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 2022  luglio 17 Domenica calendario

Biografia di Chiavone, brigante

MICHELE FERRI IL BRIGANTE CHIAVONE E LA REAZIONE FILOBORBONICA ALLA FRONTIERA PONTIFICIA: IMPORTANZA E LIMITI Quando si parla di storie relative al confine borbonico-pontificio e in particolare agli aspetti politici e militari del travagliato periodo dell’unificazione italiana, non si può non chiamare in causa un protagonista assoluto della reazione lealista al progetto liberal-unitario, che per più di un biennio (1860-1862) ostacolò seriamente il processo di annessione del Meridione al Regno d’Italia. Il brigante, o meglio, il capobanda Luigi Alonzi detto Chiavone fu colui che, in questi due anni terribili, con notevole abilità riuscì a sfruttare le possibilità offerte dalla frontiera per rendere più duratura ed efficace la sua guerriglia contro le truppe piemontesi o, per dir meglio, italiane. Fino al 1984 la pur nutrita bibliografia sul brigantaggio postunitario non aveva offerto all’attenzione degli appassionati e degli studiosi una storia organica su Chiavone, la cui opera a favore dei Borbone appariva qua e là, in qualche documento e in vari testi, già molto importante ma comunque frammentaria e/o falsata. L’esigenza di colmare questo vuoto e di aggiungere alla galleria dei capibanda del brigantaggio meridionale una figura così rilevante nel contesto della reazione antiunitaria portò, in quell’anno, alla pubblicazione di una corposa ricerca289, condotta con la collaborazione [289] Ferri M. e Celestino D., Il brigante Chiavone,. Storia della guerriglia filoborbonica alla frontiera pontificia (1860-1862), pref. di Franco Molfese, Sora, 1984, 178 tanto preziosa quanto impagabile del prof. Domenico Celestino, la quale, se non altro, fornì una dimensione più reale del personaggio e della sua opera a favore della corte borbonica La consistenza e l’estensione della guerriglia chiavoniana suscitarono (o riaccesero) da quel momento un interesse frenetico per l’argomento, che negli anni ha prodotto, a livello locale, diverse conferme e integrazioni (in verità piuttosto modeste) a quanto svolto dal capobanda e più apprezzabili contributi a quanto combinato dai suoi gregari ed epigoni, i quali, dopo la morte del capo, anche per le obiettive difficoltà a tener viva la reazione, si caratterizzarono per delinquenti tout court e predatori disperati ormai disposti a tutto pur di salvare la pelle o sottrarsi alla vendetta. Prima di fare delle considerazioni sull’importanza e l’efficacia dell’attività di Chiavone, può essere utile ricordare, nella maniera più succinta, le sue significative esperienze svolte, come s’è detto, in un arco di tempo forse pure breve ma ricco di vicende drammatiche e decisive, che videro la fine ingloriosa del più antico regno della penisola, l’unificazione d’Italia e la stagione sanguigna del «grande brigantaggio».
Luigi Alonzi, discendente di una famiglia di guardaboschi conosciuta ormai da un secolo col soprannome di Chiavone, nacque il 19 giugno 1825 nella località Croce Branca, nella popolosa borgata «la Selva» a Sora. Era nipote del guardaboschi Valentino, brigante sanfedista e animoso luogotenente del sanguinario capobanda sorano Gaetano Mammone a sua volta amico e collega del grande Fra Diavolo. L’esordio di Luigi, anch’egli guardia forestale ed esperto conoscitore dei luoghi e dei segreti di quell’ambiente di confine in cui con la sua autorità si era creato un ascendente, avvenne subito dopo la fuga a Gaeta di Francesco II di Borbone e l’arrivo di Garibaldi a Napoli (6-7 settembre 1860). Il Distretto di Sora si adeguò all’evento e varò un governo prov pp. 405 e foto. Nel 2001 è stata pubblicata un’altra biografia del brigante dal taglio più narrativo ma sempre scrupolosamente storico: Ferri M., Il brigante Chiavone. Avventure, amori e debolezze di un grande guerrigliero nella Ciociaria di Pio IX e Franceschiello, Sora, APT di Frosinone, 2001, pp. 320 e foto. 179 visorio democratico formato da otto ricchi liberali provenienti dai vari paesi del circondario, che però non ebbero il sostegno della popolazione, sobillata dal clero reazionario e dai rappresentanti di benestanti famiglie molto fedeli alla dinastia di Napoli. Questi ultimi, come nel periodo di Fra Diavolo e Mammone, trovarono senza difficoltà popolani disposti a difendere con ogni mezzo la causa borbonica, li incoraggiarono, foraggiarono e protessero, riuscendo a costituire un agguerrito braccio armato alla cui guida si pose Luigi Chiavone. Dopo alcune violente bravate