La Lettura, 16 luglio 2022
Intervia a Giuseppe Misso, 75 anni, detto ’o Nasone, uno dei maggiori boss della camorra
«Un giorno non trovo più Marco, il mio Marco, al suo posto Jessica». A parlare è Giuseppe Misso, 75 anni, detto ’o Nasone, uno dei maggiori boss della camorra, oggi collaboratore di giustizia. Marco è suo figlio (suo e di Lina, l’attuale compagna), Marco che ha deciso di cambiare sesso. Motivo per il quale il boss – uno dei più feroci, uno dei più temuti – è stato deriso ai processi dove, quieto, ha ribattuto: «Signor Giudice sì, mio figlio è gay, è per caso una vergogna?».
Così Giuseppe Misso cambia la storia della camorra, in questo caso con una inversione culturale (prima di lui i figli femminielli dei mafiosi venivano uccisi dagli stessi padri). Tuttavia Misso è stato un boss atipico in tutto: contro la droga, contro l’estorsione, allevatore di colombi, letterato (scrittori preferiti Céline e Dostoevskij), poeta e scrittore a sua volta (I ragazzi del rione, raccolta di poesie; I leoni di Marmo, romanzo pubblicato nel 2003, ripubblicato nel 2021 dalla casa editrice Milieu). E soprattutto rapinatore, il migliore. Fondatore del clan Misso, padrone del rione Sanità, Misso comanda Napoli ufficialmente dal 1999 al 2003 (secondo i bene informati per almeno due decenni). Accusato di omicidio e di molto altro, afferma di avere ucciso solo per vendetta. Sebbene a detta degli altri sia stato uno dei capi più sanguinari, uno dei pochi che abbia saputo reggere Napoli, lui rifiuta l’appellativo di boss, preferendo definirsi «prelevatore».
Differenza?
«Mentre un prelevatore può diventare mafioso e uccidere, un mafioso non potrà mai diventare prelevatore. Per essere prelevatore ci vuole coraggio».
L’inizio della carriera di prelevatore?
«A cinque anni rubavo per mangiare. In generale rubavo quello che non avevo, anche il presepe. Legno e sughero per le capanne, e i pastori a San Gregorio Armeno».
Gesù bambino?
«Rubato».
Infanzia?
«Sono l’ultimo di sette figli. Prima che nascessi, i miei avevano un panificio alla Porta di San Gennaro, stavano bene. I miei fratelli possedevano la bicicletta che, all’epoca, a Napoli, significava essere importante».
Poi?
«Nel ’43 gli americani bombardano la città. Scendono a bassa quota e mitragliano i civili, tra questi mia sorella Agata, dieci anni».
La sua famiglia dopo?
«Per il dolore mia madre abbandona il commercio, cadiamo nella miseria. Nel ’47 nasco io. Quasi subito mio padre va in Brasile e non torna più».
Suo padre?
«Posso dire di non averlo conosciuto».
Giocattoli dell’infanzia?
«Me li fabbricavo da solo, con legno e ferro rubato costruivo il carruociolo».
Primo scasso?
«A quattordici anni, insieme a Luigi Giuliano: negozio di elettrodomestici. Arriva la polizia e prende Luigi che, avendo dodici anni, non poteva andare in carcere».
Ci va lei.
«La notte a casa si presenta Luigi coi poliziotti, li aveva portati lui».
Si vendica?
«L’ho considerato un suo errore di giovinezza».
Da quel primo arresto lei entra e esce dal carcere.
«Nel ’68, insieme a quelli della mia generazione, faccio la prima rivolta della storia di Poggioreale. Ci picchiano, ci massacrano. I più turbolenti vengono trasferiti. Completamente nudi, con gli schiavettoni – ben diversi dalle manette – ci portano alla stazione e ci mettono sul treno».
Sempre nudi?
«Arrivo nudo al carcere di Mistretta dove vengo messo nel letto di contenzione».
Ovvero?
«Una specie di gabbia con le sbarre a cui vieni legato e ammanettato. Disteso su una rete col buco centrale per i bisogni».
Senza materasso?
«Direttamente sul ferro».
E?
