Marvel. Per non parlare della shopping-science ispirata a personaggi iconici come Einstein, Freud e Hawking, attorno ai quali è fiorito un florido merchandising a base di gadget; e lanciatissima è pure la nostra Samantha Cristoforetti, con tanto di Barbie astronauta.
Siamo dinanzi a un «eccesso di banalizzazione»? Secondo il matematico Piergiorgio Odifreddi «non è necessario avere una laurea per comprendere materie complesse, a patto che a illustrarle ci siano divulgatori capaci di non scadere nella pedanteria dell’accademismo o nella banalità della semplificazione».
Sul punto è d’accordo pure Piero Angela, volto iconico della comunicazione scientifica: «Nei miei libri – spiega l’ideatore di Quark – sono rimasto fedele alle stesse coordinate seguite in televisione: competenza, verifica, precisione, approfondimento. Ma tutto trasmesso con un linguaggio comprensibile, magari ricorrendo anche a fumetti e vignette». Nulla a che fare con quella propensione alla goliardia che si scatena ogni primo aprile con siti e agenzie zeppi di finte scoperte: pesci d’aprile gettati nel mare del web da enti serissimi che però ne sottovalutano le possibili controindicazioni. La più rilevante delle quali è l’«immortalità» di ciò che finisce in rete, creando un cortocircuito informativo dove le successive smentite vengono ignorate e i pesci d’aprile si trasformano in «verità conclamate» diffuse in tutto il mondo. Un meccanismo distorto che arreca danni enormi alla credibilità della scienza e alla sua immagine di garante del progresso.
Poi ci sono le vere e proprie truffe, di cui in passato sono rimaste vittime perfino pubblicazioni di prestigio internazionale. Report inventati, finiti in copertina come quella pubblicata nel 2005 su Science, dove il genetista sudcoreano Hwang Woo-Suk annunciò di «aver clonato cellule staminali, dando alla luce i primi animali-fotocopia»; peccato che – per ammissione dello stesso Hwang – quello studio «fosse completamente falso».
Stessa sorte per gli studi-fantasma usciti su Nature e British Medical Journal: nel primo caso a rivelarsi controversa fu la rivoluzionaria ipotesi sulla «memoria dell’acqua» avanzata dal biochimico Jacques Benveniste; nel secondo ad essere smascherato fu lo scienziato indiano Ram B. Singh che sosteneva di «aver individuato il segreto dei cibi in grado di proteggere il cuore».
E che si debba andare con i piedi di piombo perfino con i Nobel, lo dimostra la vicenda che nel 1989 coinvolse David Baltimore e la rivista Cell: dopo dieci anni di inchieste il virologo venne scagionato, ma il polverone scatenato fu all’origine della creazione negli Usa dell’Office of Research Integrity (Ori), un Gran Giurì di garanzia che ogni anno passa ai raggi X centinaia di casi sospetti. E per avere un’idea dell’ampiezza del fenomeno, basterebbe sfogliare il saggio di Horace Freeland, direttore del Center of History of Recent Science della George Washington University: un libro-dossier dal titolo «The Great Betrayal» «Il grande tradimento») che passa in rassegna i «finti scoop scientifici organizzati a tavolino per ragioni di profitto».
Un capitolo a parte meriterebbe l’informazione scientifica su internet, strumento dalle potenzialità enormi ma ad altissimo rischio di inattendibilità. Un sito degno di essere consultato è www.livescience.com che si è preso la briga di passare al setaccio alcune delle credenze scientifiche date per «acquisite» e che invece non hanno fondamento.
«La grande editoria specializzata – si legge su Nature – è ostaggio degli inganni di chi ha interesse a sfruttare il buon nome della scienza per inseguire i profitti, come rivelato dai recenti scandali farmaceutici». Non è un caso, dunque, che il National Institute of Health statunitense abbia indetto una moratoria di un anno, durante il quale qualsiasi attività di consulenza esterna per le aziende farmaceutiche e biotecnologiche sarà categoricamente vietata ai dipendenti. Tra le rare eccezioni figura il «Coordinamento per l’integrità della ricerca biomedica». Nato un paio di anni fa su iniziativa di alcuni ricercatori e operatori sanitari, il Cirb si propone infatti di «sensibilizzare ai temi dell’indipendenza della ricerca, oltre a promuovere la definizione di un codice comune di condotta». Un possibile modello di riferimento viene dal Committee on publication ethics (Cope) che ha sede a Londra e ha affidato a Richard Smith, il direttore del British Medical Journal, il compito di stilare un «decalogo di comportamento per gli editori in campo medico».
Fantascienza per l’Italia, dove questi argomenti trovano pochissimo spazio e non destano preoccupazione nelle istituzioni. I lettori è bene che lo sappiano.