ai danni della appena costituita guardia nazionale e di diversi liberali che avevano sposato la causa unitaria, Chiavone, già molto seguito, mise a disposizione del colonnello borbonico Teodoro Klitsche de La Grange un suo contingente di circa 200 «Selvaroli» armati alla meglio ma pronti a sostenere l’azione dell’alto ufficiale che, partito da Gaeta con una brigata, era venuto a contrastare militarmente le ultime formazioni garibaldine nell’alta Terra di Lavoro (vecchia provincia di Terra di Lavoro di cui Sora faceva parte) e negli Abruzzi. In questa campagna, memorabile fu la battaglia di Civitella Roveto tra i borbonici di La Grange e i garibaldini di varie formazioni campane e abruzzesi. La Grange vinse per l’intervento determinante dei chiavoniani (lui stesso lo riportò per iscritto), e con quella vittoria iniziò la gloria di Chiavone che, raccomandato da La Grange e dal vescovo di Sora Giuseppe Montieri, fu ricevuto due volte a Gaeta dai giovani sovrani di Napoli, Francesco e Maria Sofia, i quali gli fornirono armi e gradi militari (ottobre 1860). A distanza di un mese, l’Alonzi conseguì nella sua Sora un’altra grossa affermazione militare. Alla fine di novembre, 300 guardie nazionali della Valle di Comino capeggiate dal sindaco mazziniano di Casalvieri Alessio Mollicone vennero nella città per convincere Chiavone a desistere dalla resistenza e, occupando Sora, arrestarono come suo sobillatore e manutengolo il parroco di S. Silvestro don Raffaele Taddei, un altro prete e diversi irriducibili borboniani. L’ira chiavoniana esplose immediata e, nel pomeriggio del 3 dicembre, dopo quattro ore di violentissimo combattimento nei vicoli e nelle case della vecchia Sora, i cominesi, seppur valorosi, furono stanati e decimati dai Selvaroli di Chiavone. Anche questa vittoria fu esaltata dai 180 funzionari borbonici e la stessa Gazzetta Ufficiale della corte in esilio a Gaeta le riservò ampio spazio compiacendosi della fedeltà del generoso popolo sorano. Quindi, nuovi aiuti e ancora gradi militari per l’Alonzi da parte dei sovrani dell’ormai ex Regno delle Due Sicilie, che ora lo consideravano un loro colonnello e un loro amico. Persecuzioni e caccia spietata, invece, da parte dei nazionali che, dopo aver agevolato inutilmente una sua presentazione, lo ritenevano solo un bandito e un brigante. Intanto, anche se con difficoltà, col passare dei mesi l’occupazione del territorio da parte delle forze nazionali si faceva meno precaria. Sempre più soldati piemontesi affluivano sul confine borbonico-pontificio pericolosamente tormentato dagli attacchi di guerriglia organizzati da Chiavone che, costretto alla macchia, era tuttavia convinto di aver fatto una scelta giusta e irreversibile. Ormai nessun piano di riconquista dell’ex regno da parte dei borbonici poteva prescindere dal contributo determinante di Chiavone e ciò si evidenziò quando venne sul confine per tentare un’incursione su Sora e sulla Valle del Liri il conte alsaziano Theodule De Christen che aveva militato agli ordini di La Grange ed era ancora intenzionato a lottare per re Francesco II. Con 400 volontari raccolti nel Pontificio, De Christen puntò su Sora presidiata dal generale piemontese Maurizio De Sonnaz, ma dovette subito ripiegare su Casamari insieme a Chiavone, che gli aveva sottoposto 200- 300 uomini dei suoi. I piemontesi attaccarono Casamari e la devastarono dopo aver messo in fuga i legittimisti, che si rifugiarono nella vicina Bauco (Boville Ernica). Qualche giorno dopo (28 gennaio 1861) De Sonnaz pensò male di attaccarli quando già questi si erano ben fortificati nella cittadella. Per i piemontesi fu un disastro. Nei vari tentativi di attacco morirono a decine, centinaia furono i feriti. Chiavone, con i suoi briganti, si mostrò strenuo, abile, deciso. La sanguinosa battaglia di Bauco, celebrata dai borbonici come una vittoria esemplare, fu un altro suo grande successo personale. Ricevuto come un eroe e come un amico fedele dal re e dalla regina di Napoli ora in esilio a Roma (primavera del 1861), ebbe da questi 181 denari per organizzare la guerriglia e il grado di generale. Assolutamente sprovvisto di istruzione, non solo militare, si illuse di essere veramente un grande ufficiale, cominciò a compiacersi delle sue fastose divise d’ordinanza, a nutrire l’ambizione di eguagliare Napoleone e Garibaldi: ambizione tenuta sempre ad alto regime dalla sua amante Olimpia Lisi, vedova Cocco, che sempre più lo attirava nella sua alcova nella borgata Cocchi di Veroli, in territorio pontificio, dove il brigante