Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  luglio 17 Domenica calendario

Cronaca dei funerali di Eugenio Scalfari

Il bianco delle rose e il blu delle ortensie del giardino di Velletri. Chopin all’inizio ed Ella Fitzgerald alla fine, perché anche il suo funerale è stato un “Sentimental Journey”, un viaggio sentimentale di ricordi, passioni, testimonianze, come la voce di Ella Fitzgerald, come il bellissimo documentario che Enrica e Donata Scalfari hanno dedicato al padre. Eugenio ci ha lasciati così, a 98 anni, in una giornata caldissima ma con il cielo azzurro vivo, serrato simbolicamente nell’abbraccio di tutte le generazioni di Repubblica, non mancava nessuno, tranne gli amici che purtroppo non ci sono più.
È stato un viaggio sentimentale (e morale, civile, letterario, umano, politico) quello che Roberto Gualtieri, Bernard Guetta, Walter Veltroni, Maurizio Molinari, Massimo Giannini ed Ezio Mauro hanno dedicato a Eugenio Scalfari nelle loro “orazioni funebri” che di funebre non avevano niente. Anzi, come già nella camera ardente, così ieri nella Sala Protomoteca del Campidoglio, l’addio al fondatore di Repubblica si è trasformato, raccontando Eugenio, in uno straordinario momento di riflessione sul giornalismo, sull’Italia, anzi su quella «certa idea dell’Italia», che tanto ricorreva, citando Gobetti, così ha ricordato Ezio Mauro, «nelle conversazioni con Scalfari». E sul «bisogno di innovare sempre, di non fermarsi mai sulla strada dell’innovazione, perché soltanto soltanto così, mi diceva nei nostri incontri, possiamo modernizzare questo straordinario paese» racconta Maurizio Molinari, direttore di Repubblica.
Grande la folla, dentro la sala, davanti al feretro di Eugenio, tanti i colleghi e i lettori rimasti fuori, su piazza del Campidoglio davanti ai maxischermi. Ad abbracciare Enrica e Donata, e poi Simone, amatissimo nipote ed Ettore Viola, marito diDonata, è accorsa Repubblica di ieri e di oggi. I giornalisti, i tipografi, le segreterie, i dimafonisti, i “ragazzi di Piazza Indipendenza” e tutti gli altri, i più giovani, cui spetta oggi difendere l’eredità della lezione di Scalfari. L’anima, anzi, come più volte l’ha definita Massimo Giannini, direttore della Stampa.
A salutare Eugenio, davanti al feretro “ornato” dai primi numeri dell’Espresso e di Repubblica e le ortensie arrivate dal giardino della casa di Velletri, la campagna che Scalfari amava, c’erano, tra gli altri, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, Gianni Letta, Piero Fassino, Luigi Zanda, il direttore dell’Espresso Lirio Abbate, Mario Calabresi, Carlo Verdelli, il regista Roberto Andò.
Dopo l’intenso saluto del sindacoRoberto Gualtieri, «Roma saprà ricordare Eugenio Scalfari», dopo lo speciale messaggio del presidente francese Emmanuel Macron «all’amico Eugenio», letto da Bernard Guetta e tradotto da Simone Viola, nipote di Scalfari, ha preso la parola Maurizio Molinari, direttore di Repubblica. Un discorso breve e incisivo, a tratti commosso, ma decisamente rivolto al futuro, in cui Molinari parla di dolore e responsabilità. «Il dolore della comunità di Repubblica, dei suoi lettori, di quelli che lo sono stati e di quelli che lo saranno che si unisce alla famiglia per ricordare un uomo straordinario, che ha dedicato il suo genio e la sua forza creativa a inventare chi noi oggi siamo». Non solo dolore però. Molinari si sofferma sul desiderio di Scalfari di aprire sempre una nuovafrontiera. Dunque la responsabilità di portare avanti lo straordinario patrimonio di Repubblica.
