Tuttolibri, 16 luglio 2022
Evviva la pasta ripiena
Ah, la pasta: noi italiani e la pasta, noi italiani e quella meraviglia che è la pasta ripiena... stando alla leggenda, il tortellino sarebbe stato creato da un oste di Castelfranco Emilia, lì dove nella locanda del medesimo si era fermata a riposare Venere accompagnata nientemeno che da Bacco e da Marte, convenuti per assistere con diletto a una delle tante e sanguinose battaglie tra le rivali Modena e Bologna. Incantato dalla bellezza della dea, l’oste ne avrebbe riprodotto l’ombelico utilizzando la pasta sfoglia che anzitempo aveva preparato in cucina. Ma riguardo alle origini di uno dei piatti preferiti dagli italiani in fatto di pasta ripiena questa rimane la più sfrontatamente fantasiosa delle ipotesi, è nelle pagine del Decamerone di Giovanni Boccaccio che troviamo forse la prima citazione letteraria dei ravioli, lì dove nel Paese di Bengodi «... si legano le vigne con le salsicce, e avevasi un’oca a denaio e un papero giunta, ed eravi uma montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna cosa facean che far maccheroni, raviuoli e cuocerli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi ne pigliava più se n’aveva».
In realtà, pare che già presso gli antichi romani esistesse un tipo di pasta ripiena simile al raviolo, la cosiddetta torta di Apicio. Sta di fatto che se stando agli storici il ravolo è la sola pasta ripiena di cui si abbia contezza nei secoli XII e XIII, e se l’origine del termine «raviolo» resta controversa – c’è chi lo fa derivare da «rabiola» o piccola rapa, e chi da «rovigliola» ovvero da groviglio in riferimento al ripieno, anche se altre teorie fanno risalire tale denominazione alla parola ligure «rave» e cioè frana, per via del ripieno che viene frantumato, o ancora al ravagliolo o raviggiolo, formaggio simile alla ricotta che veniva usato per la farcitura – da parte mia non ho dubbi: la comparsa ai miei occhi addirittura epica della mia pasta ripiena preferita, ossia quegli agnolotti alla piemontese citati dalla premiata ditta Fruttero & Lucentini in Enigma in un luogo di mare, è da attribuirsi senza dubbio alcuno a mia madre Elisabetta Tibaldi, seconda di sei tra figlie e figli di fu Giuseppe e Giuseppina, operaia tessile, grande lettrice e facitrice, nelle domeniche della mia infanzia, di agnolotti superlativi.
Quand’ero bambino e vivevo a Grosso Canavese, in provincia di Torino, nemmeno mille anime impegnate perlopiù a fabbricare sedie e mobili, sfamate e dissetate dalla panetteria di Giovanni e Anna, dalla rivendita di Gina, dalla macelleria di Bruno, dalla drogheria di Gino e dal bar di Agnese che faceva anche da trattoria, attività circondate da prati ricchi di cicoria e campi di granoturco e boschi di querce e betulle che a me all’epoca parevano immensi e degni di ospitare avventure mirabolanti e vere e proprie battaglie, tedeschi contro partigiani, cavalleggeri contro indiani, moschettieri del Re contro guardie del Cardinale, nonché scorribande di pirati degne di Pippi Calzelunghe, il rito domenicale della preparazione e del pranzo a base di agnolotti era preceduto dall’uccisione per mano paterna di uno dei conigli che i miei genitori allevavano nel cortile della casa assai piccola ricavata nell’ex stalla di una cascina a pochi passi dal castello intorno a cui era sorto il paese, tre stanze in cui si viveva in quattro umani più il gatto, perché i cani da caccia e i canarini albergavano sì al riparo esattamente come i conigli ma fuori. Mio padre Francesco, barbiere e cacciatore, spezzava il collo al povero ma saporito coniglio di turno con un colpo di karate degno di Bruce Lee, e lo consegnava cadavere a mia madre, che lo scuoiava dalla testa ai piedi riducendolo a un corpicino sanguinolento: se a mia sorella, la sensibile Gabriella, la scena appariva granguignolesca e orrenda, io crudele come sanno essere non di rado i bambini già pregustavo la bestiola trasformata in ripieno e mi dicevo che comunque di conigli ne avevamo un mucchio, figliando i medesimi come da copione.
Di fatto, non vedevo l’ora di aiutare l’Elisabetta a tirare la pasta all’uovo, appallottolare il ripieno che lei nel frattempo aveva preparato e richiuderlo nel suo scrigno giallo per poi ritagliare ogni singolo agnolotto con l’apposita rotellina d’acciaio dal manico in legno. Prima però il coniglio matato e scuoiato andava tagliato a pezzi e poi cucinato, alla pari dell’arrosto di vitello e della salsiccia di maiale, e quindi passato nel tritacarne con questi per essere mischiato agli altri ingredienti del ripieno: parmigiano e cavolo verza oppure spinaci, e poi uova e noce moscata. Il rumore familiare della macchina tirapasta, prodotto dalla manovella a me affidata, era dunque seguito da quello della rotella preposta al taglio dei rettangoli ricavati dalle lunghe strisce di pasta all’uovo; e non appena mia madre si distraeva, ne approfittavo per mettermi in bocca una pallottola di ripieno, assaporando la bontà del coniglio di casa mischiato al resto. Il mio fanatismo nei confronti degli agnolotti era assoluto. Aspettavo la domenica non tanto perché all’epoca era il solo giorno della settimana in cui non si andava a scuola, ma per via degli agnolotti. Che però mi capitava di mangiare anche il sabato, quando a farli era anche Agnese, la proprietaria del bar-trattoria di fianco al salone di mio padre: lui infatti, per sentirsi almeno un po’ nella natia Sicilia, il venerdì cucinava sempre troppo pesce, e allora ne regalava ogni volta un bel po’ a lei, che il sabato ricambiava coi suoi agnolotti, altrettanto superlativi. Io, naturalmente, mostravo di gradirli assai. Cosa che in mia madre, gelosa non di Agnese ma dei suoi agnolotti, faceva scattare la domanda: «Ma preferisci gli agnolotti di Agnese o i miei?». In verità, come detto, erano entrambi favolosi. Se obbligato, avrei ovviamente scelto quelli di mia madre, ma solo per amore. Ogni singolo agnolotto, che fosse di Elisabetta o di Agnese, era per me fonte di piacere puro e sinonimo di festa. A distanza di tanto tempo non ho cambiato idea, ma agnolotti tanto buoni non ne ho mangiati più. —