stabilì il suo quartier generale. Olimpia, donna non bella ma di forte carattere, che una diceria bugiarda, riportata recentemente da qualche storico-visionario, dice d’essere stata, prima ancora di Chiavone, amante o addirittura moglie del capobanda lucano Carmine Crocco (ma quando mai!), era madre del piccolo Giuseppe Cocco, ragazzo di otto anni che il brigante di Sora amava come un figlio, e rimase tanto fedele alla causa legittimista da sposare, dopo la morte del suo famoso amante, un gregario di Chiavone, rampollo di una accreditata famiglia brigantesca di Castelliri. Spirito di ribellione, ambizione, coraggio furono la miscela che consentì a Chiavone di sviluppare, in quella che Franco Molfese ha definito la «stagione del grande brigantaggio», un nutrito, micidiale programma di incursioni e devastazioni in una lunga zona di confine, dalla Marsica al litorale di Fondi. Impressionanti, in quella primavera-estate del 1861, gli attacchi alle truppe piemontesi, le devastazioni e i saccheggi dei municipi e delle case private a Monticelli, Lenola, Castelluccio (Castelliri), Roccavivi, Balsorano, S. Vincenzo, Villavallelonga. Sempre sotto tiro era Sora, capoluogo di distretto e sede strategica di forti contingenti piemontesi. Tremendi gli scontri con questi sui monti di Sora, dove caddero decine di briganti. Nell’anno di più intensa attività brigantesca (1861), Chiavone riuscì ad avere ai suoi ordini fino a 500 combattenti irregolari, di diversa estrazione sociale e provenienza, non tutti, e non sempre, affidabili e raccomandabili. Una massa eterogenea che, per essere impiegata proficuamente, richiedeva al «generale» che la comandava notevoli doti di fermezza, oltre a furbizia, intraprendenza e grandi capacità di manovra. 182 Luigi Alonzi poté esprimere queste capacità fino all’inverno 1861-62. Poi, per il maggiore e più organizzato controllo del territorio da parte degli occupanti, per il rapporto sempre più forte e distrattivo che lo legava all’amante, ma anche per l’arrivo sui monti di Sora di legittimisti stranieri titolati, che per gelosia e ambizione cominciarono decisamente a contestargli il comando della truppa, la sua azione diventò sempre meno incisiva. Tuttavia, con spazi a volte esagerati, molti giornali e riviste europei continuavano a parlare delle sue azioni in favore della reazione, a descriverlo come un modello assoluto di capobanda, addirittura ad intervistarlo. Significativa la visita che un giornalista e un fotografo francesi fecero al brigante nell’ottobre del 1861 per dar corpo ad un lungo oltre che interessante servizio apparso l’11 gennaio successivo sulla diffusissima rivista parigina L’Illustration. I due si erano presentati da lui con umiltà e sottomissione, con un carico di attrezzature fotografiche davvero imponente: ben 14 casse di strumenti, sistemate tutte sulla groppa di 3 muli e 4 asini alla bisogna noleggiati. L’équipe era stata fatta accompagnare, seguendo un cerimoniale di prudenza e ospitalità, da due fidate guide brigantesche e dalla esperta vivandiera Vincenza. Dopo una lunga intervista, come un vero generale lo avevano messo in posa, prima con abiti ordinari e poi con la famosa uniforme. Il capobanda sorano fece parlare ancora tanto di sé nel novembre 1861, quando sferrò un attacco rovinoso su un punto importante della difesa nazionale: il castello di Isoletta e il presidio di S. Giovanni Incarico. Nell’assalto morirono diversi soldati nazionali, ma ad avere la peggio furono i suoi briganti: ne caddero una ventina in combattimento ed altri 30 furono fucilati immediatamente sul posto. Lo scalpore suscitato da questa sconfitta e la morte di alcuni volontari borbonici non spregevoli, anzi alquanto nobili ed idealisti, nocque alla fama di Chiavone che vide scemare il suo ascendente presso la corte a vantaggio degli ufficiali legittimisti stranieri mandati in abbondanza dall’ex re Francesco sul confine per rendere più organizzata la reazione armata. Ancora diverse azioni di disturbo e profonde incursioni in territorio italiano realizzò la banda col contributo dei luogotenenti stranieri: 183 scontri cruenti ci furono a Monte Magno presso Fondi, a Morino, Schiavi (Fontechiari), Terelle, Pescasseroli, Canneto, Castel di Sangro. Episodi di coraggio estremo e di eroismo facevano registrare i combattenti di entrambi gli schieramenti. Ma, per i chiavonisti, già nella primavera del 1862, questi sacrifici cominciarono ad apparire inutili. Con un capo esautorato dai sospetti, dalle contestazioni, dalle gelosie di comando degli ufficiali legittimisti