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 2022  luglio 16 Sabato calendario

L’inflazione costa ai poveri il 60% in più

Una vera e propria “tassa sulla povertà” infuria in Italia da cinque trimestri consecutivi: da aprile 2021 al 30 giugno scorso l’inflazione non solo accelera mese dopo mese, prima per la ripresa post-pandemica e poi per l’effetto della guerra della Russia contro l’Ucraina, ma colpisce con più forza i più poveri. Lo attestano i dati mensili dell’indice dei prezzi al consumo Ipca registrati dall’Istat, segmentati per classe di reddito: per la media dei consumatori l’inflazione a giugno è salita dell’8% su base annua, con il nuovo record dal 1986, ma i rincari non sono stati uguali per tutti. Nel secondo trimestre dell’anno il 20% degli italiani con i redditi più bassi ha affrontato un carovita del 9,8%, mentre per il 20% dei cittadini più agiati l’aumento dei prezzi si è fermato al 6,1%. Una differenza del 60%.
La causa è il differente peso sulla spesa dei beni acquistati dalle diverse fasce sociali. L’inflazione nel secondo trimestre è stata spinta soprattutto dal balzo delle bollette dell’energia (elettricità e gas), dai prodotti alimentari e, in misura minore, dai servizi. L’Istat segnala che a giugno i rincari annui dei beni del cosiddetto “carrello della spesa” hanno segnato +8,2%, l’aumento annuo più alto dal gennaio 1986 (+8,6%). I prezzi degli alimentari lavorati segnano +8,1% e quelli degli alimenti non lavorati +9,6%. Qui sta il “differenziale di classe” dell’inflazione che nel trimestre tra aprile e giugno è aumentato al 3,7% tra poveri e ricchi: per i redditi più bassi bollette e alimentari (aumentati di più) incidono maggiormente sulla spesa totale, mentre chi ha redditi più alti spende di più per i servizi, rincarati di meno.
La diversa velocità del carovita a seconda delle classi di reddito è un fenomeno strutturale che colpisce i meno abbienti in particolare durante le recessioni e quando l’inflazione aumenta, mentre nelle fasi di frenata del carovita e di deflazione, quando i prezzi calano, il differenziale colpisce maggiormente i più ricchi. Secondo i dati Istat rielaborati dal Fatto, nei 15 mesi da aprile 2021 all’ultima rilevazione del 30 giugno scorso l’indice dei prezzi Ipca segnala che il “differenziale di classe” del carovita accelera e colpisce i più poveri: ad aprile dell’anno scorso il differenziale era dello 0,6% annuo tra l’1,3% per il quintile più povero e lo 0,7% del quintile più ricco, a giugno la forbice è del 4% annuo tra il rincaro dell’11,1% subìto dal 20% degli italiani più poveri e il 7,1% dei più ricchi. Il futuro è fosco: il Commissario Ue per l’economia Paolo Gentiloni “vede” per certo il blocco delle forniture di gas russo all’Europa, con l’ulteriore esplosione dei prezzi di metano ed elettricità e una pesante recessione sin dall’inverno. Il divario è dunque destinato non solo a protrarsi ma, in assenza di misure pubbliche su salari stipendi e pensioni, ad aumentare ancora.
A impressionare è la dimensione raggiunta dal “differenziale di classe” del carovita. Le seria storica dei dati mensili Istat da gennaio 2006, rielaborata dal Fatto, rileva che nel periodo il 20% più povero ha pagato rincari più pesanti rispetto a quelli del 20% più ricco in 106 mesi sui 198. La forbice dei prezzi è stata a sfavore dei meno abbienti da gennaio 2006 a marzo 2007 (15 mesi), poi durante la recessione mondiale da ottobre 2007 a marzo 2009 (18 mesi), per 33 mesi da dicembre 2010 sino a agosto 2013, quando la crisi dei debiti sovrani dei Paesi periferici dell’Eurozona, Italia compresa, portò al “whatever it takes” dell’allora presidente della Bce Mario Draghi, poi da gennaio a maggio 2017 e ancora per 18 mesi da ottobre 2017 a marzo 2019. Ma a impressionare, a giugno scorso, è il 4% di differenziale annuo di inflazione tra poveri e ricchi: dal 2006 una forbice simile non s’era mai vista. Il valore più alto del differenziale risale a luglio 2008, ma era “appena” del 2,1% e fu toccato per un mese solo. Invece da aprile 2021 a oggi, per 15 mesi consecutivi, il 2,1% è la media dei differenziali mensili dei rincari.
