il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2022
A dieci anni del Whatever it takes
Tra pochi giorni saranno passati dieci anni dal discorso pronunciato dall’allora presidente della Bce Mario Draghi al forum Global Investment Conference di Londra. È ormai comunemente accettato che il 26 luglio 2012, pronunciando le parole “la Bce è pronta a fare tutto il necessario (Whatever it takes) per preservare l’euro. E credetemi: sarà abbastanza”, si sia salvata l’integrità della zona euro. Una rappresentazione plastica di cosa si intende per credibilità del banchiere centrale, che con poche parole, senza nemmeno dover utilizzare gli strumenti che aveva annunciato, è riuscito a guidare le attese del mercato portandolo a non scommettere più contro la banca centrale. Si è speculato parecchio se questa credibilità fosse soltanto frutto del prestigio personale di Draghi o piuttosto guadagnata attraverso il via libera che Germania e Francia dettero per un diretto intervento. Un via libera che era la contropartita per il risultato ottenuto durante il Consiglio Europeo di giugno 2012 con il quale prendeva avvio il percorso di “unione bancaria” dell’eurozona, attraverso il quale si sarebbe dovuto spezzare il legame tra rischio bancario e rischio sovrano.
Al di là delle speculazioni resta però il fatto che quel discorso segnò il punto di svolta della crisi dell’euro. Iniziata due anni prima con il pacchetto di salvataggio della Grecia da parte della famigerata Troika (Ue, Fondo monetario internazionale, Bce), si era trasformata in un meccanismo distruttivo per le economie di mezza eurozona, dopo che il vertice franco-tedesco di Deauville aveva sancito non solo un trattamento molto più duro per i Paesi che avessero avuto bisogno di assistenza finanziaria, ma che in determinati casi gli Stati potessero anche fallire. Uno sciagurato vertice che estese il contagio prima alla Spagna poi all’Italia: dato che il rischio sovrano non era più zero, le autorità di vigilanza nazionali consigliarono alle loro banche di ritirare le esposizioni transfrontaliere, prosciugando di fatto il mercato dei capitali in eurozona.
I centri periferici di questo mercato dei capitali, tra cui quello italiano, ebbero un duro colpo. Si parlò all’epoca di oscure manovre di Deutsche Bank o di altre banche tedesche per far cadere, tramite lo spread, il governo Berlusconi. Era invece tutto alla luce del sole e Draghi nel suo discorso lo spiegò parlando di un problema di azione collettiva: “Le autorità di vigilanza nazionali, di fronte alla crisi, hanno chiesto alle loro banche, le banche sotto la loro supervisione, di ritirare la loro attività all’interno dei confini nazionali. E chiudono un recinto intorno alle posizioni di liquidità, quindi la liquidità non può fluire, anche all’interno di una stessa holding, perché le autorità di vigilanza del settore finanziario stanno dicendo “no”. La soluzione fu trovata con le cosiddette operazioni di rifinanziamento a lungo termine Ltro, con cui si permetteva alle banche di scontare le proprie attività, tra cui i titoli di Stato, presso la banca centrale, ottenendo così la liquidità che non riuscivano più a farsi prestare dai centri finanziari dell’eurozona. Ma non bastò.
Dopo la relativa calma di inizio 2012, i disastrosi risultati delle manovre di austerità varate dai Paesi in difficoltà (si ricorderà in Italia la famosa “agenda Monti”) stavano avvitando le economie verso posizioni insostenibili del debito, che potevano concludersi o con il default o con l’uscita del Paese dall’eurozona. Quelle politiche di bilancio avrebbero distrutto la zona euro, perché insostenibili per gli Stati, e gli operatori ci stavano scommettendo pesantemente vendendo titoli di Stato dei Paesi periferici e facendone salire lo spread rispetto al bund tedesco. Proprio dinanzi a quella comunità di operatori, Draghi disse in modo chiaro che: “Nella misura in cui la dimensione di questi rendimenti dei debiti sovrani ostacola il funzionamento dei canali di trasmissione della politica monetaria, essi rientrano nel nostro mandato. Quindi dobbiamo affrontare questa frammentazione finanziaria prendendo di mira questi problemi”. Questa parte chiariva già dieci anni fa che è responsabilità della Banca centrale europea intervenire per comprimere gli spread tra i vari Paesi quando questi minano la capacità di trasmettere la politica monetaria, quindi le decisioni sui tassi d’interesse.
