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 2022  luglio 16 Sabato calendario

Calvino, Pavese, Morante, Cassola, così gli scrittori guidarono l’opinione pubblica contro gli armamenti nucleari

Nel 1977 Adelphi pubblica Dissipatio H.G. L’autore, Guido Morselli, si è tolto la vita con un colpo di pistola quattro anni prima a Varese. Nel romanzo però la storia ha tutta l’aria di un suicidio alla rovescia. Siamo in Svizzera. Sullo sfondo di una fantomatica Crisopoli, il protagonista s’infila nella grotta di un lago di montagna. Ha deciso di farla finita, ma poi ci ripensa. Tornando a casa nota qualcosa di strano. Gli oggetti sono intatti: edifici, automobili, telefoni, banche. Delle persone invece non c’è traccia. Il genere umano (H.G., humani generis) si è volatilizzato, polverizzato. Dissipato. Sembra la solita trama da romanzo distopico, e forse lo è. Però quest’apocalisse senza spettatori ci ricorda molto da vicino gli effetti della bomba al neutrone. Sviluppata negli Usa sul finire degli anni 50, la bomba N aspira alla fama di bomba pulita, quasi gentile. A differenza delle sorelle maggiori, l’atomica (bomba A), e l’ancor più micidiale bomba all’idrogeno (bomba H), questa ha una particolarità. Emette flussi di radiazioni che colpiscono esclusivamente il Dna, risparmiando la materia inorganica: case, cose, infrastrutture. In altre parole, non è pensata per distruggere (non tanto), ma solo per uccidere. Proprio per queste sue caratteristiche, anche oggi è considerata un’arma “tattica”.Morselli non è l’unico a subire il fascino letterario della bomba al neutrone. Ne parlano in molti. Alberto Moravia, per esempio, ci scriverà su un racconto, C’è una bomba N anche per le formiche. Qui un intellettuale, dopo aver letto della bomba su un giornale, si ritrova in cucina un’invasione di formiche. Mentre si affretta a spruzzarle di veleno, viene travolto dal pensiero del loro strazio microscopico, invisibile a occhio nudo. L’orrore, conclude, è solo una questione di scala: «Noi siamo delle formiche, e il nostro insetticida sarà la bomba N».Per Anna Maria Ortese, che la evoca in un discorso sulla crudeltà a danno di animali e creature indifese, la «pulitissima» bomba N «ha quasi il candore di una prima Comunione». Stermina, ma assolve perché non ti sporca le mani. Ed è proprio questo che preoccupa anche Primo Levi, che in un articolo, Il sinistro potere della scienza, pretende che gli scienziati facciano obiezione di coscienza, un giuramento d’Ippocrate che li impegni moralmente di fronte alle loro scoperte.E poi c’è Calvino. In un pezzo sul Corriere della Sera, Gli uomini giusti con le cose giuste, non solo si preoccupa degli effetti ambientali delle radiazioni, ma vede in questa strana pietà per l’inorganico il segno di un rapporto malato con gli oggetti, come se la loro esistenza potesse giustificarsi da sola, senza nessuna relazione con noi: un mondo alla rovescia. Sono temi a cui Calvino pensa spesso. È da quando ha cominciato a pubblicare che la bomba atomica – in tutte le varianti (A, H, N) – rispunta nei suoi scritti: un fiume carsico che nasce nel 1946 sulle pagine dell’Unità (il pezzo famoso sulle capre di Bikini), riaffiora in qualche racconto e nei romanzi sociali del decennio successivo (La nuvola di smog, La giornata d’uno scrutatore), e infine emerge negli elzeviri su Corriere e Repubblica.Apparsi tra gli anni 70 e 80, gli interventi sulla bomba N rispecchiano un dibattito sulla minaccia nucleare lungo un quarto di secolo: decenni di pace armata e nervosa in cui migliaia di bombe, per lo più “sporche”, vengono testate nel deserto, negli oceani (e isole ex-coloniali), nell’atmosfera. I primi sono stati gli americani; li hanno seguiti i sovietici, poi Inghilterra, Francia, Cina, India. ( Si stima che, al 2021, gli Usa di bombe ne abbiano fatte esplodere 1054, mentre la Russia, in continuità con l’Urss, 715. Dopo di loro, la Francia, 210).L’Italia su questo scacchiere non gioca direttamente, ma è innegabile che un po’ di responsabilità ce l’abbia. Una delle radici dell’atomica infatti è proprio italiana: sono i ragazzi di via Panisperna e il loro caposcuola Enrico Fermi, il quale nel 1938, subito dopo aver ricevuto il Nobel, fugge negli Stati Uniti dove lavora con Oppenheimer al Progetto Manhattan. Ma soprattutto c’è il silenzioso arsenale nucleare ( un centinaio di bombe) che il nostro paese dagli anni 50 ospita per