Robinson, 16 luglio 2022
Intervista a Mario Peliti
Un uomo passa alcuni anni della propria vita a fotografare un mondo composto di forme ma privo di persone. Solo edifici, cose, cieli, acque. E lo fa nella certezza che il solo colore che renda equilibrio a questa impresa sia il bianco e nero.
Poi, quasi per incanto, quella passione solitaria si trasforma in una grande mostra a Venezia. A Palazzo Grassi. Un riconoscimento importante per Mario Peliti: architetto, fotografo e raffinato editore di fotografia. Che proprio l’anno scorso ha esposto il suo lavoro su Venezia a Palazzo Grassi. Una Venezia già vuota prima del lockdown, trasformata in un oggetto surreale da questa specie di amore-ossessione.
Come è iniziata la tua avventura con la fotografia?
«Credo che la risposta venga da molto lontano, quando nel 1977 ho scoperto la fotografia in Scozia.
Il mio compagno di viaggio aveva una Reflex e io lo assistevo mentre lui scattava. Nel frattempo chiacchieravamo. Fresco dei miei scarsi risultati alla maturità discutevo con lui di creazione artistica. E la fotografia mi sembrava un modo un po’ troppo semplice per realizzarla rispetto ad altre forme di espressione. Evidentemente queste considerazioni sono state smentite da anni di impegno per la fotografia in qualità di editore e gallerista. Il progetto su Venezia ha quindi l’ambizione di rendere pubblici i miei sguardi quotidiani, di testimoniare il mio rapporto con la città. Giulio Paolini – un artista che amo – ha dichiarato che l’essenza della nostra visione della realtà è riconducibile al teatro, che una volta osservato svanisce. Con le mie fotografie vorrei che di queste apparizioni rimanesse traccia».
Hai scattato migliaia di foto e non è difficile immaginare un grande archivio dove tutto il lavoro finirà. Ma che cosa è questo amore-ossessione per Venezia?
«Quella che tu chiami “amore-ossessione” è per me una forma acuta di disciplina. La ricerca di un ordine da trovare nei volumi e nelle forme della città».
Perché hai scelto di “cancellare” dalle tue foto la presenza umana?
«Perché ai miei occhi sarebbe stata una presenza disturbante: la rottura di un equilibro tutto giocato sulla immobilità delle forme. È chiaro che se fossi stato un fotoreporter avrei agito diversamente. In una foto di cronaca è fondamentale essere lì dove accade qualcosa, in quel preciso momento. Quello che provo a rappresentare è invece ciò che è già accaduto da sempre. Come fosse un’immagine che descrive se stessa fuori dal tempo».
Ho visto che nel tuo lavoro su Venezia oltre alla presenza umana hai eliminato anche le ombre.
Perché?
«Credo che un’ombra “sporchi” l’immagine, le sottrae quella purezza per me essenziale. Per questo ho fotografato per anni solo in certe ore della giornata, all’alba o al tramonto. Oppure quando il cielo è coperto. Per otto anni ho cercato di fotografare l’ombra perfetta, quella che non c’è e che ritrovi solo in certi grandi artisti».
In chi?
«Nei quadri di Canaletto è raro che un’ombra risalga sulla facciata opposta o su un altro elemento della composizione. Lì il sole è sempre alto. Mentre, che so, nei quadri di Bellotto (ad esempio quelli di Varsavia) gran parte della narrazione avviene nell’ombra cheabbraccia entrambi i lati della composizione. Forse il termine “ombra perfetta” può trarre in inganno. È l’ombra che valorizza i volumi senza espandersi nella scena. Senza divorarla. Ovviamente la considerazione vale soprattutto per l’architettura. Del resto sono architetto e provengo da quel mondo».
Prima di diventare architetto?
«Nasco a Roma, ho studiato per quattro anni dalle suore e otto con i gesuiti, al Massimo, dove anche Draghi prese la licenza liceale. Poi sono stato per tre anni nel collegio militare Morosini».
Il famigerato Morosini.
«Perché famigerato? Era un collegio severo, non c’è dubbio. Ma tutte le mie più care amicizie si sono formate lì».