«Eugenio aveva il coraggio di osare nel leggere le notizie, nel pensare il timone del giornale, nell’impaginazione, aveva l’idea di non fermarsi mai. Aveva l’idea di una società basata su diritti e riforme. Idee profonde – chiarisce Molinari – radicate nella sua cultura del socialismo liberale, della Costituzione repubblicana e nella sua vocazione europea che tutti noi condividiamo». Progetti, fino alla fine, così infatti l’hanno narrato nei giorni scorsi Enrica e Donata.È tutto, invece, dentro le stanze della redazione di Piazza Indipendenza, il discorso di Massimo Giannini, che a Repubblica è nato e cresciuto, Scalfari è “Barbapapà”, era ilpadre che ti sgridava ma poi premiava, erano i riti della riunione del mattino, le lettere di censura che facevano tremare, il “bastone da maresciallo” che voleva dire essere eletti tra le firme. «La sua sconfinata grandezza sta nella prima pagina di quel primo numero del 1976, il titolo di quell’editoriale profetico, È vuoto il palazzo del potere. Abbiamo fatto e rifatto il giornale, l’abbiamo cambiato, oggi parliamo dei “content hub”, ma Eugenio li aveva già creati tutti: il Venerdì, Affari e Finanza, Mercurio, Viaggi”.Infiniti gli aneddoti di una stagione irripetibile che Giannini racconta, gli “evviva” o “abbasso” che potevano toccare a un tuo pezzo, la gioia (e la paura) di varcare ogni giorno il portone di via dei Mille. Ma è soprattutto dell’anima di Repubblicache Giannini parla, «di quell’anima e di quella identità che hanno fatto di noi ciò che siamo e questo ho cercato spiegare ai nuovi azionisti», dunque è quell’anima cui Scalfari ha dato vita che non deve in nessun modo andare perduta. «Repubblica era una militanza, eravamo duri e competitivi tra di noi, Eugenio diceva che dovevamo essere come la falange macedone: la notte i guerrieri si picchiavano fra loro, ma la mattina dopo erano uniti e vincevano».Per vent’anni Ezio Mauro ha guidato Repubblica, dopo la decisione di Scalfari di lasciare la direzione nel 1996. Ed è con lui che noi, ragazzi di Piazza Indipendenza, abbiamo raggiunto la maturità giornalistica, nel solco della lezione di Scalfari. Le prime parole sono dolenti. «La famiglia oggi si riappropria del padrenel momento in cui se ne va. Non ci resta che lasciarlo andare». È il saluto a Enrica e Donata, a Ettore e Simone. Poi Mauro però torna a Repubblica, a quella «titanica ambizione che è il cambiamento», cui Scalfari aspirava, attraverso «un progetto culturale che non ha eguali, ossia Repubblica». «Un giornale dove per la prima volta i lettori non erano clienti ma partner, partecipi della scommessa per costruire un’altra Italia».Una comunità. Di giornalisti, poligrafici e lettori. Leggere Repubblica, racconta Ezio Mauro, «voleva dire credere nella modernizzazione del Paese, nel rifiuto delle spinte tribaliste e familiste». «Eugenio si rivolgeva alla classe dirigente che credeva nell’Europa, a quel pezzo di classe operaia che stava cercando di indirizzare le proprie energie dopo il sogno sfumato della rivoluzione. Credeva – racconta Ezio Mauro – nell’idea di dare voce alle culture di minoranza, era libertino culturalmente». E poi il ritratto più acuto: «Eugenio era liberale di formazione, radicale per metodo, socialista nel linguaggio, comunista nella convinzione di poter liberare la sinistra italiana dai suoi demoni, proiettandola a diventare una forza di governo». Tutto questo era Repubblica e chi Repubblica leggeva e legge ancora. Poi torna Eugenio, l’amico. «Con la vecchiaia era diventato più dolce, cercava l’affetto, voleva parlare delle persone più che della politica, in ogni momento difficile della mia direzione lui c’era, per un consiglio, un confronto». Un eredità che sarebbe uno scempio se si disperdesse. Mauro ricorda il “grazie” di chi ha avuto l’onore di partecipare all’avventura di Repubblica, tutti, nessuno escluso, citando, come esempio, il necrologio per Eugenio fatto dai tipografi. «Noi resteremo fedeli a tutto questo. Perché non tenere insieme le radici e le foglie sarebbe come disseccare l’albero che ci ha donato. Il suo viaggio continua».