il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2022
Essere bambini in Siria
Dal suo zainetto, a cui ha agganciato un ciondolo a forma di cuore, Wajeb, 13 anni, tira fuori alcuni libri, tra cui un manuale di inglese. Ogni giorno per andare a scuola la ragazzina deve percorrere quasi tre chilometri a piedi. “È un po’ lontano, ma mi piace studiare – dice –. Quando sarò grande farò la pediatra. È il mio sogno e lo realizzerò”. Sorride e il suo volto si illumina. Come tanti giovani qui, nella regione di Idlib, Wajeb vive da quattro anni in due tende che divide con tutta la sua famiglia, i genitori e cinque fratelli e sorelle. Come in tutti i campi per sfollati, in inverno il fango penetra nelle tende, mentre d’estate fa caldissimo. Secondo le ultime stime dell’Unicef, il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia, 1,2 milioni di bambini siriani vivono in condizioni di indigenza nella regione di Idlib, senza alcuna prospettiva per il futuro. Ma è una stima bassa, ritengono molte Ong locali. La piccola provincia di Idlib, nel nord-ovest della Siria, è l’unica regione a sfuggire ancora al controllo del regime di Bashar al-Assad e si trova ad affrontare una grave situazione umanitaria.
Nel caos in cui vive il Paese in guerra, sono pochissimi i bambini e le bambine che, come Wajeb, riescono ad andare a scuola. Ogni anno, l’Ong Hurras sviluppa dei programmi specifici per riportare sui banchi di scuola il maggior numero possibile di bambini e adolescenti, ma con scarsi risultati. La situazione a Idlib è disastrosa. “800 mila bambini non sono scolarizzati nella regione – spiega Leyla Hassous che lavora per la Ong -, malgrado i progetti che organizziamo in collaborazione con l’Onu. Secondo uno studio recente, ameno il 38% dei bambini è costretto ad andare a lavorare per aiutare economicamente le famiglie, ma probabilmente ne sono molti di più”. Anche i quattro figli di Mohamed, 45 anni, hanno lasciato la scuola per lavorare. In dieci vivono in una tenda in uno dei tanti campi per sfollati della provincia di Idlib: “La situazione è tragica – spiega Mohamed -. L’ultimo pacco di aiuti umanitari che abbiamo ricevuto risale a più di due mesi fa e visto che la famiglia è numerosa ci basta per quattro giorni soltanto”. Trovare lavoro a Idlib è molto difficile e lo stipendio medio per una giornata lavorativa è di sole 30 lire turche, pari a 1,70 euro. A Mohamed servono almeno 50 lire turche al giorno per comprare il pane per tutta la famiglia. Dal 2014, una risoluzione Onu autorizza le Ong che collaborano con le Nazioni Unite a distribuire aiuti umanitari alla popolazione locale, senza dover passare per Damasco. Camion carichi di cibo, beni di prima necessità, tende e medicine attraversano il posto di frontiera di Bab Al-Hawa, unico valico ufficiale al confine con la Turchia ancora utilizzato dalle agenzie Onu per distribuire aiuti a oltre 4 milioni di siriani, per lo più famiglie di sfollati, intrappolati tra il confine turco da un lato e il regime di Assad dall’altro, sostenuto dall’alleato russo. Dall’estate 2021, il corridoio umanitario avrebbe permesso a più di 7.500 convogli e 180 mila tonnellate di aiuti di entrare nel Paese, secondo Mazen Alloush, portavoce ufficiale del posto di frontiera di Bab Al-Hawa, sul lato siriano: “Purtroppo gli aiuti inviati dalle agenzie delle Nazioni Unite, nella situazione attuale – spiega Alloush –, non sono neanche sufficienti a coprire il fabbisogno della popolazione locale”. Il 12 luglio, il Consiglio di sicurezza dell’Onu è tornato a votare sul meccanismo di aiuti transfrontalieri per la Siria. Le Ong hanno seguito con preoccupazione il voto, temendo il veto della Russia nel contesto della guerra in Ucraina.
