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 2022  luglio 16 Sabato calendario

Intervista a otto Schily

Otto Schily, mancano pochi giorni ai suoi novant’anni. Qual è il suo primo ricordo?
«Eravamo con la mia famiglia in Baviera. Era il 1945. Ricordo l’ingresso dell’esercito americano a Garmisch-Partenkirchen. Stavano sui carri armati, molti avevano strumenti musicali e suonavano jazz. Le persone applaudivano. Ma fra questi, c’erano anche molti che fino a pochi giorni prima erano stati convinti nazisti, li conoscevano tutti. Io avevo l’esempio di mia madre che a casa ci aveva sempre detto che Hitler era un assassino. Mi fece molta impressione vedere questa scena».
La gente aveva fame.
«Eccome. Nelle settimane precedenti c’erano stati tentativi di saccheggio. Anch’io tentai di partecipare all’assalto di un deposito di farina, ma non riuscii a portare a casa nulla. Un soldato sparò alcuni colpi in aria e rinunciai».
Come si comportarono gli americani?
«Bene. Ma ci furono anche episodi negativi. Uno avvenne a casa mia. Qualcuno aveva riferito che noi possedevamo una Rolleiflex. Era ben nascosta in solaio. Le macchine fotografiche tedesche erano molto ricercate dai soldati americani. Vennero a casa mia e minacciarono mia madre con una pistola alla testa. Scappai subito a prendere la Rollei e gliela consegnai».
Com’erano gli anni Cinquanta in Germania?
«Anni difficili, ma nonostante le difficoltà conservo bei ricordi. Dall’Alta Baviera tornammo nella Ruhr, a Bochum, dov’ero nato. Carbone e acciaio. Ma anche molte attività culturali. Tutto cambiò dopo la nascita del marco, nel 1948, da cui ebbe inizio il miracolo economico. Dopo il 1952, quando ho preso la maturità, sono andato a studiare prima a Monaco e poi ad Amburgo all’Europa College, dove ho fatto le mie prime grandi amicizie, come quella con Meinhard von Gerkan, che allora studiava diritto e poi sarebbe diventato il più famoso architetto tedesco».
Perché alla fine di quel decennio, tra tutte le città tedesche, scelse di andare a Berlino?
«Aveva un carattere speciale. La presenza degli Alleati le dava una dimensione cosmopolita. L’atmosfera culturale era molto interessante: frequentavo artisti, attori, musicisti, poeti e scrittori. Ho fatto pratica presso lo studio di un avvocato conservatore. E poi non c’era ancora il Muro, era possibile muoversi tra Est e Ovest. Con Meinhard compravamo macchine fotografiche a Berlino Est per rivenderle al mercato nero dell’Ovest. Così ci siamo finanziati il nostro primo viaggio a Londra».
All’Est aveva anche il sarto.
«Avevo qualche pretesa di eleganza. Gli portavo le stoffe inglesi acquistate a Berlino Ovest. Nella primavera del 1961 fu lui a dirmi che avrebbero costruito un muro. Con il senno di poi, se lo sapeva lui, dovevano saperlo anche i servizi occidentali. Non gli credetti. Ma aveva ragione. Fu una tragedia. Ricordo che mentre lo costruivano, guidavamo le auto suonando il clacson fino agli sbarramenti. Era una protesta inutile, figlia dell’esasperazione».
Poi nel 1963 arrivò John Kennedy: «Io sono un berlinese».
«Fu una cosa straordinaria. Sentimmo di avere un amico in grado di proteggerci. Davanti alla Rathaus Schöneberg c’erano 500 mila persone. Per vederlo mi arrampicai su un lampione e vi rimasi tutto il tempo».
All’inizio degli anni Settanta, lei divenne l’avvocato di alcuni terroristi della Raf, Rote Armee Fraktion, le Brigate rosse tedesche.
«La Raf fu la degenerazione di uno sviluppo, che affondava le sue radici nella delusione e frustrazione delle giovani generazioni di fronte a quanto poco la Germania del Dopoguerra avesse fatto i conti con il passato nazista. Molti ex nazisti avevano ancora spazio e potere. Qualcuno ha detto giustamente che il Sessantotto fu una svolta culturale con molte conseguenze positive sulla società tedesca, ma sul piano politico ha fallito ed è finito in un vicolo cieco. Il terrorismo: il punto era che le azioni della Raf avevano una dimensione politica. I giudici fecero di tutto per tenerla fuori. La doppia difficoltà, per noi avvocati difensori, era che i clienti non volevano avere nulla a che fare con lo Stato, mentre noi volevamo e dovevamo rimanere sul terreno dello Stato di diritto. Come sa, la condanna non entrò mai in vigore, perché gli imputati si suicidarono in carcere nel 1977».