«Mi fingo pazzo, al tempo l’ultima chance per uscire. Urlo frasi sconnesse: “La neve ci ucciderà”, “Le formiche mi stanno mangiando la faccia”».
Perciò?
«Trasferito a Barcellona Pozzo di Gotto, manicomio criminale. Lì ci sono i matti veri, e qualcuno che finge come me, per esempio Frank Tre dita (Frank Coppola, ndr). Anche a Pozzo di Gotto letto di contenzione e botte. I secondini ci pisciano addosso. Pisciano e sputano nel cibo. Una notte, con un cucchiaio, uno dei matti veri cava un occhio a un altro che dormiva. Si aggira con l’occhio sul cucchiaio, offrendocelo: “Gradisci l’ovetto?”».
Quanto tempo al manicomio criminale?
«Undici mesi».
Resiste?
«L’essere umano si adatta a tutto».
Nei periodi fuori dal carcere compie rapine. Ai danni di?
«Grossisti di medicinali, gioiellerie. Uffici postali, banche: la banca Sannitica, il Monte dei Paschi, due filiali, il Monte dei Pegni, quella maggiormente spettacolare, poiché arriviamo dall’alto invece che dalle fogne come eravamo soliti. Passiamo dai tetti, costruiamo un ponte di alluminio anodizzato tra palazzo e palazzo. Camminiamo nel vuoto. Ricavato: cinque miliardi di lire».
Di quanti soldi disponeva in quegli anni?
«Venti, trenta miliardi, non so quantificare. Amavo spendere, e regalare».
Come spendeva?
«Vestiti dal sarto, scarpe, oggetti di lusso come orologi e statue. A fine anni Settanta avevo la carta Visa con credito illimitato, e una Jaguar bianca col telefono dentro. Dovunque arrivassi, Forcella, Secondigliano, la gente veniva intorno. I bambini circondavano la Jaguar, Peppe Misso, Peppe Misso, chiamavano – e chi l’aveva mai vista una macchina col telefono dentro».
Li faceva salire?
«Mai. Essendo stato scugnizzo anch’io, sapevo che gli scugnizzi giocano con qualsiasi cosa, figuriamoci col telefono».
Chi chiamava dal telefono della macchina?
«Assunta, la mia compagna, per dire di buttare la pasta».
Dove sono oggetti e vestiti costosi di allora?
«Ho subito due saccheggi da conoscenti e parenti nei periodi in cui ero in carcere. Nel ’92, dopo l’uccisione di Assunta, hanno preso libretti al portatore, gioielli, pellicce. Nel 2003, prima che la casa venisse confiscata, hanno portato via ogni cosa: mobili, vestiti, cravatte. Centinaia di cravatte di Marinella. Addirittura il Dom Perignon, si sono presi il Dom Perignon, casse e casse».
Non resta niente?
«Il carillon. Un cofanetto che, caricato, suonava Il lago dei cigni. Nella casa vuota, non tanto di mobili, ma di Assunta, l’ho fatto suonare».
Torniamo indietro, 1979: dopo due anni e otto mesi Peppe Misso esce di prigione.
«Trovo un’altra città. Ma soprattutto trovo Luigi Giuliano, l’amico fraterno, boss».
La camorra?
«Solo chi c’era sa che prima del ’78 la camorra a Napoli non esisteva. Esisteva la mafia silenziosa con le sue filiali, i Nuvoletta e gli Zaza dediti al contrabbando di sigarette. La camorra nasce con Raffaele Cutolo che battezza in carcere, e si diffonde con una propaganda attraverso televisioni di Stato e giornali. Ogni volta che viene intervistato, nelle pause processuali, Cutolo lancia messaggi, ed emana sentenze di morte».
Esempio?
«Salvatore Serra, Cartuccia. Cutolo dice in tv: “Quello è un morto che cammina”. Serra stava in galera, lo trovano impiccato. Non è vero che s’impiccò, lo uccisero».
Uscendo perciò lei trova da una parte La Nuova Camorra organizzata di Cutolo, dall’altra il clan Giuliano-Secondigliano-Fabbrocino-Luigi Vollaro, la cosiddetta Nuova Famiglia (Fratellanza napoletana).
