La Stampa, 16 luglio 2022
Basta prendersela con i boomer
Ogni volta che sento accusare la mia generazione di essersi presa tutto, di continuare a detenere ruoli di potere e di non accennare a mollarli, mi stupisco. Non perché non sia vero, ma perché riguarda una piccolissima parte di noi, e cioè i benedetti sessantottini. Loro sì hanno predicato cambiamenti e rivoluzioni, hanno fatto scioperi e proteste, e poi da grandi – alcuni, non tutti – si sono piacevolmente accomodati dentro le loro carriere, tornando nelle loro case lussuose. Ereditate. Con tanto di mobili antichi e argenteria, in vario modo occultata. Riprendendo come nulla fosse lo stile di vita alto-borghese, opportunamente camuffato. D’accordo. Fa male anche a me, tutto ciò. E mi regala un sorriso, non sempre benevolo. Ma quanti erano, questi benedetti sessantottini di cui sempre e soltanto si parla? Il venti per cento degli studenti, dicono gli studi. Quindi una minoranza risibile. Molti di classe alta, figli di papà, ribelli alle loro stesse origini e vite. Se così posso dire, contestatori di se stessi.
E gli altri? Gli altri eravamo noi, la maggioranza, appartenenti al ceto basso e alla media borghesia lavoratrice. Figli del dopoguerra, di gente che dopo aver fatto la guerra visse il boom della ripresa, la rinascita, l’ascesa. A forza di sacrifici (parola oggi scomparsa). Noi figli li abbiamo visti, i loro sacrifici, che un po’ di sbieco sono stati anche i nostri: non c’erano mai soldi per il superfluo, fosse un libro o una camicetta. Bisognava risparmiare, tirare la cinghia (come diceva mio padre) perché loro – il popolo volonteroso del dopoguerra, nostri genitori e oggi nonni dei millennial – avevano il sogno di comprarsi una casa. Per questo lavoravano e risparmiavano. Alla faccia del divertimento (parola ieri assente).
Noi boomer abbiamo vissuto il loro sogno, e anche l’indubbio progresso materiale: abbiamo visto entrare nelle nostre case la televisione e la lavatrice, e la Cinquecento che ci portava per la prima volta a fare la scampagnata fuori porta la domenica, e i nostri padri che il sabato lavavano la macchina ai bordi dei parchi e dei viali, ovunque ci fosse una fontanella, strigliando con la spugna insaponata la carrozzeria fiammante.
E non è vero che abbiamo contestato i genitori: la maggior parte di noi boomer non l’ha fatto. Così come da grandi non è vero che abbiamo conquistato chissà quali posti di potere. Non noi, non tutti. La maggioranza della mia generazione ha trovato lavoro tardi e a fatica, ha lavorato perlopiù umilmente senza grandi onori, e ora sta andando in pensione, come sempre è stato, all’età prestabilita. E nemmeno è vero che ora da vecchi godiamo di tanta venerazione: siamo tutti variamente accantonati, non appena raggiungiamo la zona grigia dell’inutilità sociale. Ma non voglio fare l’epica dei miei tempi, me ne guardo bene. Voglio dire un’altra cosa. Voglio dire che noi boomer siamo figli dei sacrifici dei nostri genitori, e del progresso. Per questo molti di noi hanno raggiunto un certo benessere, e in alcuni casi una certa ricchezza. Per questo veniamo indicati così spesso come i privilegiati, e accusati di essere i padroni del mondo. Siamo di sicuro quelli che, in sessant’anni circa, hanno visto tutto l’arco evolutivo, da una vita povera a una vita agiata. E per questo forse – noi classe umile e non contestatori – siamo andati nel mondo con un senso di fiducia e anche di fierezza: perché ci è stato dato di poter raggiungere, e sorpassare, i sogni dei nostri genitori. Un dono inestimabile.
Così, quando a nostra volta siamo diventati genitori, abbiamo pensato che fosse bello condividere con i nostri figli le posizioni raggiunte. Questa la nostra colpa, se di colpe bisogna parlare: molti di noi hanno educato i figli nella bambagia. Paradossalmente è successo questo: esser stati testimoni dei sacrifici ci ha condotto a espellere dalla vita dei nostri figli ogni sorta di sacrificio. Abbiamo chiesto poco di aiutare in casa, poco di lavorare, per niente di risparmiare. Li abbiamo liberati da oneri e doveri, li abbiamo iperprotetti. Ci siamo messi, anche, al loro servizio e spesso in modo quasi grottesco: alcuni di noi caricavano la sveglia alle tre di notte per andare a prendere in auto i figli quindicenni all’uscita dalla discoteca. Li abbiamo riempiti di lezioni private, perché recuperassero le insufficienze. Abbiamo comprato tutto quel che volevano, e anche quel che non volevano ancora, prevenendo le loro richieste. Abbiamo accompagnato i loro studi (talora all’estero) e le loro (anche velleitarie) aspirazioni, mantenendoli fino alla soglia dei trent’anni e oltre. Con la scusa che non volevamo che facessero la vita che noi avevamo fatto da giovani, li abbiamo condannati a una vita di desideri già esauditi, di sogni già realizzati, come dice Crepet. Privandoli di quella spinta a migliorare, che da sola già migliora la vita.
Potevamo fare diversamente? Non so. Non si può fingere di tornare indietro, a un mondo post-bellico dove mancava tutto ma c’era la gioia di ricostruire tutto. Certamente, però, potevamo essere genitori, invece di cadere nella triplice trappola del narcisismo-consumismo-giovanilismo. Fare da guida, indicare degli ideali. Essere anche un po’ maestri, questo sì. Non rifiutare il ruolo di maestro, come invece l’ideologia corrente ci spingeva a fare (nella scuola, innanzi tutto) nell’ottica di una male interpretata idea di libertà e uguaglianza. Nella foga di abbattere l’autoritarismo, ci siamo dimenticati di essere autorevoli. È vero quel che dice Paolo di Paolo. Ma non tutti tra i boomer hanno abdicato al loro ruolo educativo. Così come non tutti tra i millennial sono sfaticati e frustrati, e passano le notti a bere e sballarsi. Alcuni trenta-quarantenni lavorano dieci ore al giorno, e molti hanno già raggiunto posizioni di potere.
Quindi? Ogni generazione continua la Storia come può; riceve un fardello e cerca, nonostante il peso, di fare del suo meglio. E visto che la Storia è fatta da individui e non solo da macigni collettivi che incombono e sembrano ineluttabili, ogni individuo – nonostante i genitori che si ritrova – è il costruttore del proprio destino. Faber est suae quisque fortunae, dicevano gli antichi.