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 2022  luglio 16 Sabato calendario

Intervista a Giorgio Parisi

La nuova paura di un conflitto nucleare, le inquietudini legate al futuro energetico, il ruolo della conoscenza e il suo rapporto con il potere
Nell’anniversario del Progetto Manhattan parla il fisico italiano premio Nobel
«Certo, il possibile uso dell’atomica mi preoccupa. Ma ero più angosciato nel 1981». Ascoltare Giorgio Parisi, premio Nobel per la fisica, è come assistere a una reazione a catena da cui sprigionano competenza scientifica, passione civile, ricordi personali. E se gli si chiede dello spettro nucleare che è tornato ad aleggiare sull’Europa con l’invasionerussa dell’Ucraina, il professor Parisi rivà con la memoria agli anni della Guerra Fredda tra Nato e Patto di Varsavia.
Professore, cosa accadde nel 1981?
«L’Unione Sovietica cominciò a schierare i missili con testate nucleari SS20 al posto dei più vecchi SS4 e SS5 che avevano testate più potenti. Gli Stati Uniti risposero proponendo di installare i loro Pershing in Germania e i Cruise in Italia».
E lei come visse quella escalation?
«Studiai che cosa sarebbe successo in caso di guerra nucleare. In caso di attacco atomico leggero ci sarebbero stati una cinquantina di ordigni su obiettivi militari in Italia. Ma, dicevano i calcoli, l’effetto collaterale sarebbero stati da 5 ai 10 milioni di morti civili. E uno degli obiettivi, il più vicino a Roma, era Monte Cavo, sede di un centro di comunicazione comando e controllo della Nato. Mi ricordo che ogni tanto dalla città guardavo in quella direzione e mi dicevo: “Bene, non è ancora arrivato niente…”. Al confronto oggi mi sento più sicuro, anche se non sicurissimo».
Qual era la sua posizione all’epoca?
«Ero assolutamente contrario alla dislocazione dei Pershing e dei Cruise. Con una motivazione precisa: i Pershing potevano arrivare in cinque minuti a Mosca e ridurre il tempo di intervento significava costringere i russi, in caso di attacco, a prendere decisioni troppo rapide e probabilmente avventate. Per questo, con i colleghi Edoardo Amaldi e Francesco Calogero, scrivemmo una petizione firmata da migliaia di colleghi e la consegnammo al Quirinale, all’allora presidente Sandro Pertini».
Quarant’anni dopo c’è di nuovo questo pericolo? I russi hanno minacciato il ricorso al loro arsenale nucleare…
«Sono la persona meno adatta a fare previsioni sulle mosse future di Mosca. Ero assolutamente convinto che i russi non avrebbero invaso, fino all’ultimo giorno. E quando sono entrati in Ucraina ero sicuro che si sarebbero fermati al Donbass, invece hanno puntato su Kiev… Detto questo, se la Russia utilizzasse le armi atomiche sarebbe una follia. Tuttavia,qualsiasi tensione militare, prima o poi, comporta il rischio di far scoppiare una guerra atomica, se uno dei contendenti dispone di armi nucleari. Se l’esercito ucraino iniziasse ad avanzare in territorio russo il rischio diventerebbe più concreto. Spero che le persone coinvolte siano abbastanza sagge da evitarlo.
Ma non mi consolano le notizie sulla presunta malattia di Putin, le trovo anzi abbastanza preoccupanti, non vorrei che morisse Sansone con tutti i Filistei».
Professor Parisi, che rapporto hanno i fisici con la bomba atomica? Robert Oppenheimer, uno dei padri del Progetto Manhattan, disse che a Hiroshima la fisica aveva conosciuto il peccato. Lo pensa anche lei?
«Oppenheimer era molto immaginifico nelle sue frasi a effetto. Ma se proprio dobbiamo cercare il peccato originale degli scienziati al servizio della guerra io lo individuerei nell’iprite, il gas usato per la prima volta dai tedeschi nel 1917. Fu un progetto molto complesso a cui lavorarono anche cinque futuri premi Nobel.
