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 2022  luglio 16 Sabato calendario

Contro Draghi

Marco Travaglio

Unendoci al cordoglio delle prefiche inconsolabili che strillano per la prematura dipartita di Mario Antonietta, partecipiamo alle esequie con due domandine facili facili.
1. Posto che il capo dello Stato scioglie anzitempo le Camere solo quando non c’è più una maggioranza per formare un governo, in che senso “dopo Draghi c’è solo il voto”? Con l’astensione M5S, il governo Draghi ha appena avuto la fiducia dalla maggioranza assoluta di entrambi i rami del Parlamento. Ma, siccome è capriccioso, o s’è stufato, o teme i forconi, o ha pilates, il premier s’è dimesso. Mattarella ha respinto le dimissioni e l’ha rispedito alle Camere per mercoledì. E lì l’unico rischio che non corre è non avere la fiducia: avrà quella extralarge col M5S se accoglierà le 9 proposte di Conte; o quella più ridotta, ma comunque sufficiente, con tutti gli attuali alleati senza M5S. In questo caso dovrebbe fare ciò che si fa sempre: sostituire i ministri 5Stelle e continuare a governare. Ma potrebbe pure ritentare la fuga con dimissioni irrevocabili. Però la maggioranza esisterebbe comunque, salvo che un altro partitone (la Lega?) si sfilasse: nel qual caso, fine della maggioranza e della legislatura. Ma, se nessuno a parte il M5S si sfila, non si vede perché l’addio di Draghi porti alle urne. Mattarella dovrebbe proporre un altro premier alla maggioranza e lasciar decidere al Parlamento. Se i 5Stelle sono inaffidabili e infrequentabili, che aspettano gli altri a fare un governo senza di loro? Non ci pare di aver letto nella Costituzione che l’unico italiano su 59 milioni abilitato alla premiership sia Draghi: anzi, la Carta non fa proprio nomi.
2. L’indispensabilità di Draghi nasce da bizzarre leggende metropolitane sui suoi poteri taumaturgici al governo (in 17 mesi non ha combinato quasi nulla e quel poco era sbagliato, dalla giustizia al Covid, dalla guerra al riarmo al 2% del Pil stoppato da Conte) e sui mercati (lo spread è più basso ora che s’è dimesso di quando era in carica). Ma è stata smentita da lui stesso a Natale quando, per un altro capriccio, annunciò che la sua missione era compiuta e, da “nonno al servizio delle istituzioni” (o viceversa), ambiva a traslocare al Quirinale. E tutta la stampa, che fino ad allora voleva imbullonarlo al governo in saecula saeculorum, prese a bombardarci le palle per spedirlo a tagliar nastri lassù. Tanto, per Palazzo Chigi, uno valeva uno: andava bene pure tal Daniele Franco. Conte e Salvini si opposero perché un governo-ammucchiata guidato da altri era improbabile, se non impossibile. E furono lapidati. Ora, di grazia, com’è che il nonnetto che tutti volevano sloggiare da Palazzo Chigi e imbalsamare sul Colle è l’unico italiano su 59 milioni in grado di fare il presidente del Consiglio?

Antonio Padellaro
Carissimi Conte e Draghi se provaste a chiedere
in giro, al bar o in metro (ma dubito che li frequentiate) verifichereste che nessuno ma proprio
nessuno ha capito un bel niente di questa crisi.“Che casino!”, è infatti la frase più gettonata. Lo
strappo dei 5S è stato sicuramente dettato da ragioni profonde, che tuttavia sfuggono al cosiddetto
uomo della strada. Il termovalorizzatore di Roma?
Via non scherziamo. Quanto a Draghi, un premier
che si dimette dopo aver ricevuto la fiducia delle
due Camere resta un mistero glorioso, e anche doloroso: non si abbandona il timone della barca con
il mare in tempesta. Non sappiamo se si porrà rimedio a questa crisi insensata. E se non sarà possibile, niente paura, si andrà a votare in autunno,
dopodiché è probabile che vedremo Giorgia Meloni a Palazzo Chigi e Matteo Salvini al Viminale.
Al Pd spetterà il compito di tenere alta la fiaccola
dell ’opposizione (e dell’antifascismo). Draghi potrà finalmente tornare a fare il nonno. Quanto ai
grillini superstiti, dopo essere stati al governo con
tutti potrebbero provarci, perché no, anche con FdI. Il giallo si porta bene anche sul nero (che è poi il
colore del futuro che ci aspetta).