Non a caso le associazioni dei consumatori calcolano la stangata: per il Codacons i rincari colpiranno per 2.457 euro annui i nuclei “tipo” ma saliranno a 3.192 euro per le famiglie con due figli. Federconsumatori segnala che il carovita sta cambiando le abitudini di spesa: il consumo di carne e pesce cala di oltre il 16%, si scelgono verdure più convenienti, si ricorre alle offerte e ai banchi con i prodotti più vicini alla scadenza, si tagliano i pasti fuori casa. Il governo, ricorda Banca d’Italia nel suo ultimo bollettino, ha adottato sì “misure per mitigare l’erosione del potere d’acquisto”, soprattutto per le famiglie meno abbienti. Ma questi interventi, come il bonus di 200 euro, non sono bastati: nel complesso “hanno quasi dimezzano l’impatto dello shock inflazionistico sui nuclei a più basso reddito”. Per gli economisti dell’Istituto di via Nazionale l’inflazione al consumo nel 2022 dovrebbe essere del 7,8%, l’1,6% in più di quanto stimato a giugno, spinta dal rincaro delle bollette energetiche, ma in caso di stop alle forniture di energia dalla Russia aggiungerebbe il 9,3%. Nel 2023 dovrebbe calare al 4% (comunque più alta dell’1,3% rispetto alle stime di giugno) e scendere al 2% solo nel 2024. Ma se non arriverà più metano russo nel 2023 l’inflazione resterà al 7,4%. Senza dimenticare che questo scenario causerebbe interruzioni produttive nelle attività industriali, specie nei settori più energivori, maggiori rincari delle materie prime, un impatto più forte su incertezza e fiducia e una dinamica più debole della domanda estera. Questo porterebbe il Pil a crescere meno dell’1% nel 2022 e a diminuire nel prossimo anno di quasi il 2%, per tornare a crescere solo nel 2024.
In sofferenza però non ci sono solo le classi meno abbienti, nelle quali i disoccupati e i precari abbondano, ma anche i lavoratori a reddito fisso. Lo spiega lo stesso bollettino di Bankitalia: il 40% dei contratti del settore privato devono essere ancora rinnovati, ma anche il 60% che ha chiuso le trattative ha sì ottenuto aumenti salariali tra il 2 e il 2,5% annuo e superiori al triennio precedente, ma comunque inferiori all’inflazione, non quella reale che continua a crescere ma quella usata come previsione per i rinnovi. La situazione dei lavoratori italiani è talmente difficile che lo registra pure il sindacato britannico Trades Union Congress (Tuc): l’analisi delle previsioni Ocse indica che i salari reali, ovvero al netto dell’inflazione, per i lavoratori italiani scenderanno del 3,8% tra quest’anno e il 2023. Tra i Paesi del G7 solo il Regno Unito farà peggio (-6,2%), in Germania scenderanno del 3% mentre in Francia cresceranno dello 0,5%. D’altronde l’Italia è l’unico Paese dell’Ocse in cui i salari sono diminuiti negli ultimi 30 anni del 3%, mentre la Germania segnava +34%, la Francia +31% e la Spagna +6%. Con i salari reali che calano e il divario del costo della vita tra poveri e ricchi che cresce, l’abisso sociale è destinato a diventare sempre più strutturale.