Quel gas fece più di diecimila morti, anche se aveva conseguenze limitate al campo di battaglia e fortunatamente non è stato utilizzato su grande scala, perché era poco controllabile e poteva colpire i soldati dell’esercito che lo utilizzava».
Lei e il suo Nobel siete per certi versi emanazione della scuola romana di fisica, che inizia con Enrico Fermi e con i suoi Ragazzi di via Panisperna. E anche Fermi fu uno dei pilastri del progetto Manhattan. È una eredità che le pesa?
«Proprio in questi giorni sto rileggendo l’autobiografia di Bruno Rossi, fisico che ha fatto la storia della scienza dei raggi cosmici. Negli anni Trenta aveva dovuto lasciare l’Italia per le leggi razziali e andò a insegnare negli Stati Uniti. Anche lui fu reclutato per il Progetto Manhattan, senza che gliene fossero spiegati gli obiettivi, ma appena arrivò comprese che lo scopo era scoprire la bomba. E nel suo racconto la decisione di partecipare sembra non avere alternative: la fissione nucleare era stata scoperta dai tedeschi qualche anno prima e c’era la ragionevole certezza che se una bomba atomica fosse stata possibile la Germania l’avrebbe realizzata.
Quindi era assolutamente necessario che gli Usa arrivassero prima della Germania di Hitler. In questa situazione è chiaro che iniziare a fare l’atomica nel 1942-43 secondo me non fu peccaminoso, ma un rischio calcolato. Poi si è scoperto che i tedeschi erano rimasti lontanissimi dal riuscirci, ma nel 1942 non si poteva sapere».Ma se oggi i migliori fisici, i Nobel come lei e come all’epoca era Fermi, venissero reclutati per costruire una superarma, quale pensa che sarebbe la risposta della comunità scientifica?«La situazione è molto cambiata. Gli scienziati oggi si batterebbero per fare un trattato internazionale e non per costruire una superarma. All’epoca c’era una lotta all’ultimo sangue tra il nazismo e il resto del mondo, non è che si poteva discutere con Hitler e proporre un trattato».Di trattati sugli armamenti nucleari ne sono stati firmati tanti, eppure le armi atomiche sono ancora lì pronte a essere usate. Come mai?«I trattati sono una cosa molto positiva e la diplomazia degli scienziati ha spesso giocato un ruolo fondamentale, per esempio per stabilire i criteri con cui verificare che si rispettino i patti. Penso alla rete mondiale di sismografi che riescono a distinguere se un terremoto è naturale o se invece è frutto di un test nucleare sotterraneo. O alle stazioni di rilevamento che misurano la quantità di radioattività dispersa nell’atmosfera. Tuttavia ricordo che il Trattato di non proliferazione, siglato circa sessant’anni fa, impegnava gli Stati non nucleari a non costruire bombe atomiche. Cosa che ha funzionato perfettamente, altrimenti oggi avremmo potuto avere 20-30 Stati con bombe atomiche. Ma in quel documento le allora potenze nucleari si impegnavano a fare colloqui in buona fede per arrivare alla eliminazione completa delle armi nucleari in loro possesso. Io questi colloqui non li ho mai visti, quella promessa non è stata mantenuta. L’altro serio problema è: chi usa per primo la bomba. Mentre la Cina e l’India hanno dichiarato formalmente che la loro politica è di non usare per primi l’arma nucleare, la Francia, il Pakistan, l’Inghilterra, la Russia e gli Stati Uniti hanno dichiarato che si riservano il diritto di usare per primi la bomba atomica anche se non attaccati con armi nucleari. Negli anni 70 era persino comprensibile la posizione della Nato, perché si supponeva che il Patto di Varsavia avesse una superiorità negli armamenti convenzionali: esisteva un piano di conquista della Germania in sette giorni.Però adesso non c’è questa superiorità della Russia dal punto di vista convenzionale, e lo vediamo tutti i giorni in tv: ha già problemi serissimi con l’esercito ucraino, figuriamoci con la Nato».Ha parlato di diplomazia della scienza. Cosa ne pensa dell’ipotesi del Cern di interrompere le collaborazioni con gli scienziati russi?