conto della Nato. Quest’ambiguità italiana viene vissuta con insofferenza sin dall’inizio. L’opinione pubblica è apertamente contraria alla proliferazione nucleare. Il dissenso si manifesta nel 1950 con l’Appello di Stoccolma, lanciato a Parigi dai Partigiani per la Pace, movimento internazionale sostenuto da artisti e intellettuali: ci si impegnano Picasso, Jorge Amado, Louis Aragon. In Italia firmano quasi in 17 milioni, il 37 per cento della popolazione: in nessun altro paese occidentale sono così tanti.Anche stavolta gli scrittori sono in prima linea, e letteralmente: Calvino ( ancora) raccoglie firme nei quartieri popolari di Torino, convertendo alla causa operai, casalinghe e pensionati. Il primo agosto con lui c’è Cesare Pavese: a fine mese si sarebbe suicidato, e ci sta già pensando; eppure ciò non gli impedisce di fare una campagna pacifista in nome del futuro dell’umanità.È proprio a partire da quegli anni che la critica alla bomba si trasforma in una missione politica della cultura. «Ciò che gli intellettuali rimproveravano all’Italia», dice Maria Anna Mariani, autrice diItaly and the Bomb: A Poetics of the Bystander ( in uscita per Oxford UP), «era di essere un bystander,ruolo sospeso tra lo spettatore e il fiancheggiatore. Ma la cultura non poteva restare neutrale».E infatti, neutrale non resta. A Elsa Morante si deve l’intervento più intenso, Pro e contro la bomba atomica: orazione civile tenuta nel 1963 al Teatro Carignano di Torino. L’accoglienza è freddina, ma Morante insiste, e la porta in altri teatri. Ne La Storia la scrittrice parlerà dell’inconcepibile, quasi trascendente brutalità della bomba. Qui però la dimensione è concreta e politica, e investe lo scrivere come mestiere. Chi scrive, dice, ha il compito di demolire l’irrealtà «col paragone della realtà, della quale è venuto a portare testimonianza» : e più irreale del discorso sulla bomba come strumento di pace c’è poco. Non solo: Morante rivela il nulla logico celato dietro queste armi, mostrandoci, spiega ancora Mariani, che «la ragione è in un vicolo cieco, perché lei stessa ha creato qualcosa di aberrante». Molte altre sono le voci che risuonano: De Filippo, Pasolini, Sciascia, Cassola. Quest’ultimo, antimilitarista convinto, tra il ’ 78 e l’ 82 scrive una «trilogia atomica» ( rifiutata dal suo editore Rizzoli) che unisce devastazione nucleare e apocalisse ecologica, immaginando mondi «senza nessuno» in cui a sopravvivere sono un cane nel primo romanzo ( che però alla fine muore), uno scrittore nel secondo ( muore dopo cinque giorni) e le piante nel terzo ( che invece se la cavano). E poi c’è ancora Moravia, eletto nel 1984 all’Europarlamento, dove conduce una battaglia pacifista che non si stanca di argomentare in articoli, interviste, racconti. In uno di questi scritti, pubblicato a ridosso di un incontro Reagan- Gorbaciov, Moravia cita un’antica usanza giapponese, lo iubikiri. Quando due contendenti arrivano a un punto morto, dice, uno dei due può scegliere di tagliarsi un dito e gettarlo in faccia all’altro. Che a quel punto è obbligato ad accondiscendere. Che cosa dobbiamo fare, chiede, tagliarci un dito e lanciarlo verso la Casa Bianca e il Cremlino, perché prendano sul serio gli appelli al disarmo? La domanda è retorica, ma il gesto va al cuore della questione. Perché in fondo è di dita che stiamo parlando. Lo vede anche Primo Levi in una poesia, La bambina di Pompei, nei cui ultimi versi così si rivolge a quelli che chiama «tristi custodi del tuono definitivo» : «Prima di premere il dito, fermatevi e considerate». E se non ne siete capaci, verrebbe da aggiungere, piuttosto tagliatevelo,quel dito. Un giorno, neanche troppo lontano, la Guerra fredda sarebbe finita, ma questi scrittori non lo sapevano, e la paura era grande: perché in gioco c’era l’estinzione della nostra specie. E allora si sforzavano di dare corpo all’immaginazione della catastrofe nucleare scrivendo di capre e formiche, dita, scorie, cani, piante, bambine. Viene da dire che volevano essere dei profeti, parola abusata ma semplice, perché significa parlare a una comunità, mettendola a confronto con la realtà. In fondo è questo ciò che intendeva Morante quando diceva che chi scrive «ha il compito di smascherare gli imbrogli». Compito meritorio e quanto mai necessario oggi, tempo di negazionismi, fake news e operazioni militari speciali. A proposito, non esistono bombe gentili.