15 luglio 2022
In morte di Eugenio Scalfari. Tutti gli articoli (anche del 16.7.2022)
Autobiografia
Sono nato a Civitavecchia il 6 aprile del 1924 alle ore 10.30, all’ultimo piano di un palazzo costruito nei primi anni dell’Ottocento nella piazza centrale della città. Alcune finestre della nostra casa affacciavano su quella piazza. Di fronte a noi c’era la chiesa cattedrale intitolata a San Francesco; sulla sinistra la sede del Municipio. Altre finestre davano su un vicolo laterale al fondo del quale c’era il ristorante La Scaletta (c’è ancora).
Il lato opposto alla piazza si apriva sul porto, sulle banchine dove attraccavano le navi chiamate "postali" perché portavano la posta, i passeggeri e le merci in Sardegna, nei porti di Olbia, Golfo degli Aranci e Cagliari. Partivano e tornavano ogni giorno. Su altre banchine ormeggiavano navi da carico e petroliere. Sull’ultima attraccava di solito una corvetta o un cacciatorpediniere. Poi c’era la darsena dove sostavano le navi in riparazione.
Dopo la darsena sorgeva la chiesa di Santa Firmina, patrona di Civitavecchia. Ancora più in là l’alta sagoma della Rocca medievale. L’altro lato del porto, verso sud, era chiuso da un lungo antemurale rinforzato all’esterno da una barriera di scogli e di massi di cemento fissati sul fondo. Al di là di quell’imponente sbarramento il Forte Michelangelo, costruito dal Sangallo, sede di una guarnigione militare. Al fianco del Forte i silos, dove venivano conservati il grano e altri cereali e il carbone: costituivano il grosso del commercio portuale. I carichi di petrolio erano invece depositati in grandi cisterne.
Proprio sotto le case d’abitazione c’era il fronte del porto, una costruzione di grande interesse storico che risaliva all’epoca romana e che la leggenda attribuiva all’imperatore Traiano. —
Un giornale può sentirsi orfano, quando muore il padre. Esce ogni giorno, ogni giorno cambia, scritto com’è quotidianamente dalla realtà mutevole e sorprendente dei fatti. Però un giornale ha un’anima, un carattere, una sua natura particolare capace – se rispettata – di rendere il tutto coerente e di tenerlo insieme, firme e lettori, generazioni diverse, storie e provenienze: giorno dopo giorno, un anno dopo l’altro. L’anima di Repubblica è la vera creatura di Eugenio Scalfari, fatta a sua immagine e somiglianza ma con un dono speciale, quello della libertà nella conoscenza e nelle scelte. Perché il vero fondatore è chi crea qualcosa e poi lo lascia andare in un cammino autonomo, fedele nella libertà, perché gli possa sopravvivere.
C’è la fierezza per ciò che ha costruito, la commozione per averlo perduto, e il senso dell’abbandono nell’ultimo saluto a Eugenio, oggi. Si scoprono i sentimenti di un giornale, il vuoto e il dolore nella redazione, il lutto attorno a noi, tra i lettori, nelle istituzioni, nella società. Scalfari costituiva un mondo, lo definiva, lo rappresentava. Per noi era molto di più, il punto d’inizio e il punto di riferimento, il creatore di una comunità che si è scelta e deve continuare a scegliersi ogni giorno, una voce, un consiglio, un’amicizia e un affetto. Noi non abbiamo soltanto lavorato con lui: gli abbiamo voluto bene, come si fa con un progenitore che c’è sempre stato, con cui hai condiviso le vittorie e le sconfitte, e su cui pensavi di contare per sempre.