stranieri, la comitiva chiavoniana si ridusse nei ranghi e si frazionò. Molti rimasero con Chiavone, altri passarono al comando del generale catalano Tristany, altri ancora seguirono lo stravagante avventuriero tedesco Zimmermann. In un clima di estrema diffidenza e di odi mortali, tra reciproche accuse di tradimenti e di truffe ai danni della causa borbonica, sui monti vicino Trisulti si consumò l’ultimo atto della vicenda umana del brigante di Sora. Catturato preventivamente, prima che potesse nuocergli mortalmente, dal generale Tristany, Chiavone cercò di difendersi dalle pretestuose accuse di vigliaccheria e di tradimento mossegli contro dai colleghi stranieri, ma la sua difesa disperata non riuscì a sottrarlo ad una condanna a morte da tempo perseguita. Fu fucilato il 28 giugno 1862 in un posto imprecisato della Valle dell’Inferno, tra Morino e Trisulti. Il suo corpo fu bruciato una settimana dopo l’esecuzione. Da quanto si è riassunto emerge, in primo luogo, che la scelta dell’Alonzi di scaricare la sua impulsività a difesa del vecchio regime non derivava né dalla sua personale condizione socio-economica, che non era disagiata, né, per la modesta formazione, poteva scaturire da una meditata, autonoma presa di posizione ideologica. Tuttavia essa fu coerente con la tradizione di famiglia e la mentalità del luogo, molto condizionata dai ceti cosiddetti «retrivi», borghesia agraria e clero, che a Sora avevano instaurato un perdurante blocco moderato, se non conservatore. Accettare un ruolo da protagonista sicuramente offertogli o impostogli da interessate «persone di rispetto» in un frangente che suggeriva cautela anche ai più animosi fu certamente cosa coraggiosa al momento, e rischiosamente anticonformista quando, con il passare 184 dei mesi, l’andamento delle cose politiche e militari nel Sorano davano sicuro credito all’opzione liberale-unitaria. Se il coraggio dei primi tempi poté sembrare solo esibizionismo a basso rischio perché espresso in un ambiente reso solidale dal quasi unanime consenso della popolazione alla causa politica vigorosamente difesa da una personalità inflessibile come il vescovo Montieri, perseverare nel ruolo già ben definito di capomassa quando i protettori cominciavano a mancare o si defilavano indicava una tempra comunque positiva che sapeva assumersi la responsabilità delle vicende future, che si annunciavano quanto meno complesse. Furono, nell’immediato, vicende piuttosto significative sul piano delle operazioni strategico-militari alle quali Chiavone collaborò con competenza, pur neofita in quegli affari, risultando addirittura determinante per la loro vittoriosa riuscita. Ci si vuole riferire all’ottima prova fornita, con i suoi già tanti gregari, agli ordini di La Grange nella battaglia di Civitella e alla terribile sconfitta dei piemontesi a Bauco, dove poche centinaia di irregolari comandati da due capi altrettanto irregolari ma geniali, De Christen e Chiavone, appunto, umiliarono la compatta formazione nemica e il loro referenziato generale. Il coraggio del brigante di Sora agli esordi e le sue capacità tattiche, frutto di nessuna scuola, non si espressero solo nella mansione subalterna a La Grange e a De Christen. Prima di Bauco egli aveva dimostrato di saper fare bene da solo, anche se in casa. Durissimo, determinato e ancora sorprendentemente tattico si rivelò contro i casalvierani e i cominesi quando questi, guidati da Alessio Mollicone, vennero a Sora a restaurare il governo democratico e commisero l’imprudenza di sbraveggiare troppo a danno della fede dei sorani. Forse la grinta da capobanda Chiavone sapeva esprimerla più compiutamente in queste contese rabbiose che avevano per simbolo più il campanile che la bandiera. Del resto in tutte le congiunture rivoluzionarie del secolo e soprattutto in quella politicamente più importante e recente del 1848-49 il territorio del vasto distretto di Sora, se si eccettuano alcune realtà, come Atina e Arpino, e alcuni personaggi, non si era distinto per patriottismo. Nella maggior parte dei 185 paesi del distretto lo sconvolgimento quarantottesco era stato gestito, anzi, subìto con diffidenza dalla borghesia locale che, sempre in retroguardia, aveva preferito egoisticamente esimersi, non attribuendo alle istanze costituzionali e addirittura repubblicane la giusta efficacia nel tempo. In qualche parte ne aveva apertamente ostacolato con la forza il tentativo di affermazione. I patrioti furono pochi. Tanti borghesi che si erano esposti, per evitare l’isolamento e le ritorsioni, furono