La Stampa, 17 luglio 2022
Piazzolla, mio marito
Quella volta che suonò nella cattedrale di Trani dovette sembrargli di ricongiungersi con le origini, respirare il passato della sua famiglia. Proprio lì si erano sposati i suoi nonni paterni. «Fu per lui un’emozione indescrivibile. Non riuscì a fermare le lacrime». La stessa commozione travolse le centinaia di spettatori arrivati solo per ascoltarlo. Era il 29 marzo del 1987 e lui era Astor Piazzolla.
A ricordare quel momento è la moglie Laura Escalada Piazzolla. «Portò sempre nel cuore quella sera: la sua musica risuonava in questa chiesa meravigliosa e imponente costruita sul mare». Pensava al nonno Pantaleone, pescatore originario della cittadina pugliese. Di lui, nel suo primo viaggio in questi luoghi, volle sapere tutto. «Alla fine degli anni ’70 ci trasferimmo a Parigi. Nello stesso periodo siamo stati in Italia alla scoperta delle sue radici e alla ricerca della casa dove visse Pantaleone». Era emigrato in America Latina in cerca di fortuna. In Argentina, per via della sua stazza, lo avevano soprannominato «Il gigante». «Quando Astor vide la porta dell’abitazione del nonno, si rese conto che era piccolissima. Ne fu sorpreso, continuava a chiedersi come facesse ad entrare e uscire da lì, considerando la sua fisicità».
Nel mese di luglio ricorrono i trent’anni dalla scomparsa. «Dopo la sua morte, ho detto a me stessa che dovevo creare una Fondazione per raccontare al mondo intero chi era quest’uomo, la sua genialità». Ha iniziato a viaggiare per tenerne viva la memoria. Autore, compositore, interprete, fu un rivoluzionario del tango argentino. E per questa ragione anche i suoi esordi musicali non furono facili. «Nel suo Paese fu molto ignorato. Ora è noto al mondo intero, ma la sua vita non fu semplice. Quando ci siamo incontrati non aveva un soldo. All’inizio mi diceva: “Guarda Laura, tu hai sposato un povero bandoneonista”. Sognava Parigi, che poi è stata la sua vera occasione».
Il padre Vicente, figlio di Pantaleone, e la madre Asunta originaria di Massa Sassorosso, in provincia di Lucca. Forse anche per le sue origini italiane amava così tanto la pasta. Cosa che lo accomunava a Carlos Gardel, attore e cantante di cui divenne amico e che lo incoraggiò a proseguire per la sua strada.
Laura è convinta che il destino di Astor fosse già scritto. A cominciare da quel bandoneon che gli regala il padre. Sono gli Anni ’30, la famiglia si è ormai trasferita a New York: Vicente entra in un negozio di antiquariato, vede quello strumento e decide di portarlo a suo figlio che è ancora un bambino. «Iniziò a suonare con un maestro che gli dava lezioni di musica classica. Di tango non sapeva niente e non gli interessava nemmeno». Ma un giorno accade qualcosa. «Suo padre aveva realizzato una scultura in legno che riproduceva Gardel. Sapeva che l’artista era in America e chiese al figlio di portargliela. Tra i due nacque un’intesa immediata e Carlos si ritrovò a casa Piazzolla. Lì vide il bandoneon e chiese al ragazzino di improvvisare qualcosa. Astor sapeva suonare solo la musica classica, lui si meravigliò: “Ma come non conosci il tango? Questo strumento è per il tango”. Quello fu l’inizio». Lo invita a seguirlo in tournée, ma il padre non vuole. Il rifiuto gli salva la vita: Gardel e i suoi musicisti muoiono in un incidente aereo.
È ancora giovanissimo quando la sua famiglia torna in Argentina, nella città natale di Mar del Plata. Poco meno che ventenne, raggiunge poi Buenos Aires. «Credo che la sua testimonianza più forte sia stata la sua vita, la sua determinazione. All’inizio nessuno lo ingaggiava». Al tango si è ormai appassionato, ma è molto lontano da quello tradizionale. C’è ritmo, ci sono persino influenze jazz che ricordano il suo periodo negli Stati Uniti. Passione e nostalgia si fondono in questi suoni tormentati.
«Se so ballare il tango? Qui è un’offesa se non lo sai fare. Ho iniziato da piccola: prima con mio padre, poi con i cugini maschi. Con Astor mai. Generalmente il musico non sa ballare». Al pianoforte già dalle 8 del mattino, poi una breve pausa per il pranzo e sino al pomeriggio a scrivere. «Ha lasciato delle opere così ricche da poter essere considerato al pari dei grandi compositori classici. Dopo anni, finalmente è arrivato al suo destino: essere noto, rispettato, riconosciuto tra i musicisti più importanti del secolo scorso».