La Stampa, 17 luglio 2022
Spread, il prezzo dello scudo
La Storia produce spesso coincidenze significative. Cinque agosto 2011: l’allora presidente della Banca centrale europea Jean Claude Trichet firma insieme al numero uno della Banca d’Italia Mario Draghi una lettera a Silvio Berlusconi in cui lo invitano a impegnarsi per «la sostenibilità di bilancio e le riforme strutturali». Le condizioni politiche per quel contestatissimo atto risalgono ad un Consiglio dei Capi di Stato europei di pochi giorni prima, il 21 luglio. Giovedì prossimo, il 21 luglio, è il giorno in cui la Banca centrale europea di Christine Lagarde (altra ironia della Storia: francese come Trichet) dovrà decidere il primo aumento dei tassi di interesse degli ultimi dieci anni. La decisione è scontata: gli analisti si aspettano un più 0,25 per cento. Sarà il primo atto dell’inevitabile strategia per combattere l’inflazione, mai così alta in Europa da almeno trent’anni. Per l’Italia è una prima notizia negativa. Quando aumenta il costo del denaro, sale il costo per finanziare il debito pubblico. Poiché quello italiano resta il terzo del mondo progredito, la decisione avrà un impatto sulle scelte di politica economica: più sale il costo per finanziare la spesa, meno ce ne sarà a disposizione di chi governa. Ma c’è di più, ed è la coincidenza più beffarda: in quella stessa riunione i diciannove governatori dell’area euro avranno sul tavolo una seconda decisione politicamente ancor più delicata. Sul documento riservato consegnato ai banchieri centrali c’è scritto «Transmission Protection Mechanism». I tecnici di Francoforte gli hanno dato ancora una volta un nome incomprensibile, ma per farla breve si tratta di uno strumento simile a quello che nel 2011 avrebbe dovuto evitare il peggio al Paese in recessione e con una maggioranza incapace di fare le scelte necessarie a combatterla. Le richieste della lettera di Trichet e Draghi erano la precondizione perché quello strumento venisse introdotto. Allora lo strumento era debolissimo, e nonostante l’austerità che ne seguì con Mario Monti non impedì all’Italia di sfiorare il peggio e il ricorso ad aiuti internazionali. Quando il 26 luglio di un anno dopo (ennesima coincidenza temporale) il nuovo governatore della Banca centrale europea Draghi pronunciò il discorso del «whatever it takes» il differenziale di rendimento fra i titoli italiani e quelli tedeschi aveva superato i 500 punti. Otto mesi di governo Monti non erano bastate a convincere la politica a varare le riforme che avrebbero dovuto evitare la perdita di credibilità dell’Italia. Il resto lo fece la crisi – in quei giorni drammatica – delle banche spagnole.
Giovedì mattina Lagarde dovrà faticare non poco per convincere i colleghi nordeuropei a dire sì al nuovo strumento che dovrebbe evitare all’Italia i problemi di allora. Le paginate di critiche apparse in questi giorni sui giornali tedeschi sulla crisi innescata dai Cinque Stelle – comunque andrà a finire – hanno già minato la determinazione di chi quello strumento vorrebbe approvarlo senza contropartite. Le voci che rimbalzano da Francoforte parlano di governatori nordici determinati a chiedere «condizionalità», ovvero la concessione dello scudo in cambio di maggiore austerità o quantomeno il rispetto degli obiettivi del piano europeo delle riforme. Una fonte anonima di Francoforte spiega così lo stato delle cose: «Una decisione sullo scudo probabilmente verrà comunicata. Ma non si tratterà di un’arma tale da permettere di togliere le castagne dal fuoco ad una maggioranza rissosa».
La Storia dunque si ripete, seppure in condizioni meno gravi e più beffarde. A Palazzo Chigi oggi c’è colui che dieci anni fa stava dall’altra parte della barricata. Il piano di acquisti di titoli pubblici inaugurato durante la sua presidenza a Francoforte e le condizioni (migliori) dell’economia rendono improbabile il verificarsi di conseguenze finanziarie altrettanto gravi. E però le premesse sono le stesse di allora: una crisi internazionale (la guerra in Ucraina), la scarsa credibilità della politica italiana, un debito pubblico più alto di allora, riforme lasciate a metà nonostante un governo di quasi unità nazionale. Da un punto di vista politico oggi c’è persino un’aggravante: la possibile interruzione di un gigantesco piano di spese deciso dall’Europa e di cui l’Italia di gran lunga il primo beneficiario. Comunque vada a finire per il governo Draghi, la crisi al buio scatenata a luglio 2022 resterà l’ennesimo regalo ai cantori dell’Italietta.