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 2022  luglio 17 Domenica calendario

Nives Meroi racconta la conquista del K2

Ci sono giorni estivi in cui si prova a salire più in alto possibile. Nives Meroi aveva quarantacinque anni quando nel 2006 trascorse i mesi della luce a misurarsi con il K2, la seconda cima del mondo. Aveva già raggiunto otto vette dei più maestosi massicci della Terra. Ma di quella sommità aveva visto una foto ritratta da Nord e l’aveva trovata irresistibile.
A raggiungerla ci aveva provato due volte. Senza riuscirci. Quella fu l’estate in cui volle tentare ancora.
A differenza di molti, invece di arrivare in altitudine con gli elicotteri, cominciaste la spedizione a piedi. Quando e dove?
«Era il 20 giugno. Da Askole, una cittadina della valle di Shigar, in Pakistan. A quasi 3mila metri».
In quel momento la vetta, a 8611 metri, era distantissima.
Quando si rese conto davvero che stava andando verso il K2?
«Quattro giorni dopo. Il 24 giugno.
Siamo arrivati in un punto che si chiama Concordia. Lì il ghiacciaio si biforca. L’ho visto a sinistra e mi è mancato il respiro».
Da lì, siete arrivati al campo base a 5mila e 400metri. Il mattino siete partiti per la vetta?
«Macché. Abbiamo cominciato a fare una serie di salite e discese progressive in quota, per dare il tempo all’organismo di mettere in atto dei trucchi per sopravvivere a quelle altitudini».
Per quanto tempo?
«Ci vogliono almeno venti giorni per adattarsi all’ipossia, cioè alla carenza di ossigeno».
Eravate senza ossigeno supplementare e senza portatori di alta quota. Per avere un rapporto più onesto con la montagna e non far correre rischiagli sherpa. In molti lo chiamano alpinismo leggero.
«Di leggero non c’è proprio niente! Di fatto nello zaino c’era tutto il campo, tutto il necessario per affrontare la salita, i viveri e le bombolette di gas».
Il 23 luglio ha provato a salire verso la vetta con tuo Romano Benet?
«Sì. Però, salendo, incontrammo gli scalatori delle altre due spedizioni, russa e statunitense.
Stavano scendendo e dissero che non c’erano le condizioni per proseguire. Erano arrivati a 7mila e 400 metri. Per loro c’era così tanta neve che sarebbero serviti cinque uomini per aprire la traccia e salire».
Eravate tra 6mila e 6 mila e 700 metri e davanti avevate la Piramide Nera, una parete verticale ghiaccio e roccia. Che faceste?
«Andammo avanti. La Piramide Nera è bella tosta, tecnicamente impegnativa. In più, man mano che la stagione avanzava, la neve cominciava a fondere. Il sole rendeva instabile il percorso. C’erano frane e scariche di sassi».
Cosa ricorda di quel tratto?
«Soprattutto la fatica: avevamo lo zaino con tutto il materiale per la salita, dovevo tirarmi su per tratti verticali con tutto l’ingombro dei vestiti da alta quota».
Da quel punto in poi eravate da
soli su tutta la montagna. Cosa ha provato?
«Da sotto la guardi, sono dimensioni così enormi che perdi i punti di riferimento. Devi essere in grado di essere autosufficiente fisicamente epsicologicamente».
Dove hai imparato?
«Io e Romano, mio marito, siamo nati alpinisticamente sulle Alpi Giulie. Per motivi storici, montagne abbandonate che hanno fatto da divisione fra due mondi: l’Occidente e il blocco comunista. La linea pattugliata dalla guardia confinaria jugoslava che non si faceva tanti problemi a tirarti giù con il Kalashnikov».
C’è stato sul K2 un momento di tensionetra voi due?
«No, incredibile! Ai primi tempi litigavamo fino ai settemila metri, poi più su manca l’ossigeno, così, facevamo i conti al ritorno. Con l’allenamento siamo riusciti a discutere ovunque. Ma quella volta abbiamo litigato solo per delle batterie».
A quelle altezze, cosa
mangiavate?
«Molti usano le buste tipo astronauti. Io e Romano, che siamo del millennio scorso, proprio lì che i gusti sono distorti, preferiamo le cose consuete: prosciutto, parmigiano, torrone».
Diceva che la neve cominciava a fondere...
«Durante il giorno, in zone protette, con la luce riflessa, c’erano temperature altissime. Poi da un momento all’altro, la temperatura precipitava, anche a venti o trenta sotto zero».
Di notte dormivate?
«Certo. Il sonno è fondamentale, rigenera l’organismo. Quando eravamo in parete, le notti erano lunghissime, alle cinque ci chiudevamo in tenda. Cominciava a far freddo e l’attesa fino all’indomani mattina era interminabile. La tenda era piccola, era tutto un rubarsi le poche molecole di ossigeno».
Arriviamo all’ultimo giorno, al 26 luglio, al tratto più difficile di tutti. Partiste dalla tenda alle due di notte. Come fu?
«Una fatica brutale. La differenza tra 8mila “bassi” e 8mila “alti” è grandissima. Si sente a ogni metro che sali».
C’era un patto tra di voi?
«Sì»
Quale?
«Entro le 14, ovunque ci fossimo trovati, avremmo girato i tacchi e saremmo tornati giù».
E cosa accadde?
«Erano quasi le 13 e mi è successa una cosa stranissima. A una cinquantina di metri dalla cima, ho cominciato a sentirmi strana, mi sono fatta un rapidissimo check-up per capire se fosse edema cerebrale o altro».
Cos’era?
«Mi sono resa conto che stavo piangendo, una cosa che non mi era mai capitata in nessuna salita, e anche se mentre piangevo, singhiozzavo e avevo delle apnee, e avevo un mostruoso bisogno di ossigeno, non riuscivo a fermarmi.
E gli ultimi cinquanta metri li ho fatti così: piangendo per l’emozione».