«Subito Luigi mi chiede di allearci, io rifiuto, avvertendolo di lasciare in pace i commercianti di via Duomo».
Via Duomo.
«Divento socio di Nino Galeota, già proprietario di Uomo, negozio di scarpe, e apro con lui Eurosport, negozio di articoli sportivi. Il patto con Giuliano, da me stabilito e da lui accettato, era che loro non chiedessero il pizzo a Nino Galeota e a nessun commerciante di via Duomo».
Dura poco.
«Il cognato di Luigi chiede il pizzo a Galeota. Allora io capisco di non potermi più tirare indietro, sono in guerra... la prima cosa che faccio: salire in terrazzo e distruggere la colombaia».
Motivo?
«Sapevo di non potermi più prendere cura dei miei colombi».
Meglio liberi?
«Da ragazzino facevo il giro delle uccellerie per aprire le gabbie. Quando andavo in visita alle persone della Sanità, quelli si affrettavano a nascondere le gabbie. “Se lui li vede, li libera” dicevano. Era vero. Liberavo pure i canarini».
Nel frattempo il negozio di articoli sportivi?
«Da un amico fotografo Nino si fa dare le foto delle azioni salienti delle partite. La domenica, a fine partita, la gente viene a guardare le foto, e compra le scarpe. Il nostro era il negozio dei calciatori del Napoli».
A proposito del Napoli.
«Io e Nino eravamo stremati, una sconfitta dietro l’altra. Il presidente Ferlaino ci stava portando alla rovina. Così mettiamo una bomba di tritolo sotto casa sua, e un’altra allo stadio San Paolo. Non è finita: facciamo volare un aereo sopra la città con lo striscione: “Ferlaino via, Juliano torna”. Poi volantini e manifesti, un assedio».
Conclusione?
«Ferlaino si dimette. Tornerà pochi mesi dopo, richiamando Juliano, e facendo una squadra come dicevamo noi: nell’84 compra Maradona».
Maradona?
«Grandissimo giocatore».
Maradona uomo?
«Non ho apprezzato la sua amicizia con il clan Giuliano, né il momento in cui si rifiutava di riconoscere il figlio, lo dissi a Josè Alberti, il vero responsabile della sua venuta a Napoli, fu lui a convincerlo. Dissi a Josè che non volevo più sentire parlare di Maradona per come si era comportato col figlio. Josè mi rispose: “Ti giuro che lo riconoscerà”».
Dicevamo: 1979 – distrutta la colombaia, inizia la guerra.
«Nasce il clan Misso, denominato la Vera Famiglia Meridionale con uno statuto: mai droga, mai estorsione».
Rapine?
«Sì».
Omicidi?
«Per difesa e per vendetta».
Nel 1984, a causa di una rapina, lei, ricercato, diventa latitante.
«Mi nascondo da Enzo ’o Barbiere, mio caro amico, a cui chiedo di mandare una ragazza del negozio per mani e capelli: Lina».
Lina.
«Per lei ho smesso di mangiare le unghie. Non mi mangiavo le unghie per farmi fare il manicure, poiché all’inizio lei faceva solo quello. Aveva sedici anni».
Durante la latitanza?
«Oltre a Enzo, Lina è l’unica persona che sa dove mi nascondo. Viene, mi fa le mani, già che c’è anche i capelli. Una, due volte. Alla fine ci innamoriamo, e lei rimane incinta».
Nel 1985 l’arrestano. A quel punto?
«Riprendo a mangiarmi le unghie».
Intanto viene accusato di strage (la bomba al Rapido 904).
«Un’infamia. Il dolore peggiore della mia vita. Al processo stavo in gabbia davanti ai familiari delle vittime. Dolorosissimo».
Il giorno in cui è assolto per la strage (14 marzo 1992), quel giorno?
«Al processo si presenta Assunta insieme a Nino Galeota, Giulio Pirozzi e la moglie. Riusciamo ad abbracciarci attraverso le sbarre, poi loro ripartono».
E?