C’era differenza con l’insegnamento dei gesuiti?
«I gesuiti sono fortemente impositivi, ma ti spiegano perché. I militari lo sono e basta».
Ma perché finisti al Morosini?
«Mio padre, che aveva fatto la guerra in marina, pensava che il collegio temprasse il carattere. Forse oggi vedrei quell’intenzione in modo diverso, ma allora, parlo del triennio 1974-77, fu un’esperienza notevole. Lì – in quella Venezia non distante dai giardini della Biennale – dopo gli inizi in cui ho patito l’eccesso di disciplina, misi alla prova le mie capacità di adattamento. Se sono tornato a Venezia immaginando un progetto fotografico a suo modo unico, lo devo anche agli anni trascorsi in collegio».
Come sei passato dall’architettura alla fotografia?
«È stato un movimento indolore. In fondo, tutto quello che ho fotografato rispetta i criteri architettonici.
Credo di essere in questo abbastanza ottocentesco».
In che senso?
«È stato l’Ottocento a codificare il linguaggio dell’architettura attraverso la fotografia. Per vocazione avrei fatto volentieri il pittore. Volevo iscrivermi alla scuola delle belle arti. Lo dissi a mio padre e lui molto categorico rispose che in quel caso non mi avrebbe mantenuto. Di qui la facoltà di architettura. Dopo la laurea ho lavorato come pubblicitario per una società farmaceutica. Al capo dell’azienda proposi una serie di libretti fotografici, il primo dei quali fu sulle donne di Gianni Berengo Gardin. E siccome l’iniziativa andò bene, Berengo cominciò a presentarmi altri fotografi: Gabriele Basilico, Ferdinando Scianna, Letizia Battaglia. Io non sapevo chi fossero, ma ero attratto dai loro lavori».
E poi sei diventato editore.
«Un po’ per caso ma soprattutto perché volevo capire come pensavano i fotografi».
Trovi che abbiano un modo particolare di ragionare?
«Ciascuno dei grandi fotografi ha un mondo che è solo suo, ma tutti insieme condividono l’idea che lo stato di grazia o di vita si realizza nel mondo esterno. Un grande fotografo ha il proprio inconscio riflesso nell’obiettivo. Poi, ripeto, ognuno di essi emerge per un carattere. Helmut Newton, tra quelli che ho conosciuto, è epidermico. Mentre Josef Koudelka mi sembra esageratamente riflessivo. Berengo, in assoluto, è la persona più sistematica che conosca. Se non fosse nato in Liguria potrebbe tranquillamente passare per uno svizzero».
Anche tu non scherzi quanto a sistematicità.
«Riconosco, vista la mia educazione, di essere abbastanza rigido. La mia stessa famiglia non era molto espansiva».
Tuo padre cosa faceva?
«Aveva una grande tipografia e lui stesso è stato editore. Per un bambino la tipografia era una specie di parco giochi. Ho impaginato il mio primo libro all’etàdi otto anni. Credo che mi sia restata qualche traccia se ho deciso io stesso di fare l’editore. Poi c’erano i ricordi di mio padre sul mio bisnonno, Federico Peliti, un piemontese che ha narrato, attraverso la fotografia, l’India vittoriana».
Non l’hai conosciuto?
«No, era nato non distante da Torino alla metà dell’Ottocento e morì alla vigilia della Prima Guerra. In origine fu scultore. Ma la fotografia, oltre a essere un hobby, divenne l’occasione per raccontare un mondo che cominciava ad entrare nell’interesse e nell’immaginario dei piemontesi. Pensa che la prima cattedra di sanscrito fu creata a Torino nel 1852 e si sviluppò una forte pubblicistica intorno alle civiltà orientali: dai testi più propriamente scientifici a quelli divulgativi ai romanzi, come testimoniano le avventure narrate da Emilio Salgari».
Come finì in India il bisnonno Federico?