Tommaso Montanari
Dunque, i barbari non si sono del tutto civilizzati. È con queste, rammaricate, parole che l’eterno establishment della Città Eterna commenta in queste ore il colpo di coda di Conte e del Movimento 5 Stelle. La scissione telecomandata di Di Maio non è bastata a disinnescare la mina: e il resto l’ha fatto l’intemperanza del presidente del Consiglio. Non sapevano trovare le parole per dirlo, i grandi giornali genuflessi al doppio soglio chigiano e quirinalizio: ma si è capito che questa volta i due nonni della patria non sono in perfetto accordo, con Mattarella che prova a ricordare a Draghi che la fiducia l’ha avuta, e Draghi che non depone la stizza nemmeno quando il capo dello Stato lo manda “a riflettere”(come si fa con i bambini della scuola materna). Draghi non è uomo abituato ad essere contraddetto, si è chiosato con la solita untuosa cortigianeria. E dunque ciò che davvero è imperdonabile, ciò che determina davvero la crisi di governo, è la lesa maestà: e, si sa, per il crimen maiestatis le teste dei rei devono rotolare senza indugio. È proprio questa la nudità del re Draghi che gli incorreggibili grillini hanno svelato: e cioè la dimensione personale, personalistica, di questa leadership “che tutto il mondo ci invidia”. Questo significava, dunque, la famosa formula di “un Governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula poli tica” usata dal presidente Mattarella. L’assenza di formula politica significa che se una delle forze politiche che sono chiamate a dare la fiducia al governo (questo fastidioso rituale che re Draghi si degna di accettare purché sia un simbolico residuo di un passato in cui vigeva quella curiosa e sorpassata usanza che i libri di storia chiamano “d e m o c ra z i a ”) si permette di condizionare quella fiducia ad una specifica piattaforma politica che sottopone al presidente del Consiglio attendendone una risposta, e se poi, in assenza di risposta, quella forza politica non partecipa al voto di fiducia, non volendo sfiduciare il governo ma nemmeno accordargli di nuovo la fiducia senza aver avuto risposte chiare e impegnative: ebbene, allora si compie il crimine di lesa maestà, e il monarca sdegnato spezza lo scettro e maledice i reprobi fino alla quarta generazione. Lo scandalo è che il partito uscito dalle urne come quello di maggioranza relativa in Parlamento pretenda di influenzare la politica del governo che sostiene, perché – come ha scritto Conte nel documento consegnato a Draghi – “non ci sentiamo più di rinunciare a esprimere e a far valere le nostre posizioni, in nome di una generica ‘responsa - bilità’, che di fatto rischia di coincidere con un atteggiamento remissivo e ciecamente confidente rispetto a processi decisionali di cui, purtroppo, veniamo messi al corrente solo all’ul ti mo ”. E qui non rileva neppure che i punti di quel documento siano tutti (dalla difesa del reddito di cittadinanza al salario minimo, all’av v e r s i o n e al riarmo al blocco dei licenziamenti, al contrasto al precariato) perfettamente legittimi (e anzi in linea, a dirla tutta, con i valori fondanti della Costituzione della Repubblica). Il punto, ancora più a monte, è che l’esi - stenza stessa di questo documento contesta di fatto una prassi di governo fuori da ogni fisiologia costituzionale, tutta affidata a un uomo solo e al suo staff, completamente fuori dal controllo delle forze politiche e del Parlamento. È questo l’imperdonabile peccato di hybris per cui il sommo sacerdote dell’oligarchia si è stracciato le vesti gridando alla bestemmia: e quella bestemmia si chiama democrazia parlamentare. Se le cose stanno così, e cioè se il re accetta di rimettersi la corona solo a patto che il suo regno sia assoluto, il Movimento farebbe malissimo a rimangiarsi la pur timida voce con cui, dopo un anno e mezzo, ha finalmente sussurrato che quel re è nudo.

Donatella De Cesare
Si può far finta che sia tutta colpa dei 5S, quei populisti che hanno tirato la corda fin quando Draghi, il premier immeritato, ha dovuto dimettersi. Ma la miccia innescata si sarebbe spenta se sotto non covasse già da tempo la crisi. Una democrazia non è una banca. Draghi era stato chiamato da Mattarella per gestire i fondi del Pnrr e portare fuori il Paese dalla pandemia. La Storia ha mutato lo scenario: guerra, crisi energetica, Covid in crescita, emergenza climatica, inflazione galoppante. Anziché dar prova di flessibilità politica, acume, prudenza, l’economista supertecnico si è mostrato rigido, astratto, incapace di ascolto. Nel suo orizzonte non rientravano i poveri, una fastidiosa variabile, né le voci discordanti. Un politico deve mostrarsi vicino alla vita dei cittadini – Draghi non ha il polso del paese. L’ul – timo gesto delle dimissioni, con cui vuole sfilarsi, trasuda stizza e arroganza.

Gad Lerner
L’ unità nazionale non era certo la formula più adatta a prender di petto le ingiustizie sociali che in Italia penalizzano gli uni a vantaggio degli altri. Difatti ogni volta che nel governo Draghi qualcuno chiedeva maggiore equità fiscale si beccava un veto. Sul lavoro precario? Tutti fermi. Sulle pensioni? Rinvio (eccetto il salvataggio di pochi privilegiati tipo noi giornalisti). Riforma degli ammortizzatori sociali, sgravi per aumentare il netto in busta paga, salario minimo? Per più di un anno il governo ha cincischiato su questi argomenti “d iv isi vi”, preferendo elargire bonus generalisti. E ora dovremmo credere alla favola del povero Draghi disarcionato proprio quando stava per distribuire soldi ai lavoratori poveri? Suvvia! Domenico De Masi, ottimista della volontà, sogna che i 5S si trasformino in forza laburista capace di rappresentare gli svantaggiati. Mi piacerebbe, ma sa un po’ di ingegneria genetica. Intanto, l’ha capito per primo Draghi, il suo governo va a infrangersi sulla questione sociale.