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 2022  luglio 17 Domenica calendario

Intervista a Allyson Felix

Per la prima volta in 20 anni di carriera Allyson Felix ha rallentato. Lo ha fatto dopo 11 podi olimpici, dopo 18 medaglie mondiali e sull’orlo della numero 19. Lo ha fatto quando è diventato evidente che vincere non fosse più la stella cometa di una vita e soffrire, resistere e insistere non fosse più necessario. Forse lo è sempre stato meno di quanto sembrasse, ma 20 passati a correre sono lunghi: cambiano chi sta in corsia, cambia quello che succede fuori. Sul finale della seconda frazione nella 4x400 mista con cui l’atleta più vincente della storia, più di Carl Lewis, più di Bolt, archivia una parte dell’esistenza, lei decide di alzare la testa.
Sarà bronzo e non per la sua esitazione, per scelte di squadra che hanno lasciato alla signora della pista il suo giro di onore e ai più in forma della nazionale altre gare. Va bene così. Anzi, non potrebbe andare meglio.
In quell’ultimo passaggio di testimone che cosa ha pensato?
«Volevo godermi l’istante. Quando sono partita ho sentito il pubblico urlare ed è stato potente. Ero felice, completamente soddisfatta. In casa, negli Stati Uniti, nello stadio dove ho corso tante volte, con mia figlia sugli spalti. Ho assaporato la perfezione».
Di queste 30 medaglie globali tra Giochi e Mondiali quante se ne è perse?
«Ho più sofferto che gioito anche se ogni successo è stato speciale ma la strada per arrivarci mi ha sempre portata al limiti, spesso pure oltre e sono dovuta ripartire. Senza questo continuo stress non avrei avuto le soddisfazioni che ora mi resteranno per sempre per cui non mi pento e rifarei tutto».
È questa la sua eredità?
«Senza tutto questo forse non ci sarebbe un’eredità, ma lascio la consapevolezza che le atlete e gli atleti devono parlare e far sentire la propria voce per avere quello che è giusto. Lascio la prova che non si corre nel tunnel del vento, da soli contro tutto. Si corre per ottenere successi e servono sacrifici importanti ma esistono pure dei diritti e devono esserci in partenza. Vale nello sport come nella società».
Quando ha capito che le negavano dei diritti?
«Mi hanno detto che ero troppo vecchia per continuare, che dopo la maternità avrei dovuto smettere. Messa in discussione come atleta e come donna, perché una volta mamma ci si aspettava smettessi».
Ha cambiato il sistema.
«Non lo so. Ho lottato, ho obbligato altri ad ascoltare, ho mostrato che si può pretendere e si dovrebbe poterlo fare pure prima di vincere. Molte delle leggi dello sport sono state scritte e pensate da uomini, ci sono punti di vista che mancano. In questa mia ultima stagione ho corso per le donne».
Come vuole essere ricordata?
«Come un’atleta orgogliosamente competitiva, una che ha imparato dagli errori, soprattutto come una che ha lasciato lo sport che ama meglio di come lo ha trovato».
Ha contribuito a dare il via al programma «Child care».
«Quando sono rientrata, dopo la maternità, Cammy aveva pochi mesi ed era difficilissimo allenarsi, ancora di più viaggiare e stare nei camp stagionali. Vale per me e per i colleghi, vale anche per i padri. È un problema e uno di quelli che non si vogliono vedere. Fai un figlio e o stai a casa tu o sta a casa lui o lei».
Ha paura che la pista le manchi?
«Mi mancheranno le emozioni che mi dà anche se, a 36 anni, ne ho vissute parecchie. Se mi aveste detto all’inizio che io sarei diventata il tipo di persona impegnata in campagne sociali avrei sorriso. Ho sempre avuto le mie idee, però pensavo solo a correre, ad allenarmi per vincere».
Il testimone sarà raccolto o verrà lasciato cadere?
«È già stato raccolto e comunque qui finisce la mia carriera agonistica, non la lotta per quello in cui credo».