La struttura incompleta della zona euro, con la mancanza sia di un titolo di Stato sovranazionale che mette tutte le varie parti della zona valutaria al riparo dalla speculazione e sia di una politica fiscale comune che permette di compensare parte dei capitali che defluiscono da alcune aree a favore di altre, ha di fatto reso indispensabile il ruolo di supplenza della banca centrale. La crisi del 2010-2012 ha dimostrato che senza l’intervento della Bce il mercato dei capitali della zona euro può non essere in grado di far affluire in modo uniforme la liquidità in ogni parte, provocando divari nelle condizioni di finanziamento degli Stati e delle banche nazionali, determinando condizioni di finanziamento per imprese e famiglie differenti a seconda di dove si trovino. Una condizione insostenibile a lungo termine e che portò all’esplodere di movimenti speculatavi che stavano facendo collassare l’eurozona.
Il dibattito sulla compressione degli spread, che ogni volta riaffiora quando i rendimenti salgono, era così già stato chiarito e “venduto” al mercato dieci anni fa: la Bce può controllare gli spread e lo farà ogni volta che è a rischio il suo controllo sulla liquidità e i tassi interbancari. Rimetterlo in discussione vuol dire ripetere l’errore che la Bce fece durante gli ultimi mesi della gestione di Jean ClaudeTrichet, fino al discorso di Draghi, e che ha poi rifatto l’attuale governatrice Christine Lagarde nel primo mese di pandemia. Nel marzo 2020, dichiarando che non era compito della banca centrale quello di “chiudere gli spread”, Lagarde provocò una forte tensione di mercato che la costrinse dopo poche ore a rivedere le sue posizioni, annunciando, dopo una settimana, il piano pandemico di acquisto di titoli finanziari Pepp, calibrato con il preciso scopo di permettere agli Stati di finanziare le spese per contrastare la pandemia senza che ci fossero significativi divari di rendimento tra i differenti titoli sovrani.
Adesso che con la fine dei programmi di quantitative easing i differenziali di rendimento sono ritornati a salire, è ripartito il dibattito sull’opportunità per la banca centrale di intervenire su tali differenziali. La decisione sembra ormai presa, con l’adozione di un nuovo strumento anti-spread, che avrà questo compito. Le critiche non sono mancate da parte di chi lo ritiene un regalo ai Paesi più indisciplinati, continuando così a non capire che quando le differenze di finanziamento tra Stati fanno emergere delle significative differenze nei tassi ai quali le banche si finanziano, l’eurozona, per sua natura, rischia di avvitarsi in un circolo vizioso che può concludersi addirittura con la sua distruzione. Un meccanismo che tenga sotto controllo questo circolo vizioso è necessario. Non è ancora chiara la sua struttura e le modalità di attivazione, se e in che modo verrà ritirata la liquidità immessa, quali saranno le condizioni imposte al Paese che ne chiederà accesso, ma è chiaro che la banca centrale non può restare immobile davanti all’impennata degli spread. I falchi dei Paesi del nord premeranno per avere una maggiore disciplina monetaria e fiscale per combattere l’inflazione, ma il messaggio che resta da quel discorso del 2012 è che fino a quando la politica europea non riuscirà a rafforzare la struttura della zona euro, la Bce dovrà essere disposta a fare tutto il necessario per tenerla insieme. Per lo spread conta Francoforte, non Palazzo Chigi.