La verità è che non ci ha preparati al distacco, nonostante una vita lunga un secolo. Non i lettori, che lo hanno trovato qui ogni domenica dal 1976 fino alle ultime settimane, ma nemmeno noi, i suoi compagni. La forza intellettuale, la vivacità politica, la curiosità delle cose grandi e piccole rimanevano intatte, ci interpellavano ogni giorno e più volte al giorno e riscattavano il fisico infragilito, il movimento più lento, una fatica crescente nel muoversi. Fin che ha potuto entrava qui, ogni mattina, con quella sua eleganza distratta, fortemente personale, il bastone che sembrava un vezzo più che un appoggio. I gesti sempre uguali mentre sedeva, poi accavallava le gambe e subito accendeva una sigaretta, anche se negli uffici non si può più fumare. A quell’ora del mattino, prima della riunione di redazione, aveva letto soltanto Repubblica , tutta. Bastava perché il mondo gli girasse intorno nelle sue orbite conosciute, e lui si sentisse capace di comprenderlo. Scherzava, si appassionava, raccontava sceneggiandolo un episodio della cena con gli amici la sera prima, si fermava su un pettegolezzo, ragionava sulla politica. Ogni tanto un accenno al tramonto, un pensiero sulla fine. Soltanto l’età era ormai un punto fisso dei discorsi, prima una scusa per dire di no a qualche appuntamento e non viaggiare, poi in qualche raro caso quasi una confessione, come una verità da condividere in silenzio, insieme, commuovendosi quando nominava Enrica e Donata e parlava di Simone, il nipote.
Il giornale, la sua gente, continuava a vivergli attorno, come a un vecchio padre da cui si parte e a cui si torna. Lo guardavamo mentre parlava in piedi con l’amico di un’intera vita, Carlo Caracciolo, o con il compagno di tanti anni, Carlo De Benedetti, infine con John Elkann, l’editore di quel mondo torinese a cui pure era legato attraverso la famiglia: e sapevamo che nelle mani, o forse in tasca, o nella mente e nel cuore lui teneva comunque sempre quella scintilla immateriale che trasforma un’impresa in un’avventura collettiva, una redazione in un giornale, un quotidiano in un soggetto che parla al Paese e non soltanto del Paese. Dentro la creazione della sua maturità – Repubblica appunto – confluivano le sue diverse vite e i mondi che aveva frequentato: la gioventù immersa negli anni del fascismo, il liceo delle grandi amicizie, la provincia e le capitali, il francese come scuola culturale, Milano e le domeniche mattina nell’ufficio di Mattioli, la genesi liberale, l’esperienza radicale e l’incontro definitivo con la sinistra italiana, gli anni dell’ Espresso che costruivano un mondo e non soltanto un giornale, e infine l’ambizione di Repubblica .
Più tante altre cose, alcune delle quali segrete, o almeno intime: sentimentali. Da qualche parte sicuramente il mare, una specie di paesaggio dell’anima davanti al quale andava a passeggiare la sera con la madre, ai bagni Pirgus, quel mare che il nonno dipingeva nei suoi quadri e che lui “sentiva” da bambino affacciato al balcone della sala, guidato mentre scendeva il buio dalle prime luci delle lampare, dalle sirene dei vaporetti rimorchiatori che rientravano in porto, dalle cabine illuminate giù al largo. Una presenza costante come un rumore di fondo e un elemento della sfida. Che per Eugenio comincia da bambino, quando si assegna la responsabilità adulta di tener uniti i genitori in un matrimonio che scricchiola nella casa di Civitavecchia: una prova che poi prenderà il largo con il mito di Ulisse sempre frequentato, cercando la coscienza del limite, la conoscenza che lo supera, l’esperienza libertina che vuole provare il canto delle sirene, la responsabilità che fa tappare di cera le orecchie dei compagni, perché si salvino.
Qui c’è tutta la sfida riassunta in una parola: la conoscenza. Non solo una prova, dunque, o un cimento, un duello con un avversario. La vera sfida è il superamento di una soglia insieme e perconto dei compagni d’avventura, ed è soprattutto una partita con se stessi. Mettersi continuamente in discussione, puntare ogni volta ad un orizzonte più ampio, ripartire per un nuovo viaggio dopo ogni conquista.