“Abbiamo fatto tutto il possibile per difendere il corridoio umanitario, per impedire alla Russia di spingere verso la fame e la morte le famiglie che vivono al di fuori delle zone sotto il controllo del regime di Damasco”, ha spiegato Oussama Zakaria, della Ong Ataa. Il Consiglio Onu ha alla fine adottato la proroga del dispositivo umanitario, ma solo per sei mesi, fino al 10 gennaio. Un periodo più breve di quello che avrebbero voluto altri Paesi, tra cui la Francia e gli Stati Uniti, che avevano chiesto la proroga di un anno, imposto dalla Russia. Negli ultimi anni, Assad e l’alleato russo hanno bombardato regolarmente la regione di Idlib senza risparmiare neanche le zone vicine agli istituti scolastici. Lo scorso aprile, quattro ragazzi sono rimasti uccisi mentre andavano a scuola. Spesso quindi è anche per paura che alcuni genitori preferiscono non mandare più i figli a scuola. “Il nostro principale obiettivo è di riuscire a far frequentare i corsi ai più piccoli, non solo perché è importante che vengano istruiti, ma anche per proteggerli da un ambiente ostile, per permettere loro di uscire dai campi”, spiega l’ONG Hurras. Le strade della provincia di Idlib sono piene di bambini. Alcuni vendono pacchetti di fazzoletti agli incroci, altri consegnano caffè o tè. Sono soprattutto maschi, di circa dieci anni, nati dopo l’inizio della rivoluzione siriana. Ragazzi che hanno conosciuto solo la guerra e che la guerra ha privato della loro infanzia. Spesso questi giovani siriani hanno dovuto abbandonare tutto con le loro famiglie per fuggire l’avanzata del regime di Damasco.
Quando viene chiesto loro: “Cosa sogni di fare da grande?”, la maggior parte risponde: “Voglio fare il dottore per poter curare i miei”. Dodici anni di guerra hanno segnato per sempre un’intera generazione. Sono ferite invisibili, che non vengono mai curate, in una regione del mondo dove la priorità di ogni giorno è riuscire a procurarsi qualcosa da mangiare. Secondo l’ONG Hurras, quattro minorenni sono stati trovati morti impiccati il mese scorso. “Le famiglie ci dicono che sono morti mentre giocavano, per incidente – spiega Leyla Hassous -, ma noi siamo convinti che si tratti di suicidi. Tutti presentavano dei segni di corda molto visibili intorno al collo. Il suicidio è un grande tabù nella società siriana, quindi le famiglie preferiscono raccontare versioni diverse”. Nella provincia di Idlib, l’80% degli sfollati interni sono donne e bambini. Il tasso di natalità esplode. Non c’è alcun controllo delle nascite e le ragazze si sposano sempre prima. All’ospedale centrale di Idlib è stato appena aperto un nuovo reparto maternità grazie all’aiuto della ONG statunitense SAMS, ma le camere sono vuote. Manca l’attrezzatura medica e non ci sono abbastanza infermieri né medici. Molti sono fuggiti in Turchia o in Europa. Ikram Habouch ha deciso invece di restare.
L’ostetrica fa nascere una quindicina di bambini ogni giorno, dieci di più rispetto a cinque anni fa. “Sono rimasta perché sono matta, non trovo altre spiegazioni! – dice la dottoressa siriana -. Ogni giorno qui vedo morire delle madri e dei neonati. Sono esausta. Sarei potuta andare via, ma sono rimasta perché voglio aiutare il mio popolo”. Una neonata piange accanto a lei dentro un’incubatrice. È nata prematura, due mesi prima del termine, ed è piccola piccola. Sua madre non può venire a trovarla tutti i giorni perché abita lontano dall’ospedale, quindi sono le infermiere ad occuparsi di lei e a tranquillizzarla quando piange. Nella stanza riservata ai bimbi prematuri, ci sono quindici incubatrici e sono tutte occupate. “Non ho più spazio per ospitare neanche un altro neonato. Ed è la stessa cosa negli altri ospedali della provincia – continua Ikram Habouch -. Mancano le risorse. Le Ong riducono sempre più gli aiuti umanitari alla Siria dopo più di dieci anni di guerra”. Il tasso di natalità di bimbi prematuri nella provincia di Idlib esplode. La dottoressa ritiene che sia dovuto alle complicate condizioni di vita delle future mamme. Costrette a vivere nei campi per sfollati, non ricevono nessun tipo di cura durante la gravidanza e molto spesso devono continuare a prendersi cura anche di altri bambini piccoli. Alcuni casi sono disperati: “A volte ci sono donne che quando arrivano in ospedale prima della data di scadenza e scoprono che rischiano di mettere al mondo un bimbo prematuro – continua la dottoressa – ci dicono: Lascialo pure morire”.
(Traduzione di Luana De Micco)