Corriere della Sera, 15 luglio 2022
I 516 giorni di Draghi
«Ho visto che tanti mi candidano a tanti posti in giro per il mondo, mostrando una sollecitudine straordinaria. Li ringrazio, ma se per caso decidessi di lavorare dopo questa esperienza, un lavoro me lo trovo anche da solo». Ne ha fatte tante di battute Mario Draghi da quel febbraio del 2021, quando Sergio Mattarella pronunciò il suo nome al Quirinale, suscitando l’interesse dell’Europa e del mondo sul laboratorio Italia, il Paese sempre capace di cambi di passo straordinari a un millimetro dal baratro. L’errore che ha fatto la politica di casa nostra è stato quello di pensare che fosse un battutista. Perché «il nonno al servizio delle istituzioni, i cui destini personali non contano», stando sempre alle sue parole, era e resta quello del «whatever il takes», costi quel che costi, quando nel 2012 disse che la Bce avrebbe fatto tutto il necessario per difendere l’euro dalla speculazione. La condizione era ed è però che chi sta sulla barca remi almeno un po’, o perlomeno non rubi la benzina.
E quindi appena ricevuta la campanella direttamente dalle mani di Giuseppe Conte, con un piccolo sgarro alle regole anti Covid, si infilò direttamente nel suo studio di Palazzo Chigi, lasciando l’ex premier ai dovuti onori, alla guida rossa, agli applausi dei dipendenti, ai lucciconi appena trattenuti di Rocco Casalino. Per lui il punto centrale era quello dell’unità nazionale, forze molto diverse, avversarie se non nemiche, che si univano contro il virus e per uscire dalla crisi economica. Scatto in avanti della Borsa, giù lo spread. La genialità di Osho ce lo mostrava in foto mentre gli attribuiva la frase che fu di Giovanni XXIII: «Quando tornate a casa date una carezza ai vostri figli e dite loro: questa è la carezza di Mario Draghi». Sacrosanto avvertimento contro il vizio non solo italiano di celebrare il vincitore mentre ci si prepara magari a vederlo inciampare. Ma è un dato di fatto che con la spinta, almeno all’inizio coesa, di quell’inedita maggioranza, l’Italia ha stupito l’Europa facendo grandi cose. Sarebbe ingeneroso ignorare i risultati del governo precedente nella battaglia contro il Covid e per il Piano nazionale di ripresa e resilienza, ma l’unità nazionale ha consentito che l’Italia tutta, anche in buona misura gli elettori di Giorgia Meloni, si riconoscesse in una sfida comune, oltre gli schieramenti.
L’impronta europeista di Mario Draghi è stata molto netta nei 516 giorni del suo governo, fino all’asse con Macron, sancito con il trattato del Quirinale del novembre scorso, cogliendo l’opportunità di un nuovo spazio per Francia e Italia dopo l’uscita di scena di Angela Merkel.
Con il Pnrr incanalato sui binari di marcia, le gomitate quotidiane crescenti tra alleati, dal Ddl Zan al fine vita, dallo Ius scholae alla cannabis, dalle polemiche sul reddito di cittadinanza al superbonus, fino alle concessioni per le spiagge, i taxi e tanto altro sembravano i rivoli inevitabili e in fondo naturali di una campagna elettorale in avvicinamento, ma non tali da segnare una rottura.
Anche perché, il 24 febbraio del 2022, un dramma senza precedenti dopo i conflitti mondiali aveva iniziato a sconvolgere tutti: la guerra della Russia contro l’Ucraina. È stato questo probabilmente il vero nodo che ha cominciato a logorare il governo. Mario Draghi non ha avuto dubbi nello schierare l’Italia contro gli invasori e dalla parte dell’alleanza Atlantica e dell’Europa: sì alle sanzioni contro Mosca, sì agli aiuti, anche militari, alla resistenza di Kiev.
Una posizione che ha costretto alla retromarcia, almeno all’inizio, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, fin troppo preoccupati di non strappare con l’amico Putin. E che subito dopo ha visto Giuseppe Conte, in conflitto diretto con il suo ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, schierarsi contro l’invio delle armi all’Ucraina, sostenendo che ben altre sono le priorità del nostro paese. Lo scivolamento verso la crisi è cronaca di queste ore, con i Cinque stelle che non hanno votato la fiducia e con Mario Draghi che ha rassegnato le sue dimissioni, respinte da Sergio Mattarella.
I primi segnali, sul fronte dell’economia, non sono buoni, come era ovvio aspettarsi. Del resto il premier con la stampa estera lo aveva profetizzato: «Nei primi mesi di questo governo, molti hanno scritto che questo esecutivo coincideva con un momento magico. I Maneskin, Berrettini, la finale europea, le medaglie alle Olimpiadi, il Nobel per la fisica a Giorgio Parisi. Una serie di eventi così non si era mai vista. Da quel momento in poi è andato tutto a gonfie vele: l’Italia non si è qualificata a Mondiali, siamo arrivati sesti all’Eurovision, Berrettini si è preso il Covid e non ha giocato a Wimbledon e vivo nel terrore che l’accademia svedese ci ripensi su Parisi». E ora la crisi di governo, su un termovalorizzatore.