Il giornale è questa necessità, e quest’occasione. Soprattutto per chi lo fonda e con questa fondazione fissa un’identità, disegna un profilo, indica un percorso di evoluzione e di crescita. Nel giornale di Eugenio, così come lui lo ha concepito, c’è la sfida di una comunità intellettuale e d’impresa, il miracolo di un incrocio vivo di generazioni diverse, di esperienze disparate, di provenienze differenti unite in una cultura di riferimento – con lui la chiamavamo una certa idea dell’Italia – e un obiettivo comune. Non è l’atto di governo quotidiano che unifica e tiene tutto insieme, bensì l’atto di nascita, l’imprinting, il dna. E solo il fondatore ha – per sempre – la dimensione della paternità, del soffio iniziale, di chi ha visto la barca prendere il largo con un equipaggio che lui ha scelto, su un legno che lui ha intagliato, verso una rotta che lui conosce. Non per caso quando non lo conoscevo personalmente, Scalfari mi ricordava un Gulliver che leggevo da bambino, disegnato mentre tirava dietro di sé con le mani i fili delle navi di Lilliput.
Il risultato è una concezione del giornale che va ben al di là della fotografia della giornata per puntare alla ricostruzione del mondo, all’invenzione del contesto, all’intelligenza degli avvenimenti, alla comprensione dei fenomeni. Cioè la creazione di una vera e propria macchina della conoscenza: capace di aiutare il lettore a partecipare e a capire, dunque a diventare un cittadino consapevole, proprio perché informato. Con un punto di vista forte, dichiarato e trasparente, perché non è una scelta partitica ma un’identità culturale, un modo di essere e di guardare al Paese e al mondo.
Se dovessi riassumere l’avventura giornalistica di Eugenio, direi che è la scommessa del cambiamento, anche in questo Paese, nonostante tutto, credendo ostinatamente che sia possibile persino in Italia. Crederlo, e testimoniarlo, appoggiandosi a due culture di minoranza, unite in quello che con disprezzo gli avversari chiamano ancora azionismo e che noi teniamo a cuore: la pratica politica della sinistra coniugata con il metodo liberale. Una scommessa, certo, anche un azzardo: puntare su un’Italia che non c’è, ma che si può costruire rifiutando la rassegnazione, partendo dal fondamento culturale delle cose, credendo nel valore di un impegno civile, nel sentimento costituzionale, di libertà, repubblicano. Nella felicità possibile della democrazia.
Questa sfida è più credibile se nasce dalla capacità di cambiare se stessi, mentre si chiede il cambiamento. E Scalfari ha rivoluzionato il modo di essere del giornale italiano, nel 1976, e attraverso la novità di Repubblica ha cambiato il giornalismo. Basta pensare al formato, che oggitutti hanno adottato ma che allora sembrò e fu rivoluzionario, alla fine della terza pagina accademica, al paginone centrale per la cultura, alle pagine due e tre dedicate al fatto del giorno: tutte rivoluzioni diventate oggi patrimonio comune, ma nate dal suo genio giornalistico e dalla suaRepubblica, che da lui ha ricevuto la magnifica condanna dell’innovazione permanente. Con la scuola del grande settimanale unita al quotidiano Scalfari ha insegnato a non accontentarsi mai della dimensione frontale delle vicende, ma a inclinare ogni fatto e ogni giornata sul suo lato critico, cercando quel deposito di significato riposto che sta sul fondo delle cose.
Questa ricerca scalfariana di senso è ciò che trasforma l’informazione in conoscenza, la conoscenza in coscienza, il lettore in cittadino. ERepubblica in un unicum che non si può omologare, molto meno di un partito – come pigramente dicevano gli avversari – ma qualcosa più di un giornale, nella forza della sua soggettività e dell’identificazione con i lettori. Il quotidiano pensato da Eugenio è parte della vita del Paese, non della sua rappresentazione: e a differenza del cinema e della letteratura il suo giornalismo non è una struttura mimetica ma svela chi lo fa, porta in primo piano le sue idee e le sue passioni. Perché Scalfari è stato soprattutto un giornalista di idee, capace di cercare in ogni vicenda la dimensione culturale delle cose, quella che rivela perché dà sostanza, quella che resta perché èqualcosa che vale, dunque che dura. Per questo penso al dialogo quotidiano con Eugenio anche come a un antidoto al sentimento dell’effimero che pesa inevitabilmente sulla vita di un giornale, qualcosa che va oltre l’amicizia e l’affetto personale, oltre il dolore e la mancanza, perché lega le radici alle foglie come solo lui poteva fare.