«Stavo cenando, lo scopro dalla televisione. Il giornalista dice: “Sulla Roma-Napoli, svincolo Afragola, hanno ucciso il commerciante Nino Galeota con la moglie, e ferito gravemente Giulio Pirozzi e la moglie”».
Lei?
«Capisco che hanno ammazzato Assunta, la moglie di Nino non c’era. Capisco anche altro: Afragola è zona del clan Moccia».
Secondo gli investigatori l’omicidio rientra nella guerra tra il clan Misso-Pirozzi e la nascente Alleanza di Secondigliano.
«Assunta viene uccisa su ordine di Maria Licciardi, ’a Piccirella: disse che per lei non doveva esserci pietà. Motivo: in carcere, in attesa del colloquio, Assunta aveva osato dirle: “Quando uscirà mio marito, tuo fratello dovrà pulirgli le scarpe”».
Reazione di Giuseppe Misso fin qui prelevatore, contro la droga, contro l’estorsione?
«Non perdono chi uccide una donna innocente. L’auto di Nino è stata tamponata, speronata e bersagliata a raffiche di Kalashnikov. Mentre Nino muore sul colpo, Assunta no. Gli assassini si accaniscono su di lei, la inseguono, le sparano in faccia, le sfigurano il volto».
Saltano le regole?
«Appena esco dal carcere, 1999, uccido. Dovevo ammazzare le persone che avevano ammazzato Assunta: affiliati e parenti dell’Alleanza di Secondigliano».
Quanti morti?
«Ho condotto una guerra nell’ambito della quale sono state uccise molte persone, non sono in grado di quantificare».
Negli stessi anni lei comanda Napoli.
«Convoco i negozianti della Sanità a cui dico che se pagano il pizzo gli brucio il negozio».
Pizzo al contrario?
«Lo chiami come vuole».
Attualmente è collaboratore di giustizia, ovvero pentito.
«Non sono un pentito, non ho niente di cui pentirmi. Certe decisioni andavano prese, era giustizia».
Anni di carcere scontati?
«34».
Si dice che lei in Brasile abbia fatto una plastica facciale come Tommaso Buscetta.
«C’è una differenza enorme tra me e Buscetta. A lui hanno ucciso i figli, un fratello, il genero, il cognato, i nipoti, undici familiari, e non è tornato. Io, appena uccidono Carmine, mio protetto di 17 anni a cui volevo bene come a un figlio, torno. Quando ti uccidono i figli devi tornare, e combattere».
Vita privata di Giuseppe Misso: mogli?
«Con Assunta non ci siamo sposati, siamo stati insieme vent’anni, incluso il momento in cui Lina è rimasta incinta. In carcere ho detto a Assunta: prenditi cura della ragazza e del bambino».
Dopo la morte di Assunta?
«Non essendo in buoni rapporti con Lina che non voleva vedermi, ho sposato Teresa, una donna polacca».
Perché?
«Il mio cuore era di Lina. Siccome però, le volte che non c’ero io, le guardie maltrattavano Teresa poiché senza permesso di soggiorno, decido di sposarla».
Matrimonio?
«Al piano di sopra, a casa di mia sorella, in cucina. Chiamo a officiare il vicesindaco che arriva elegante, con la fascia. Se devo essere onesto è questo che mi manca della vita di prima».
Nel senso?
«Chiamare la gente: dottore, sindaco, vicesindaco. Chiamarli, e quelli venivano. Oggi non viene più nessuno».
Figli di Giuseppe Misso?
«Marco da Lina e Angela da Teresa».
Marco.
«Quando Lina è incinta, per un periodo latitavo a Roma dove, passeggiando di notte, m’incantavo davanti al Marco Aurelio. Grande, imponente, condottiero e poeta senza armi. Decido allora che mio figlio si chiamerà Marco».
Non Marco Aurelio?
«In famiglia c’erano già altri bambini con nomi altisonanti: Rodrigo Diaz El Cid Misso e Maximilien De Robespierre Misso».
Dunque Marco?
«Nella mia mente doveva studiare, laurearsi».
Nella realtà?
«A sette anni me lo portano in carcere. Mi basta uno sguardo».
Per?
