il Fatto Quotidiano, 17 luglio 2022
Intervista a Max Pezzali
Il bello è far iniziare la propria carriera grazie a un supereroe, l’Uomo Ragno, quando la tua esistenza è decisamente, volutamente, tenacemente normale; il bello è capire, da subito, che per restare così, normali, sono necessari dei superpoteri e magari, a volte, è preferibile togliere mantello e mascherina e mimetizzarsi tra i mortali.
Max Pezzali è il profeta di tutto questo.
Max Pezzali è il profeta del low profile, della rivincita dei nerd, della narrazione del ragazzo di provincia, delle frasi corte e orecchiabili; con lui, l’unico momento di imbarazzo, non si tocca per le conquiste mancate (“sempre stato uno un po’ rincoglionito”), con l’addio al manager dopo trent’anni (“Con Cecchetto doveva finire”) o altre amenità tipiche di chi è una star della musica; l’unico momento di rossore è sulla Costituzione: la conosce benissimo, l’ha studiata, ma apparire “saggio” e “preparato” finisce fuori dalla suo castello mentale; meglio scansare il problema, sorridere, e rifugiarsi in un “parliamo di prostituzione”.
Ieri ha festeggiato i trent’anni di carriera dal benedetto Uomo Ragno con la seconda serata di San Siro. “Quando nel 2019 annunciammo questo doppio appuntamento, l’amico Lodo Guenzi (cantante de Lo Stato Sociale) inquadrò perfettamente la situazione: ‘Il fatto che dopo trent’anni di carriera Max Pezzali riesce finalmente a programmare San Siro, ma nel frattempo scoppia una pandemia globale, è il perfetto esempio di poetica della sfiga portata avanti dagli 883’”.
Parla di sfiga, ma lei è stato un acceleratore di speranze per i “normali”.
(Ride) Viviamo in un tempo dove, per tutta una serie di motivi, anche estetici, vengono proposti solo dei modelli super vincenti, un mondo perfetto da esibire sui social; un mondo talmente perfetto da costringere l’imitatore al bluff per non sentirsi escluso.
Mentre lei.
Rientro nella categoria degli “sfigati” e qui sto benissimo; non sono bello, non sono particolarmente attrattivo e attraente, non sono mai stato cool, mai ricoperto il ruolo del capotavola accentratore di chiacchiere e sguardi. Piuttosto vado inquadrato con il principio di prudenza; (sorride) nato e cresciuto sotto la stella dell’ “io speriamo che me la cavo”.
Almeno una volta sarà stato imprudente.
Alla fine è sempre prevalso il realismo di chi si guarda allo specchio e si ripete: tu non sei un fenomeno.
Qui scatta la sindrome dell’impostore.
(Esulta) Esatto! Sono trent’anni che mi guardo in giro e vedo delle persone con due palle così (e mima il gesto); per questo mi bacchetto la guancia e ripeto “non fare il fenomeno”; attenzione: questo atteggiamento non è da codardo, è solo accettare i giusti confini e dentro quei confini offrire il meglio di se stessi.
Alla fine…
Non ho l’atteggiamento dell’eroe portato all’azione pura.
Chi è simile a lei?
(Pausa) Forse Ricky Memphis: anche lui è un po’ sornione, i suoi personaggi sono sempre un passo indietro.
Ricky Memphis si definisce “pigro”.
Anche io, sono un profeta del minimo indispensabile, un conservativo dal punto di vista energetico.
Qui scatta un bel “tutto sommato”…
Tutto sommato questo iper attivismo produce solo troppa CO2: uno rompe i coglioni e consuma pure ossigeno; voglio un impatto da persona normale.
La sua vita non è normale.
Basta trovare il giusto equilibrio.
Ribadiamo: non una vita normale.
(Ride) A volte mi sono accorto tardi di quello che avveniva attorno; nel 1997 con gli 883 eravamo a Pantelleria per girare il video di Nessun rimpianto, ospiti del dammuso di Fabrizio Ferri, regista del video stesso e fotografo di moda; (silenzio) io e Mauro Repetto ci siamo trovati in mezzo a una realtà di solo modelle: sembrava il paradiso e lo dico la laico, dove neanche il cibo era comune.
In che senso?
Le modelle stesse si alternavano in cucina e proponevano piatti ricercati, esotici; poi a tavola ognuna di loro narrava storie di vita per me epiche, esperienze incredibili, alcune erano figlie di magnati, altre di prìncipi, una addirittura nipote di uno dei fondatori dello stato di Israele.
E lei?
Io non mi ero quasi mai mosso da Pavia; (pausa) una in particolare mi colpì: si chiamava Padma, stupenda, simpatica, grande cuoca. Anni dopo è diventata la moglie di Rushdie.
Ci ha provato?
(Stupito) Neanche ci ho scambiato una sillaba.
Esagerato…
Parlate con uno che poteva avere Angelina Jolie nel film degli 883 e non è stata presa.
Cioè?
È la classica sliding door, una di quelle che paghi più e più volte; (sorride) ci era stata offerta per un ruolo in Jolly blu (pellicola del 1998), ma è stata scartata: questa è la cazzata personale pari alla guerra in Iraq del 2003.
Quante occasioni perse…
Appartengo alla generazione senza social, dove le dinamiche con l’altro sesso erano affidate al culo, all’indole, alla trasmissione orale o, in extremis, agli edicolanti compiacenti che ci permettevano di acquistare dei giornaletti porno.
Ma Angelina Jolie...
Già da ragazzino non ero né bello né interessante e questa situazione non si è risolta dopo il successo; (pausa) il successo ti dà il vantaggio di suscitare curiosità, ma la stessa si esaurisce in breve, poi tocca a te.