Di questo, e di molto altro, ho fatto in tempo a ringraziarlo, con parole che sono soltanto nostre. In pubblico, lo abbraccio ancora una volta come abbiamo fatto ad ogni incontro, senza falsi pudori, e gli dico grazie per ciò che ha lasciato a tutti noi. So che ognuno degli uomini e delle donne di questa redazione e di quest’azienda porta con sé un “segno” dell’incontro con Scalfari, un gesto di attenzione individuale, un tono particolare del rapporto, un ricordo privato. Ma c’è qualcosa che vale per noi tutti: lo chiamerei l’algebra e il fuoco, la buona grammatica delle cose e la passione culturale che le attraversa e le illumina di senso. Una passione scalfariana che facciamo nostra per fedeltà e per scelta, nella ricerca comune di quello che con Eugenio, citando Williams, chiamavamo «lo strano fosforo della vita»: che poi è la materia del suo giornalismo e della sua amicizia, della sua natura.
È il lascito che lui vorrebbe, quello che salutandolo oggi scegliamo e che porteremo con noi, riconoscendolo gli uni negli altri, dovunque saremo.
Se io mi permetto di accomunarmi a Eugenio Scalfari, è perché questo momento di perdita, di fine, di buio, mi è particolarmente doloroso: non c’è più il mio Direttore che mi offrì, 46 anni fa, l’occasione della mia vita, non c’è più uno degli ultimi, e non è che ne siano rimasti molti, grandi democratici che la televisione si è concessa, e c’è invece, solo per me che in fondo a me ci tento, il monito di non farla tanto lunga, non c’è più spazio di vita, non c’è più tempo. Per il suo nascente quotidiano, Scalfari riunì una buona parte di possibili redattori del Giorno , un quotidiano che era stato grande col suo direttore ex partigiano Italo Pietra, e adesso ci rendeva sempre più nervosi con il nuovo, quel Gaetano Afeltra che, adorato dalla buona borghesia lombarda, non si era accorto che il mondo cambiava. Eravamo disperati, così, quando quello che aveva inventato e diretto l’Espresso ci offrì questa nuova avventura, lo ascoltammo dire: noi abbiamo denaro per tre anni, se ce la faremo si andrà avanti, se no no. Alcune firme con famiglia non se la sentirono di affrontare l’ignoto, ma zitelle e zitelloni avremmo fatto qualsiasi cosa pur di fuggire dall’amalfitano.