costretti a ritrattare. Chi odiava il clan rivale si vendicò, dopo la normalizzazione, tacciandolo di repubblicanesimo. Velenose lettere anonime rimbalzavano responsabilità e tradimenti mai assunte e mai consumati e, in qualche paese, inveterati odi, antichi risentimenti, inconfessabili interessi economici, esasperati dall’emergenza politica, portarono diverse famiglie bene in vista a ricorrere alle schioppettate per intimorire e farsi rispettare, per mantenere o conquistare un potere localmente egemone. Si arrivò così agli anni dell’unità italiana. E fino a quando la reazione antiunitaria si incanalò e si alimentò nel filone becero della contesa tra clan e campanili, che avevano mantenuto attive per decenni piccole e meno piccole clientele disposte a tutto in caso di difesa e di offesa, questa reazione riuscì a controllare il territorio, a smantellare i precari governi provvisori locali, a terrorizzare i pochi esponenti del nuovo corso liberale. La reazione della prima ora al programma annessionistico fu in effetti l’esplosione finale dell’astio antico dei gruppi conservatori maggioritari verso le poche famiglie e i pochi ambienti liberal-democratici. Astio tenuto sempre in caldo dall’integralismo eccessivo di un uomo d’ordine come il vescovo Montieri che, in 22 anni d’episcopato, non aveva mai smesso di maledire ogni forma di apertura, ancorché timida, alle istanze costituzionali e democratiche. Anche gli interventi esterni di La Grange e De Christen furono graditi e assecondati dalla popolazione più in funzione di vendetta verso gli uomini, le famiglie e i paesi che come contributo alla difesa di valori generali. Chiavone era un prodotto di questa piccola e ottusa società, era nato in un anno giusto per vivere da uomo maturo il secondo periodo del regime ferdinandeo, inquieto anche in provincia, per sperimentare 186 quanto relativo fosse stato l’apporto dei liberali locali nella rivoluzione del 1848-49, per capire quanto politicamente meschino ed egoisticamente violento fosse stato il comportamento della borghesia locale prima, durante e dopo la stessa rivoluzione. Per aver vissuto la temperie e per essere un parto di un ambiente difficile, quello della contrada Selva, che aveva gravi problemi di delinquenza per la presenza di molti contrabbandieri di confine, l’Alonzi iniziò sparato e convinto la carriera, onorando bene il suo personale pedigree. Sfruttando le circostanze, riuscì subito a coprirsi di gloria. Diventò indiscusso capo della controrivoluzione prima a Sora e poi su un lungo tratto del confine borbonico-pontificio. Ma, proprio quando questo ruolo si allargò, cominciarono le difficoltà e le sconfitte. La fuga, o l’esilio, di Montieri a Roma, la crisi di potenza delle famiglie più conservatrici legate al prelato, il mutato atteggiamento di quei clan che si erano mostrati sempre freddi verso le novità e che ora, rassicurati dalla macchina repressiva attivata dai nuovi arrivati, cominciavano a capire che la svolta era definitiva e apportatrice di buone leggi per iniziare l’assalto alle proprietà ecclesiastiche, tutte queste cose, avvenute a cominciare dall’impresa di Bauco, tolsero risorse e sostegno a Chiavone che, comunque, rimase coerente alla scelta e molto operativo nell’azione; azione ora più di disturbo che di contrasto al completamento del progetto repressivo delle forze dell’ordine. Quelle che annunciarono e caratterizzarono la stagione del grande brigantaggio del 1861 furono, come s’è detto, imprese arrischiate, devastanti, che tennero il confine bollente in vari punti. Tatticamente il capobanda sorano si mostrò furbo e preparato e adottò alla perfezione la tecnica della guerriglia sfruttando al meglio le possibilità offerte dal confine. Strategicamente, però, questa tecnica, se procurava scompiglio tra le forze di occupazione e nelle magistrature locali, non frenava più di tanto il programma di integrazione anche di questa parte dell’ex regno borbonico alla nuova Italia. D’altronde questo e solo questo Chiavone poteva fare: inquietare il confine orientale e meridionale in tutta la sua lunghezza. E non era poco. Chi gli fornì i mezzi per attuare le sue campagne, cioè la corte 187 borbonica in esilio a Roma, capì tardi che le risorse impiegate per creare alla frontiera una efficace testa di ponte per la riconquista del meridione erano state sciupate, senza comunque rendersi conto del perché l’azione chiavoniana non poté spingersi fino a tanto: al brigante di Sora era mancato il sostegno delle grandi masse bracciantili che altri capiguerriglia in altre