«Con la vita che ho fatto, capire in pochi secondi se una persona voleva ammazzarmi o no, ho sviluppato una certa conoscenza dell’umanità. Unita alla conoscenza dei colombi».
Cioè?
«Mi basta uno sguardo per capire se un colombo è maschio o femmina».
Quindi?
«Scrivo una lettera alla madre in cui chiedo se al bambino piacciono le femmine».
Risposta di Lina?
«“Non permetterti. Mio figlio è uomo al cento per cento”».
Poi?
«Uscito dal carcere chiamo mio cugino professore per farlo parlare col ragazzo».
Professore di?
«Storia e filosofia. Al liceo».
Perché lui?
«Chi meglio di un laureato poteva capire come stavano le cose?».
Esito?
«Dopo avere parlato con Marco, il professore mi dà ragione: “È come dici tu, Peppe”».
E?
«Io sto a vedere che succede. Un giorno mio figlio m’informa di aver fatto ’o malament, di aver messo incinta una ragazza: gli servono soldi per l’aborto».
Lei?
«Glieli do, sapendo bene che non era vero».
Cos’era?
«Un modo per compiacere me, per farmi capire che gli piacevano le femmine».
Il passaggio da Marco a Jessica?
«Si fa crescere i capelli, comincia a truccarsi. In seguito si veste da donna: gonne e tacchi alti».
La prima cosa che Giuseppe Misso dice a Jessica?
«Non potevi chiamarti Marta? Marta è un bel nome, Jessica no. Non mi piace, penso a Jessica Rabbit».
Reazione di sua figlia?
«Tiene Jessica».
Jessica oggi?
«Ha un compagno, è felice. Ci vediamo spesso, andiamo a cena fuori. Per la verità me la sono sempre portata nei migliori ristoranti e non solo. Io mia figlia non l’ho mai nascosta».
Un boss con una figlia trans.
«Al processo Luigi Giuliano dice: “Lui ha un figlio omosessuale”. Un mio nipote sostiene: “Il figlio è gay, apposta è incensurato”. Ero oggetto di derisione».
Si ribella?
«In Tribunale, davanti a tutti, mi rivolgo al Giudice: “Signor Giudice sì, mio figlio è gay, è per caso una vergona?”».
Prima di lei: il destino dei figli omosessuali dei boss?
«Scomparivano».
Grazie a lei, alla sua presa di posizione, oggi non vengono più uccisi.
«Bene».
Napoli nel presente?
«Manco da tempo».
Cosa vede da lontano?
«Capisco quello che succede. L’Alleanza di Secondigliano, la cupola della camorra, è composta dal cartello guidato da Maria Licciardi, arrestata di recente. Unita a Eduardo Contini, Francesco e Giuseppe Mallardo, Luigi, Angelo e Antonio Moccia, anche loro arrestati da poco. Questo cartello sanguinario è tuttora operante dal carcere sull’intero territorio nazionale e oltre confine».
I Casalesi?
«Sono in difficoltà, al momento».
I ragazzini e le stese?
«Esistono perché i capi li lasciano fare. Se ai capi non facessero comodo, li avrebbero già presi e sciolti nell’acido. Questi ragazzini distolgono l’attenzione dai grandi affari della camorra, come il processo di penetrazione criminale nel circuito finanziario legale».
Quindi?
«La mafia è finita in quanto sono finite le famiglie, la camorra non finirà mai. Sono ancora tantissimi».
Giuseppe Misso ha paura?
«No».
Ciò che oggi l’appassiona?
«La scrittura, ho appena finito il mio secondo libro, lo sto rileggendo per correggere gli errori».
Altro?
«I colombi viaggiatori, sempre loro. Sotto il programma di protezione ho potuto farmi una nuova colombaia».
E?
«Succede che di colpo comincino a morirmi. Tre, quattro al giorno. Porto le carcasse dal veterinario che le invia all’Istituto zooprofilattico. Referto autopsia: aviaria. Ho dovuto distruggere la colombaia. Per la seconda volta nella vita».
Stato d’animo?
«Non c’è cosa peggiore che togliere la casa ai colombi. Tu sai che da quel momento loro vanno soli. Alcuni sopravvivono, altri no».