Dopo tre anni il giornale era diventato l’indispensabile foglio chic da mostrare dalla tasca della giacca per i maschi e per noi femmine sventolarlo alle riunioni femministe a teatri pieni. La direzione di Repubblica era già da allora romana, e nella nostra redazione milanese si viveva l’assenza di Scalfari come una comodità, ma ancor più come una diminuzione, da una parte ci sentivamo liberi anche di dar poco retta al caporedattore locale, dall’altra ci mancava il suo sguardo sia di approvazione che di rimprovero. Li bramavamo ambedue, soprattutto noi signore cui da Roma arrivavano mazzi di rose rosse per certi articoli laggiù approvati, che ci procuravano una specie di batticuore che però dovevamo rinnegare per parità che allora non si chiamava di genere. Erano tempi quelli in cui, pur essendo donne tutte di un pezzo, avevamo ancora quel vizio riprovevole di natura patriarcale per cui dai superiori, dai capiufficio, dai dirigenti, dai segretari di partito, da un direttore di giornale, si pretendeva la promozione più richiesta, quella di attirare la di lui attenzione con i soliti trucchi della tradizione femminile. Figuriamoci Scalfari, il massimo dei direttori di giornale, che quando era deputato socialista e senza barba, non suscitava, mi dissero veri brividi, divenne bellissimo quando si fornì di barba e folta capigliatura grigia e poi bianca, con quella figura grande e bellegiacche, e una voce, una voce… E lo sguardo? E il sorriso? E i discorsi? E la cultura? E i segretari di partito in ginocchio? E l’occhiolino delle amanti dei segretaridi partito? Alla redazione di Milano niente, le sue visite erano così fulminee che per quel che mi risulta, qui si evitarono drammi o anche solo sospiri. A Roma si muoveva una folla di giornaliste donne, che essendo ancora un po’ una novità, erano quasi tutte giovani e belle, tanto che la nostra redazione (la prima, l’altra non so) divenne una fucina matrimoniale, perché allora l’inviato anche di guerra aveva ogni opportunità di distrarsi, ma è ovvio che se stai ore e ore chiuso in un ufficio, più di notte che di giorno, qualcosa succede. Quando mi capitava di andare Roma, davanti alla porta chiusa dell’ufficio di Scalfari, si aggiravano le colleghe ansiose di essere ricevute e tra di loro l’aria sospetta di gelosia.
Non vorrei fare gossip, ma quando alla redazione di Milano arrivò una bella segretaria mora, si sussurrò che passando lei le giornate a trafiggere con gli occhioni innamorati l’ufficio del direttore, si era dovuto per qualche mese spostarla nella fredda anche sentimentalmente città del Nord. Certo se ne parlava e non so se per invidia, tra femmine si criticavano aspramente le colleghe che, troppo facile, illanguidivano per quell’uomo molto glamour, anche certe dame del bel mondo, infastidendolo e facendogli perdere tempo prezioso: così la pensavamo noi per togliergli ogni responsabilità. Proprio in quei primi anni diRepubblica erano arrivate le leggi sul divorzio, le famiglie saltavano allegramente, le donne si riprendevano la libertà, forse separarsi non era più una disgrazia ma una vera sciccheria: a meno di non essere un personaggio di fama e allora non potevi permettertelo, come Indro Montanelli che aveva una moglie a Roma e una a Milano.
Il nostro direttore invece è sempre stato di grande eleganza e lungimiranza e democrazia, in politica e nei sentimenti, e forse per questo le donne della sua vita sono state, sono, intelligenti, generose, prudenti: un uomo così va rispettato, non puoi fargli scenate, amareggiarlo, soprattutto perderlo. Così da fuori, ammirandoli tutti anche le figlie, Donata ed Enrica, Scalfari ci ha dato anni fa e poi sempre, l’ennesima lezione di civiltà. Mi piace, spero piaccia a molti, ricordarlo anche in amore, persino con un po’ di malizia, per liberarlo dal nostro lutto. A presto, ma non tanto.
In mezzo c’è la storia, così piena di fatti e parole che a Scalfari fanno pensare. Gli intrighi del Sifar e la Razza Padrona, la linea della fermezza e il brigante Ghino di Tacco, espressioni entrate di forza nell’immaginario; come pure la plausibile leggenda che l’ha voluto di volta in volta consigliere, architetto o addirittura demiurgo di passaggi decisivi: dalla svolta moderata di Lama al consenso su Pertini, dalle picconate di Cossiga alle nomine di De Mita (Prodi all’Iri) fino alla gestazione, che si paventò “eterodiretta”, del Pds di Occhetto.
E se pure in nulla l’odierna società politica italiana assomiglia a Scalfari, beh, torna a suo onore l’indipendenza di «giornalista politico d’intervento — come lo definì negli anni ’80 Giorgio Bocca — capo partito senza partito». Da tutti i potenti riconosciuto come un orgoglioso ed enigmatico governante ombra, là dove l’ombra, lungi dall’evocare oscurità, traeva la sua fuggevole natura da un uomo che al dunque rispondeva solo a se stesso e al suo immenso talento nel comprendere e raccontare la vita pubblica, fulgori e magagne, comunque alla luce della passione culturale.