«Lavorava, come pasticcere, alle dipendenze di Lord Mayo che quando divenne viceré dell’India lo volle con sé a Calcutta. Pochi anni dopo nel 1872 Lord Mayo venne assassinato – quella morte fu attribuita a una delle prime, se non la prima, manifestazione di jihadismo – e a quel punto Federico Peliti decise direstare laggiù aprendo vari negozi e un ristorante frequentatissimo dalla high society inglese ed europea. Pare fosse anche un formidabile organizzatore di feste e banchetti per i mahrajas. Ma il pranzo più famoso, ricordava mio padre, fu quello organizzato per l’arrivo in India del principe di Galles.
Ormai ricco trasferì i suoi affari e la residenza a Simla, una cittadina nel Nord dell’India, alle pendici dell’Himalaya. Non dimenticò mai la sua passione per la fotografia. Alimentata dai numerosi atelier fotografici sparsi tra Bombay e Calcutta. Fu un dilettante e un pioniere della fotografia. Documentò senza pregiudizi occidentali tanto la cultura del dominio coloniale quanto quella più intima di un popolo straordinario. Per questo mi è sembrato giusto donare il suo lascito alla Calcografia Nazionale».
Che genere di fotografo sei?
«È chiaro che lavoro sulla rappresentazione del reale.
Ma alla fine è la mia persona che dà senso alle immagini. Per spiegarmi meglio ti dico che il mio progetto Hypervenezia è nato per dare a chi si occupa di storia della città una documentazione omogenea.
Le migliaia di foto che ho scattato testimoniano di una città che è passata dai 150 mila abitanti di qualcheanno fa agli attuali cinquanta mila. Tra qualche anno anche questi residui di popolazione spariranno. Sono tornato a Venezia nel 2002 e già allora la città aveva perso la sua caratteristica operaia. Un tempo all’Arsenale, dove si fa manutenzione delle navi, lavoravano migliaia di persone. Poi le amministrazioni che si sono susseguite hanno puntato sul turismo».
Con quali effetti?
«Gli effetti li vedi. Venezia è vittima di una diaspora a chilometro zero. La vita si è trasferita a Mestre e nelle città vicine. Continuiamo a chiamare Venezia “città d’arte”. È una iattura. Venezia è stata grande quando era una città mercantile. Come città d’arte è destinata a morire. Le mie foto sono il documento fedele di che cosa sia stata la sua architettura: un evento unico, dove il suolo, i canali, l’acqua, il cielo sono, in un certo senso, indistinguibili dalle forme edificate. Non c’è un prima e un dopo, c’è l’architettura e in contemporaneo la città».
Anche le tue foto hanno qualcosa di unico. Perché hai scelto il bianco e nero?
«Perché è il solo “colore” che non disturba e non tradisce. Federico Zeri sosteneva che l’expertise di un quadro andasse fatto con la fotografia in bianco e nero perché è più semplice cogliere l’unicità di uno stile».
A proposito di stile, quali sono i fotografi ai quali ti senti legato?
«Il debito più grande, ma è quasi un debito spirituale, ce l’ho con il mio amico Gabriele Basilico. Come editore ho pubblicato tanti libri sulle città che hameravigliosamente raccontato. Gabriele è stato unico e direi non replicabile. Mi ha donato la sua filosofia della città: il rispetto dei volumi, delle forme e la forza dei dettagli. Guardando al passato, certamente è stata una grande lezione il lavoro di Charles Marville. Su incarico di Napoleone III, Marville fornì una straordinaria testimonianza dell’architettura di Parigi e dei suoi antichi quartieri, prima che l’urbanista e barone Haussmann li sventrasse per poi ricostruirli.
Ecco, Marville fu il primo a liberare le foto dalla presenza umana».
La trovi così condizionante?
«È una scelta e come tutte le scelte opinabili. Ma se ci pensi bene la “città ideale” può fare a meno di quel carico di emozioni, di patimenti o di gioie che l’essere umano scarica o produce. La sua assenza è per me un segnale di rigore, un desiderio di non scendere a compromessi con la cronaca, con i miliardi di selfie che ogni giorno si scaricano sul pianeta. Siamo invasi dall’umano. Foucault aveva intravisto la “morte del soggetto”. Ho provato a cogliere la sua sparizione nella città che grazie all’uomo è stata creata, ma che per sua mano sta morendo».