regioni, per esempio in Lucania, stavano avendo. La condizione dei lavoratori, oltre che agricoli qui da noi anche di industria, non era stata mai così disperante come nel profondo sud, ma risultava comunque molto misera e, se strumentalizzata, poteva costituire un elemento contestativo efficace per attuare una controrivoluzione su scala più vasta. Il limite maggiore di Chiavone-stratega fu allora quello di non aver saputo sollecitare e agganciare, come aveva fatto Crocco e i capibanda lucani a lui collegati, il risentimento contadino; di non aver inculcato minimamente il pensiero del riscatto delle terre nella mente delle masse rurali, soprattutto all’inizio della sua esperienza controrivoluzionaria. Una seria rivoluzione spontanea contro il sistema di gestione e tassazione della ricchezza a Sora, una rivoluzione senza capi ma violenta, che aveva coinvolto circa 500 contadini dell’agro sorano, si era verificata il 25 novembre 1855 e certamente, anche per gli arresti e gli strascichi giudiziari che essa aveva procurato, poteva costituire un elemento importante di riflessione per un capo astuto che quella massa voleva sfruttare a pieno per un suo più efficace programma sociale. Ma questa recente esperienza, questa importante base di partenza non furono considerate. La cultura di Chiavone non riuscì mai a concepire una scissione, in loco, tra gli interessi di privilegio dei «galantuomini» e della chiesa possidente e le necessità impellenti delle classi subalterne. Se, pur all’insegna della lotta per la conservazione della monarchia borbonica che costituiva pur sempre il suo impegno primario d’azione, il capobanda avesse proposto un programma di miglioramento economico e di emancipazione sociale alle sue masse sfruttate, l’insorgenza chiavonista, oltre ad avere più fortuna sul piano militare, sarebbe stata degna di migliore storia. Ma, in assenza di un pur minimo messaggio in questo senso, i contadini mantennero con la borghesia possidente un 188 solidale blocco conservatore grazie anche all’intercessione di un clero agguerrito e rispettato il quale, in linea con le notificazioni di mons. Montieri, aveva sempre esorcizzato come un castigo di Dio ogni principio di contestazione e, ancor meno, qualsiasi pacifica rivendicazione di fondamentali diritti a danno dell’assetto costituito. Allora, solo uno strategico coinvolgimento di masse vieppiù motivate di volontari nella sua guerriglia avrebbe permesso a Chiavone di colpire a fondo e quindi di marciare più lontano. Con i suoi 400-500 gregari del periodo più felice non poteva che realizzare quello che in effetti fece, e fece al meglio. Per rendere operativa la sua eterogenea comitiva, pretese o estorse mezzi e risorse che non sperperò integralmente a proprio vantaggio e a soddisfazione della propria amante, come si disse e tramandò. Se divenuta ricca, l’amante Olimpia non avrebbe sposato subito dopo la morte del suo focoso guerrigliero un oscuro brigante rinchiuso nelle carceri di Frosinone, dove ella volle si celebrasse il matrimonio. E non sarebbe morta povera e allontanata da tutti. Quella delle risorse fu una causa d’attrito e di incomprensione che contrappose il capobanda all’organizzazione borbonica centrale soprattutto nell’ultima fase della guerriglia chiavoniana; determinò una seria causa di crisi di fiducia tra Chiavone e i suoi subalterni; infine, scatenò le gelosie, il risentimento, il conclusivo mortale contrasto tra il capobanda indigeno e i legittimisti stranieri della sua comitiva. L’insufficienza dei mezzi con cui l’Alonzi dovette fare i conti fin dall’inizio, nonostante si favoleggiasse continuamente di ricchi flussi di denaro da Roma, condizionò i suoi progetti più seri distraendo la sua azione e configurandola troppo frequentemente entro i limiti di una volgare attività ladresca ed estorsiva che ne abbassò la qualità e l’efficacia. È vero che la scelta del bersaglio verso cui indirizzare i suoi attacchi pirateschi ed «espropriativi» era quasi sempre sollecitata dalla vendetta politica: sindaci liberali, ufficiali della guardia nazionale, galantuomini non borbonici o traditori; però, dire che questi interventi fossero produttivi sul piano della realizzazione politica è dire troppo. Si considerano comunque classici in situazioni del genere e, nel caso di Chiavone, perdonabili, perché non ci fu mai da parte sua l’inten- 189 zione di spargere sangue barbaramente. Se una buona parte dell’iniziativa si connotò come pura attività brigantesca, le sue incursioni e soprattutto i più rimarchevoli assalti a diversi