Innumerevoli gli scoop, imprescindibili le analisi, inesorabili le polemiche; di istruttiva e godibilissima lettura, oggi più di ieri, l’autobiografia, che il direttore di Repubblica intese personale e di gruppo, La sera andavamo a via Veneto (Mondadori, 1986).
Non molto tempo fa lo storico Tassani ha scovato il primo articolo di Scalfari adolescente su un giornalino dell’Azione Cattolica; giovanissimo, prima di essere espulso dal Pnf, collaborò con il periodico Roma fascista. Ma il suo vero imprinting fu il liberalismo crociano. Un’Italia laica, di minoranza, ma senza complessi d’inferiorità, anzi.
AlMondo di Pannunzio le idee politiche s’intrecciarono con un giornalismo elegante e scanzonato, l’impegno nella sinistra del Pli con i convegni dell’Eliseo, la battaglia contro i monopoli con la campagna contro il sacco di Roma, la Marsigliese con la fondazione del Partito radicale. Tutto questo mondo, che aveva come colonne Ernesto Rossi e Ugo La Malfa, il trentenne Scalfari cercava con altri di coinvolgere nell’imminente centrosinistra. «Cambiare musica e suonatori», l’Espresso ebbe subito questa ambizione. Nel Psi si orientò verso Riccardo Lombardi e il gruppo della Programmazione. Nel 1968 fu anche eletto deputato. Ma nel campo dell’economia — dove da giornalista apprese il senso dell’impresa, il dominio del denaro e l’importanza dei rapporti di forza — guardava algovernatore di Bankitalia Guido Carli. Pochi hanno conosciuto da vicino Fanfani e Moro, Mattei e Olivetti, Saragat e Merzagora, Spadolini e Ciampi. Molti altri Scalfari ha lodato, vezzeggiato, stuzzicato e poi, spesso e volentieri, anche disprezzato e preso di petto: da Togliatti ad Andreotti (e il pensiero va al serrato dialogo de Il Divo di Sorrentino), da Agnelli («L’avvocato di panna montata») al primo Cossiga, da D’Alema fino al giovane Renzi passando per Pannella. È difficile d’altra parte trovare regole o costanti nelle avversioni o nelle preferenze di un giornalista vissuto come un mito: illuminista, equilibrista, attore, profeta, libertino, giacobino, giocatore d’azzardo, corsaro, predicatore, torero, domatore e perfino centauro.
Con qualche approssimazione si può ipotizzare che l’intuito, ma forse sarebbe meglio dire il prodigioso istinto di Scalfari l’avessero portato con l’esperienza a coltivare una sorta di felice flessibilità che a sua volta gli consentiva di acquistare i lettori, che lo veneravano, proiettando la sua provvisoria benevolenza su questo o quel partito, questo o quel leader.
Ciò nondimeno con alcuni personaggi non riuscì quasi mai a coesistere, e anzi sembrava ben lieto di incrociare le armi, queste ultime calibrate secondo una scala polemologica che dal raffinato dileggio, attraverso la più meticolosa enunciazione di circostanze a carico, giungeva all’allarmata rampogna.
Per cui prima Cefis, poi Craxi e infine Berlusconi ebbero sempre da lui e dai suoi giornali la più viva ostilità, e anche pane per i loro denti. Fu così ampiamente ricambiato, nel corso di un trentennio.
Il progetto più impegnativo e ambizioso che si assegnò, negli anni ’70 e ’80, fu quello stabilire un’intesa tra la borghesia imprenditoriale e il Pci di Berlinguer, gigante impacciato e prigioniero di dogmi, favorendone l’evoluzione in senso liberale. Ma i tempi e la morte di Berlinguer non giocarono a vantaggio di questo processo. Quindi si concentrò sulla Dc di De Mita, anche in quel caso cercando di forzare la natura dello scudo crociato sul piano del rigore. Ma anche gli sforzi di De Mita furono vani e venne il Caf.
