Il Messaggero, 17 luglio 2022
Intervista a Susan Vega
Non ha mai sgomitato, per farsi largo negli uffici delle case discografiche, mentre altre colleghe del circuito pop sembravano essere disposte a tutto pur di conquistare le classifiche e i riflettori: chissà Suzanne Vega quante occasioni avrà perso, per via di quella sua intransigenza di fronte a certi meccanismi dello show business. Figura di spicco del revival della musica folk dei primi Anni 80, la musicista, nata a Los Angeles ma crescita musicalmente a New York sul palco dei locali del Greenwich Village, seguendo le orme di Bob Dylan, Joan Baez e altre icone, a 63 anni non sembra essere cambiata di una virgola rispetto a quando nel 1985 con l’eponimo album d’esordio cominciò a ritagliarsi uno spazio tutto suo sulla scena. La sua vita sarebbe cambiata però due anni più tardi. Merito di Luka: l’album contenente quel singolo, nel quale la rossa cantautrice riuscì ad unire una melodia così orecchiabile e leggera a un tema così delicato come quello degli abusi subiti da un bambino all’interno delle mura domestiche, vendette 5 milioni di copie in tutto il mondo. «Quando ho iniziato c’era poco spazio per le donne musiciste. Mi chiedevo: Perché? Cosa c’è che non va, con le cantautrici?», racconta dall’altra parte dello schermo. Ieri sera ha dato il via da Trento alla sua mini-tournée estiva italiana con il chitarrista Gerry Leonard, che martedì la porterà alla Casa del Jazz a Roma.
È stata la prima donna ad esibirsi come headliner al festival di Glastonbury, nel 1989: è cambiato qualcosa, dopo?
«Sì. Penso di aver aperto una piccola breccia dalla quale, dopo di me, sono passate altre colleghe, allargandola sempre di più. Quell’esperienza fu in parte anche drammatica. Prima dell’esibizione a causa di alcune minacce di morte ricevute la polizia cercò di convincermi a non salire sul palco: gli spiegai che non potevo. Anni assurdi, quelli. Alla fine mi lasciarono andare, chiedendomi però di indossare sul palco un giubbotto antiproiettile. Fu scioccante e molto stressante».
Oggi per le musiciste donne è più facile o più difficile emergere?
«Resta comunque difficile. Il consiglio che posso dare alle giovani cantautrici è quello di circondarsi di manager e collaboratori che le rispettino e lottino insieme a loro. Senza la squadra giusta è facile perdersi».
Pensa che le protagoniste della nuova scena, da Taylor Swift in giù, siano in debito nei suoi confronti?
«Mi sento una pioniera, ma non ho la presunzione di dire che mi debbano qualcosa. Hanno raccolto la mia eredità mischiandola con altre cose. Come me raccontano i loro sentimenti nei dischi e sul palco, senza filtri, in maniera genuina».
Spesso i cantanti sviluppano un rapporto conflittuale con le hit che ne hanno determinato il successo. Alcuni smettono addirittura di cantarle. A lei è mai successo con Luka?
«No, mai. Devo tutto a quella canzone, che ha unito milioni di persone. Non pensavo potesse diventare una hit: fu il mio manager a suggerirmi di produrla in maniera più pop, per farla piacere alle radio. Io accettai, ma pretesi che non si cambiasse nulla al testo, così importante, e alla melodia. Non la depennerò mai dalle scalette dei miei concerti: le sono grata e riconoscente. Se oggi sono ancora qui lo devo a quella canzone».
È tempo di un nuovo album: l’ultimo è del 2016. Quando uscirà?
«Vediamo. Ci sto lavorando. Ho visto i Rolling Stones a Bruxelles qualche sera fa: mi hanno ispirata, la loro energia è contagiosa. La pandemia è stata orribile, ma per le mani mi sono ritrovata qualche inedito in cui credo».