Nel 1979 entrò in politica. Perché scelse i Verdi?
«Radical-democratico ed ecologico sono le componenti che hanno sempre plasmato il mio impegno pubblico. Ma all’inizio non fu facile. Il movimento nacque caotico e pieno di contraddizioni».
Eletto nel 1983 al Bundestag, il Parlamento tedesco, lei divenne mentore di un certo Joschka Fischer.
«Mi telefonò un amico avvocato, dicendomi che arrivava un giovane deputato da Francoforte. “È un grande talento. Seguilo”. Aveva ragione. Joschka diventò capogruppo, aveva un senso innato della politica. Fu lui a decidere che i Verdi non dovevano sedersi all’estrema sinistra, ma al centro, a destra della Spd e a sinistra della Cdu. Abbiamo creato un rapporto forte e lavorato molto bene insieme».
Perché nel 1989 ruppe con i Verdi?
«Avevano sempre una certa ambivalenza sul tema del monopolio della violenza da parte dello Stato, che per me è un pilastro di ogni democrazia. Ha pesato anche la possibilità che non potessi più candidarmi. Così mi sono dimesso dal partito e da deputato. Sono andato nella Spd, ma sono sempre rimasto in primo luogo un liberale».
Dal 1982 al 1998, è stato deputato ed Helmut Kohl cancelliere. Non ha avuto rapporti facili con lui.
«È vero, non ci siamo mai piaciuti. Il mio giudizio è ambivalente. Kohl ha avuto il merito di avere realizzato l’unificazione tedesca dentro un quadro europeo, fugando lo spettro del nazionalismo. Ma il suo lato oscuro sui finanziamenti illeciti alla Cdu non può essere ignorato. Già ai tempi del primo scandalo, lo interrogai in commissione d’inchiesta. E lui rimase zitto sui nomi dei donatori, come avrebbe fatto anche nel 2000. Ma i suoi servizi alla nazione e all’Europa sovrastano gli aspetti più inconfessabili».
Tra 1998 e 2005 è stato ministro socialdemocratico degli Interni con Schröder. Cosa considera il suo lascito migliore?
«La nuova legge sulla cittadinanza, basata sullo ius soli al posto dello ius sanguinis, fu una riforma storica. Una moderna democrazia deve darsi regole moderne per l’immigrazione e la cittadinanza».
Nel 2005 arrivò al potere Angela Merkel. Ci sarebbe rimasta 16 anni. Che cosa rimane dell’età di Merkel?
«Ha assicurato stabilità politica e benessere in un periodo di crisi continue. Nella prima trattativa sulla Grosse Koalition lei avrebbe voluto che fossi io ministro degli Esteri. Però nessuno nella Spd era d’accordo. Ma questa è storia. Merkel ha fatto due grandi errori: sui migranti e sull’energia nucleare. Io sono per un’immigrazione guidata, non si possono aprire indiscriminatamente le frontiere come fece lei. Abbiamo pagato e paghiamo caramente quella decisione. Il secondo è stato fatale, perché l’abbandono del nucleare ci ha portato alla dipendenza dal carbone e dal gas russo».
E sulla Russia, non ha sbagliato Merkel così come aveva sbagliato Schröder?
«Io credo che sia stato giusto avere una ragionevole cooperazione con Mosca, anche attraverso la costruzione del Nord Stream 2. È chiaro che bisogna condannare con forza questa guerra criminale e aiutare il popolo ucraino in ogni modo, ma escludendo un conflitto diretto tra Nato e Russia, come dice anche Joe Biden. Dobbiamo però chiederci se abbiamo fatto tutto il possibile per evitare la crisi. I russi hanno interessi geostrategici, così come tutti, come gli americani. Dobbiamo porre linee rosse a Putin, ma tenendo presente la realtà. Io ho proposto il modello svizzero per l’Ucraina. Il saggio Henry Kissinger, che non può essere certo considerato un putiniano, dice da anni che l’Ucraina deve mantenere uno status neutrale. Credo sia l’ora di una intelligente e creativa diplomazia segreta».
Alla vigila dei novant’anni, si sente una persona felice?
«Sento gratitudine per una vita lunga, ricca e meravigliosa. Trovo incredibile quante persone e quanto affetto mi circondano. Sono grato di poter godere di questo piccolo paradiso toscano e della vicinanza alla cultura italiana, dell’esempio di umanità, intelligenza e dedizione al lavoro delle tante persone, anche le più semplici, che ho la fortuna di frequentare. Sì, posso dire di essere un uomo felice».