comuni del Rovetano, a Monticelli e Lenola, a Castelliri, a Isoletta e S. Giovanni Incarico, a Castel di Sangro, e poi la pressione continua su Sora, esercitata e guerreggiata nei sanguinosi scontri sulle pendici dei suoi monti, si possono considerare un contributo di grandissima importanza militare nella partita che contrapponeva una dinastia in sfacelo, tradita e senza più esercito ad un’altra aggressiva e in ascesa inarrestabile. Il rilievo dell’azione chiavoniana è testimoniata, del resto, dalla fortissima mobilitazione di uomini e mezzi della difesa piemontese nella vasta area minacciata. Area che aveva un valore strategico notevolissimo e che finì per conferire a Chiavone anche un grosso ruolo diplomatico, sicuramente sproporzionato alla sua cultura. Infatti, essendo egli l’unico, grande capo della guerriglia sul confine, qualsiasi progetto di riconquista del Meridione da parte di Francesco II doveva, come s’è detto, per forza coinvolgerlo da protagonista. Come punto di riferimento essenziale su un’area di crisi da cui più direttamente poteva partire la controffensiva borbonica, magari benedetta dal papa e sostenuta dai francesi, Chiavone si ritrovò al centro di un fitto scambio di contatti, anche ad altissimo livello, che era iniziato dagli esaltanti abboccamenti del brigante con il re e la corte a Gaeta allo scoppio dell’insorgenza ed era continuato, per tutto il tempo, con i frequenti suoi viaggi a Roma per incontrarsi ancora con il re e la regina e, più spesso, con gli esponenti dello speciale comitato borbonico che organizzava e tramava per il ritorno dei sovrani sul trono di Napoli. In questo ruolo Chiavone diventò pure l’elemento catalizzatore delle frenesie idealistiche di molti legittimisti europei, alcuni dei quali aristocratici, tanti altri provenienti dai ranghi degli eserciti delle monarchie assolutiste del vecchio continente. Quasi tutti animati dalla spinta romantica a seguire i propri impulsi che li portavano a combattere per i valori di fede e di onore, questi, con la loro presenza nella compagine brigantesca, in un primo momento esaltarono ancora di 190 più la figura di Chiavone agli occhi degli osservatori europei, tanto che fu fatto oggetto, s’è detto, di grande attenzione da parte della stampa straniera che ne seguì le imprese quasi quotidianamente e gli dedicò esclusivi servizi. Ma poi, con il riflusso della controrivoluzione, queste presenze divennero sempre più incompatibili con il carattere e gli scopi del capo indigeno e ciò portò a incomprensioni laceranti che dovevano risultare mortali alla parte più ingenua della contesa e cioè a Chiavone e ai suoi più stretti collaboratori. Il non aver saputo gestire il rapporto con i colleghi stranieri e soprattutto con l’accreditato generale Tristany può essere considerato un altro limite di Chiavone, il limite ultimo perché sarà la causa della sua morte. La tignosa convinzione del brigante di essere l’unico capo della guerriglia di confine, la riottosità a collaborare anche quando la spocchia di Tristany proponeva strategie sensate, la gelosia di sentirsi scavalcato nel rapporto privilegiato con la centrale organizzativa romana e, infine, la diffidenza o forse l’orgoglio del popolano, che dopo aver raggiunto la celebrità non vuol ritrovarsi di nuovo subalterno, furono gli elementi che portarono alla sua rovina e fecero capire che l’ambizione personale prevaleva sui più importanti interessi dei Borbone e sul progetto comune della loro restaurazione. Comunque, a proposito della corte napoletana ormai estromessa, si deve dire che la colpa prevalente della mancata intesa tra i soggetti in armi e del fallito coordinamento generale delle operazioni militari di resistenza affidato a questo o a quel personaggio (Borges, Tristany) è da attribuire proprio alla centrale borbonica di Roma che, con i suoi componenti inadeguati, di troppo- vecchia guardia, non si mostrò all’altezza del compito, disonorando le risorse e la fiducia ad essa accordate dalla giovane e, se vogliamo, patetica coppia reale. Tornando ai nostri protagonisti, è pur vero che, dopo la morte dell’Alonzi e l’immediato disfacimento della banda, Tristany, come Zimmermann e tutti gli altri, furono insignificanti sul piano operativo e per niente perseveranti nel progetto a cui con molta coerenza si era dedicato Chiavone. Però, a prescindere da quelli che poi furono gli sviluppi futuri della vicenda, il rigetto preconcetto di una colla- 191 borazione che in ogni modo andava accettata da chi teneva a cuore la causa costò caro al brigante e lo consegnò