La soluzione?
È semplice: parlare fino allo sfinimento; sono in grado di toccare le tre ore senza respirare.
Una proposta indecente l’avrà ricevuta.
Una volta, sì.
Finalmente.
Un giorno, nel 1996, suona il citofono, mi affaccio e davanti a me trovo padre, madre e figlia 16enne, appena arrivati da Catania. Ero solo. Apro. Il padre resta in macchina, le due si avvicinano e mi propongono un matrimonio.
E lei?
Erano i primi anni di Scherzi a parte, quindi penso: sono una delle loro vittime; allora imposto la voce, mi piazzo di profilo, calibro atteggiamenti e risposte; dopo quaranta minuti mi arrendo all’evidenza ma a quel punto non sapevo più come liberarmi di loro. E allora sbotto: “Signora, capisco l’ingenuità di sua figlia, ma lei!”; (pausa) tempo dopo, in un concerto a Catania, mentre cantavo, si è alzato un enorme cartello: “Maria, che ti ama, è qui”. Il “qui” era accompagnato da una freccia.
Tenaci.
Per tutta la serata ho evitato di guardare da quella parte.
Si reputa “normale”, ma quali sono i geni che ha incrociato?
Niccolò Contessa è uno dei musicisti che ha contribuito al passaggio da indie a pop e quando ci parlo avverto un livello superiore; stessa storia con Lorenzo Jovanotti: ha un cervello incredibile, è come se fosse venti persone nello stesso momento e ognuna di loro è in grado di generare qualcosa di interessante; aggiungo De Gregori, ma forse è più carisma.
È degregoriano…
L’ho incontrato una volta e ne sono rimasto soggiogato, tanto da fermarlo e appellarlo “maestro”. E lui: “No, macché maestro, tra l’altro entrambi abitiamo a Roma Nord”. E lì ho visto cos’è il genio…
Perché?
(Ride) In qualche modo mi ha derubricato a mero vicino, così ha evitato di trattarmi da musicista; ammiro tantissimo anche Cesare Cremonini: quando lo ascolti ti apre dei mondi, ne crea di nuovi…
Cremonini è il suo opposto: lui ci crede molto.
Per i musicisti la chiave giusta è restare fedeli alla propria personalità: se interpreti una parte troppo differente dalla tua, alla fine stoni.
Sul palco di San Siro ha ricostruito la sua storia.
Ho chiamato tutti coloro che hanno partecipato all’avventura degli 883 a partire da Mauro Repetto, poi Daniele Moretto e Michele Monestiroli, infine Paola e Chiara: loro hanno iniziato con me nel 1995.
Non c’è colui che l’ha scoperta: Claudio Cecchetto. Avete rotto…
Dopo trent’anni sono arrivato alla necessità di gestirmi in autonomia, un po’ come capita con i genitori quando vai via di casa; (pausa) dopo trent’anni di collaborazione si rischia di cadere nell’abitudine, e in questo lavoro l’abitudine è pericolosissima così come il conoscersi troppo e perdere la voglia di stupire.
Consensuale?
A qualcuno brucia sempre, poi il tempo aggiusterà.
Racconta Jovanotti: “Quando mi è arrivato un provino degli 883 li ho scartati. È stato Cecchetto a dirmi che non capivo nulla”.
Forse a quel tempo, al posto di Lorenzo, avrei reagito allo stesso modo; (pausa) sa quanti errori ho commesso da semplice ascoltatore?
E…
In quegli anni è stato fondamentale il rapporto con Mauro Repetto.
Repetto è stato spesso derubricato al “biondino che ballava”.
Mauro è l’opposto di me, e all’inizio è stato lui a prendere le decisioni difficili, a non fermarsi, a spronarmi; magari veniva in cantina dai miei, gli suonavo un paio di accordi, li giudicavo una cagata, mentre lui insisteva a proseguire; (sorride) senza di lui sarei rimasto uno qualunque che suonava per sé e gli bastava e magari da settembre studiamo una reunion.
Tra cantante di successo e mediano dell’Inter, cosa avrebbe preferito?
A pallone sono sempre stato una vera pippa.
Lei è molto preparato sulla Costituzione.
(Ride) Forse sulla prostituzione; (pausa) in realtà quando sento delirare su una questione io l’approfondisco allo sfinimento, devo capire, e ultimamente abbiamo perso la coscienza di cos’è la Repubblica italiana; (altra pausa) lo so, qui sono caduto nella figura del boomer (traduzione di boomer: vecchio).
Non si disperi.
(Ride) Ne sono certo.
In questi trent’anni qual è il complimento che l’ha più stupita?
Nel 1992 era appena uscito il primo disco e partecipiamo a un appuntamento della Croce Rossa pavese, dove avevo prestato servizio; finito di cantare ci troviamo di fronte a Lucio Dalla, elegantissimo, e con Mauro ci avviciniamo. E lui: “Bravi, farete strada”.
E voi?
Sapevamo della sua nomea da burlone e abbiamo creduto ci prendesse per il culo. Però era serio.
Da Pavia arriva pure Maria De Filippi.
La incrociavo in Corso Cavour, il luogo dello struscio.
Amici?
(Stupito) No! Lei era della Pavia “bene”, era in vista, io no.
Invidia?
Sono figlio di quella classe lavoratrice che a un certo punto ha provato a mettersi in proprio con un negozio (di fiori). E a me piace.
Dario Cassini la definisce di una generosità e simpatia rara.
È un fratello; (sorride) ti può chiamare a qualunque ora per raccontarti una barzelletta incredibile. E per me è un regalo unico.
Lei chi è?
Sono uno che, in parte, ha dimostrato che il talento è un concetto sopravvalutato.