«Ritengo che sia assolutamente necessario tenere aperti i canali di comunicazione, proprio perché la diplomazia, che avviene con gli scambi di informazioni tra scienziati, è fondamentale per arrivare a un accordo. L’altro motivo è che se c’è in Russia una categoria che si è opposta all’invasione dell’Ucraina è quella degli scienziati, sia residenti all’estero che in patria. A me sembra strano che l’unica categoria ad aver parlato contro l’invasione poi venga penalizzata in questo modo. Se avessimo tagliato i ponti con gli scienziati dopo l’invasione russa dell’Ungheria e della Cecoslovacchia, che sono state meno sanguinose dell’Ucraina solo per motivi contingenti, sarebbe stato molto più difficile arrivare a tutti quei trattati di cui parlavamo. La costruzione della pace è una cosa estremamente difficile e va guardata non sulla scala dei mesi o degli anni ma dei decenni. E su questa scala interrompere le collaborazioni scientifiche è la cosa peggiore che si possa fare».La paura del nucleare è legata anche alle centrali che producono energia. Lei è favorevole o contrario?«Anche in questo caso bisogna considerare il rapporto costi/benefici. Abbiamo visto due incidenti molto brutti, quello di Chernobyl e quello di Fukushima.Ogni incidente avviene per motivi diversi dagli altri, ma quello che è abbastanza chiaro è che esiste un certo pericolo legato alle centrali atomiche, almeno a quelle in funzione attualmente. Una riflessione semplice da fare è che le centrali atomiche in caso di incidente danneggiano la popolazione più vicina alla centrale stessa tanto che va evacuata un’area nel raggio di 30-50 chilometri intorno all’impianto. Allora i danni di un eventuale incidente serio dipendono dalla densità di popolazione nell’area. Quindi la mia idea è che mettere centrali nucleari in Paesi tipo l’Italia, con grande sismicità e con una densità di popolazione tra le più alte, è una cosa stupida. Diverso farlo in Francia o in Germania, che hanno zone sismicamente tranquille e a bassa densità di popolazione. In quel caso il rapporto costi/benefici è completamente diverso.L’altro problema ancora irrisolto è quello dei depositi delle scorie come il plutonio. Un po’ in tutto il mondo ci sono difficoltà e costi elevatissimi».Però ora c’è il nucleare di quarta generazione.«Sì, prevede centrali più sicure e alcune dovrebbero essere a circuito chiuso in maniera tale che non si producano scorie a lunga scadenza, come il plutonio.Questo migliorerebbe da un lato la sicurezza, dall’altro eliminerebbe il problema delle scorie a lunghissimascadenza. Il problema è che di queste centrali di quarta generazione c’è solo un prototipo in funzione, quindi ci vorranno un certo numero di anni prima di validare questa tecnologia e di essere sicuri che non presenti problemi. Poi andranno costruite le centrali vere e proprie. Insomma, non è una soluzione per l’immediato. Ma certo va continuata la ricerca: può darsi che tra quindici o vent’anni saranno utili».Professor Parisi, ma lei, da fisico, ha paura dell’atomo?«Bisogna valutare caso per caso, dopo aver studiato.Abbiamo imparato molte cose dagli anni Cinquanta a oggi. In quel periodo ero bambino e mio padre andava alle terme. Sull’acqua di Fiuggi c’era scritto leggermente radioattiva. E lo stesso accadeva per i fanghi di Ischia: erano magnificati perché radioattivi.All’epoca essere radioattivo era sinonimo di benefico, tanto da essere usato nella pubblicità. Anche dopo lo scoppio della prima bomba atomica c’era ancora questa idea che radioattivo fosse positivo. Il cambiamento è arrivato dopo le analisi dei sopravvissuti a Hiroshima. Ci si è accorti che i tumori si manifestavano anche molto tempo dopo l’esplosione della bomba. E non solo in chi era stato investito da grandi dosi di radioattività, ma anche in coloro raggiunti da piccole dosi. A quel punto si è cominciato a prendere contromisure, per esempio riducendo le radiazioni a cui veniva esposto il personale medico.Poi questa cautela si è propagata a tutti i settori. E la radioattività è sparita anche dalla pubblicità delle acque e dei fanghi».