alla storia come persona non evoluta e poco diplomatica. Certamente anche Tristany e Zimmermann si qualificarono quando, di fronte alle difficoltà serie di una guerra anomala e alla palese inadeguatezza dei mezzi per condurla onorevolmente, abbandonarono la partita infamando, con testimonianze che nessuno poteva contestare, chi l’aveva giocata con coerenza e passione, rimanendone vittima. Conclusa l’esperienza con Chiavone, i due giustizieri, in base a quanto dopo seppero fare e a quanto lasciarono scritto, scesero con disonore, nel giro di qualche mese, dal piedistallo della loro presunzione ad un basso livello di perfidia che può togliere credito a quelle pagine delle Erinnerungen di Zimmermann molto ampie nel descrivere l’esagerata vigliaccheria di Chiavone di fronte alla condanna e alla morte. Per gli assassini del brigante, e soprattutto per Zimmermann, che in un primo tempo fu molto deferente verso il suo capo indigeno, anche la memoria delle imprese di costui, positiva per quella parte politica, doveva essere rimossa con durezza per dimostrare che quanto di buono e di coraggioso era stato fatto in frontiera a vantaggio della causa legittimista era merito degli stranieri e, in primo luogo, suo personale. Dalla vicenda speculare che contrappose in Lucania il legittimista spagnolo Borges al capo indigeno Crocco si può ricavare che il fenomeno brigantesco era estraneo alla mentalità dei signori venuti da fuori, i quali, avendo quasi tutti una rispettabile esperienza di guerra, tentarono, senza successo, di espropriare delle loro prerogative i rozzi capi locali. Ed estranei e lontani erano gli interessi e gli scopi delle due categorie. Troppo idealisti e romantici gli uni; coerenti ed istintivi gli altri. Avvantaggiati gli uni, perché poterono con la penna tramandare alla storia le loro «verità»; totalmente perdenti gli altri perché la loro innocente ignoranza li infossò due volte: di fronte al nemico e di fronte alla storia. Perciò, quando Zimmermann scrisse le memorie, sapeva che la sua vittima non poteva confutarle e sicuramente calcò tanto la penna da lasciare profondamente inciso l’intento del discredito. Pur ammet- 192 tendo tutti i difetti di Chiavone, oggi si può dire, con serenità storica, che egli non ordinò mai decimazioni sommarie come essi fecero e non tentò di vendersi al nemico come Tristany; piuttosto continuò la sua battaglia linearmente e, nell’ultimo periodo, con indiscutibile sangue freddo perché sapeva bene che per lui ci sarebbe stata comunque la morte. Se avesse avuto tanta paura della fine fisica, come il tedesco scrisse, perché il brigante respinse così decisamente le serie proposte di presentazione offertegli dai piemontesi? Se era tanto vigliacco e traditore perché non giocò d’anticipo con gli stranieri quando s’accorse che la contesa con loro stava assumendo sviluppi inquietanti? Se si sa leggere nella storia di questo importante personaggio della reazione antiunitaria e soprattutto in quella che descrive le sue vicende finali nella versione finora unica, purtroppo, di Zimmermann certe infamie e tante denigrazioni possono essere ridimensionate. La lettura critica, se aiuta a capire meglio il protagonista, non può portare, comunque, ad una esaltazione del suo operato dinanzi alla Storia. Chiavone non è stato un eroe positivo. Per esserlo si deve lottare per l’affermazione del progresso e per l’emancipazione del cittadino, che poteva avvenire, all’epoca, iniziando a conquistarsi una giustizia economica, una liberale costituzione, una evoluta democrazia. Il brigante di Sora, invece, fu un paladino sfortunato di una forma di potere che si avvertiva anacronistica, di una struttura statale ormai obsoleta, di una dinastia che, dopo l’ottimo Carlo III e per un intero secolo, nonostante i tanti, fortissimi scossoni rivoluzionari che le venivano sia dall’esterno che dall’interno, era rimasta pigra, politicamente ingessata e per niente lungimirante. È certo comunque che Chiavone è stato un personaggio, non spregevole tra quelli che hanno fatto un certo tipo di guerra, grande nella serie di quelli travolti dalla «fiumana del rinnovamento» (avrebbe detto Giovanni Verga) che egli non ha saputo concepire. È stato uno dei più importanti capi del brigantaggio meridionale e capo assoluto di quello molto politico e diplomatico svoltosi alla frontiera pontificia. Il suo ascendente è dimostrato dal fatto che, dopo la sua morte, non ci fu su questo fronte un successore e la zona divenne solo un pericoloso ricettacolo di pregiudicati e delinquenti allo sbando