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 2022  luglio 16 Sabato calendario

Intervista a Ute Lemper

Uno dei grandi meriti di Ute Lemper (1963) è stato quello di aver fatto scoprire, conoscere e apprezzare al pubblico il mondo musicale della Repubblica di Weimar, quello di Kurt Weill, di Marlene Dietrich, degli anni Venti e Trenta di una Germania che da lì a poco avrebbe incendiato il mondo. Cantante, attrice (delle sue doti se ne sono accorti anche Peter Greenway che la volle in L’ultima tempesta e Robert Altman che le diede invece una parte in Prêt-à-porter), ballerina (apparve in Weill Revue con il Tanztheater di Pina Bausch e Maurice Béjart creò per lei La mort subite), Lemper calca i palcoscenici del mondo da trent’anni. Attualmente sta portando in giro un nuovo spettacolo dedicato a Marlene Dietrich («ci tengo moltissimo», confessa a «la Lettura») e sarà in Italia il 21 luglio all’Ariston di Sanremo per un altro progetto ancora, un concerto che definisce «un nuovo viaggio musicale tra Berlino, New York e Parigi, e che contiene canzoni del periodo di Weimar e altre che fanno profondamente parte della mia vita. Quindi canzoni di Kurt Weill, Jacques Brel, Léo Ferré... Con molti arrangiamenti nuovi».
Lei è tedesca, ma ha scelto di vivere a New York.
«Mi sento newyorkese, vivo qui dal 1987 e qui ho cresciuto i miei figli».
Come si sta a New York?
«Si vive bene, perché la città è aperta, accoglie e accetta le altre culture, che qui possono vivere molto più liberamente rispetto ad altre città americane».
Da musicista che cosa pensa del fatto che, a causa della guerra, i musicisti russi siano stati banditi e cancellati dalla maggior parte dei teatri?
«È una storia molto complicata. Andrebbe valutato ogni singolo caso. Se si è amici di Vladimir Putin e si traggono vantaggi da questo rapporto, il problema si pone e da artisti bisognerebbe chiedersi: “Da che parte sto? Che cosa rappresento?”. Ma solo per il fatto di avere un passaporto russo non si dovrebbe essere censurati».
Da che parte deve stare l’artista?
«Dalla parte della libertà, contro l’oppressione e le dittature, per i diritti dell’uomo. L’arte è l’essere umano e se l’essere muore, muore anche l’arte».
Nel suo repertorio figurano Weimar, Bertolt Brecht, poi Pablo Neruda, poi gli esistenzialisti francesi...
«Parlano tutti di libertà. Si pongono delle domande. Nel mio repertorio girano sempre brani che cercano di mettere a fuoco questo problema. A quelli che ha citato aggiungo il nome di Paul Celan».
Umberto Eco sosteneva che Kurt Weill fosse il Mozart del Novecento. Cosa ne pensa?
«Mah... Weill era un rivoluzionario, un ribelle. Mozart invece era un genio. Sono due cose diverse. Weill lo paragonerei di più ai Beatles o a Miles Davis. O, parlando di letteratura, ad Albert Camus».
Weill, sempre rivoluzionario per lei?
«Diciamo che era rivoluzionario quando lavorava con Bertolt Brecht. Da solo invece, adottato dalla cultura americana, non lo è più stato. Ma non per colpa sua».
Parlando di Brecht-Weill, conosce il lavoro, diciamo simile, che hanno fatto in periodi storici recenti, il compositore Heiner Goebbels con il compianto drammaturgo Heiner Müller?
«Progetti molto interessanti, affrontavano una nuova dimensione di teatro musicale che riflette sul tempo. Sono più astratti di Brecht e Weill, perché c’è più distanza fra loro e la storia che narrano».
Ma quali sono i suoi Weill preferiti?
«Die Sieben Todesünden, Salomon Song, Tango Ballade, Mahagonny...».
E brani jazz come «Speak Low»?
«Mi piace ma non è il tipico Weill. È roba composta in America, forse in Europa non aveva trovato la situazione giusta per scrivere brani così, dal respiro jazz».
Lei ha lavorato molto anche con la scrittura, tra poesia e letteratura, su testi di Pablo Neruda, Charles Bukowski e Paulo Coelho. Ce ne parla?
«Feci un trittico. Il realismo di Bukowski può far pensare a Brecht. È stato un outsider... l’ho amato molto. Il lavoro su Neruda è nato da un altro mio progetto che era legato ad Astor Piazzolla. Coelho invece lo avevo letto molto e poi anche conosciuto».
Fra tutti i suoi progetti, ne citi uno solo al quale è legata più che agli altri.
«Domanda scorretta, ma dico Songs for Eternity, un progetto particolarmente intenso che ho realizzato per non dimenticare la Shoah. Ora amo tantissimo anche quello nuovo su Marlene Dietrich. Soffrì tanto, perché i tedeschi la considerarono una traditrice. Un peccato».
Si parlava di libertà. Lei ha preso parte al concerto di Roger Waters dei Pink Floyd nel 1990 in Potsdamer Platz a Berlino per festeggiare il primo anno della caduta del muro. Cosa ricorda?
«Fu incredibile. Simbolico. Il concerto fu fatto lungo la striscia della morte, che era la lingua di terra che separava i due muri e divideva Berlino Est e Ovest».
Dei muri che voleva Donald Trump al confine del Messico cosa dice?
La voce si altera: «Una cosa terribile. Sono contro tutti i muri. È disumano prendersela con chi soffre, con chi scappa, con chi è disperato e sfortunato. Poi, fra l’altro, c’è tanto di quello spazio in America che ci possiamo stare tutti».
E di Joe Biden che cosa pensa?
«È un’eredità molto difficile la sua, fra Trump, la pandemia... Ha fatto sicuramente errori ma chi non li avrebbe fatti al posto suo? Ha poco carisma ma eticamente e umanamente vale molto di più di tanti suoi colleghi in tutto il mondo».
Torniamo alla musica. Lei ha lavorato anche con un grande compositore di avanguardia, Luciano Berio.
«Sì. Nei primi anni Novanta con lui ho cantato diverse volte, anche alla Scala, i Folksongs che scrisse per la moglie Cathy Berberian».
Brani di grande difficoltà esecutiva.
«Sa qual è stata la cosa più difficile? Cantare senza amplificazione».
Philip Glass ed Elvis Costello hanno scritto per lei una ventina di anni fa e da allora anche lei compone.
«È stato un passo importante. Parto dall’armonia e poi ci infilo il testo con una melodia. È un’improvvisazione che dopo un po’ prende lentamente la forma finita di una composizione».
Che cosa c’è di nuovo nella musica?
«Tutto ciò che di nuovo è ispirato con intelligenza a una generazione precedente, mi interessa».
Un nome?
«Bruno Mars, che guarda a Stevie Wonder, agli Earth, Wind & Fire, a Santana».
Cosa non le piace?
«Ciò che viene confezionato digitalmente, è musica che va e che viene, senza lasciare un segno. Come negli anni Ottanta quando la musica era morta».
Il 4 luglio ha compiuto 59 anni. Se si guarda indietro cosa vede?
«Vedo me da bambina: giocavo a calcio, avevo i capelli corti e le braghe corte. Ma ero anche una grande sognatrice».
L’adolescenza?
«Ero ribelle. Non volevo essere controllata e volevo costruire il mio mondo da sola. Ancora oggi non mi piace che qualcuno mi dica quello che devo fare. Ho sempre seguito le mie intuizioni».
Progetta sempre il suo futuro?
«Per i miei 60 anni uscirà un documentario che stiamo ancora girando e un disco nuovo dal titolo Time Traveller».
Visto che è così attiva, cosa ha fatto durante i lockdown?
«Il docu-film spettacolo su Marlene Dietrich, Rendezvous with Marlene».