Il crollo della Prima Repubblica sorprese Scalfari fino a un certo punto. Nel corso della buriana appoggiò senz’altro Mani Pulite, senza poi dare tregua al Cavaliere. Comprese senz’altro la necessità di Prodi, del Pd e certamente gli piacque Veltroni.
Ma in definitiva, dopo una vita così lunga e ricca, ciò che più rimane impresso dello Scalfari politico è quanto scrisse più di mezzo secolo fa, rivolgendosi a quello che fino a poco prima considerava il suo maestro e con cui stava ormai rompendo: «Non ho mai presunto di essere depositario di assolute verità, proprio perché le convinzioni liberali mi impediscono d’acquietarmi una volta per tutte in una verità rivelata, quale che sia il “papa” che me la riveli». Colpisce ovviamente quell’accenno al Papa, ma ancor più la sostanza di un uomo che solo oggi appare più coerente di quanto si sia mai pensato.
Corrado Augias per la Repubblica (due articoli)
Di Eugenio Scalfari m’innamorai a vent’anni, nel 1955. Frequentavo i convegni che il settimanale Il Mondo organizzava la domenica mattina a Roma, al teatro Eliseo. Quando prendeva la parola sapevo già che avrei ascoltato una lezione di economia affascinante come un racconto, scandita con voce e tempi giusti da un uomo che mostrava gran fiducia in quello che diceva. Il Mondo mescolava nelle sue pagine una cultura minoritaria rispetto alle due chiese dominanti, La Dc e il Pci: l’Italia nata dalle elezioni del 18 aprile 1948; avrebbe retto fino al disfacimento dei primi anni Novanta. Tra le personalità di riferimento c’erano Salvemini ed Einaudi, c’era Benedetto Croce, storico e filosofo, c’erano Gramsci e Gobetti, il richiamo ad un’Italia vicina all’Europa, agli ideali libertari, alle grandi rivoluzioni illuministe, compresa quella americana. Già i nomi di chi scriveva sul Mondo davano netto un profilo: Ernesto Rossi, Luigi Salvatorelli, Ugo La Malfa, Arturo Carlo Jemolo, Giovanni Spadolini, Aldo Garosci, Vittorio Gorresio, tra gli altri.
Analoghe radici le ho ritrovate nel settimanale l’Espresso, quando cominciai a collaborarvi, poi in Repubblica, quando finalmente nacque. Nella prima idea di Scalfari il nuovo quotidiano avrebbe dovuto chiamarsi L’Opinione. Poi scoppiò in Portogallo quella che si sarebbe chiamata la rivoluzione dei garofani; tra i suoi motori c’era il quotidiano Repùblica. Era l’uovo di Colombo, Repùblica portoghese aveva una linea politica non lontana da quella ipotizzata per il progetto italiano. L’Opinione diventò La Repubblica.
Il nuovo quotidiano che Scalfari aveva a lungo immaginato e voluto nacque come un misto di politica, economia e cultura. La politica dominava dalla prima pagina; la sezione dell’economia apriva addirittura con una sua testata interna; la cultura trovava per la prima volta una collocazione al centro esatto dello sfoglio così compensando con una pagina doppia (il famoso “paginone”) il formato ridotto rispetto agli altri quotidiani. L’idea di Scalfari era che la terza pagina nella quale i temi culturali erano stati tradizionalmente racchiusi, andasse abolita per dare a quella sezione un rango reso visibile già dalla sua collocazione. Il menabò originale (e teorico) venne ampiamente alterato dall’aumento delle pagine e dal crescente numero di lettori. La cronaca bianca e nera, per esempio, era in origine prevista su una sola pagina, metà per uno Roma e Milano (occhiello di pagina “Le due capitali’); idem gli spettacoli, non tutti i cinema (allora molto più numerosi e frequentati di oggi) ma una selezione dei migliori film in circolazione. Quando Repubblica nacque, la cronaca politica era di norma condensata in un solo articolo (in gergo “il pastone”) nel quale il redattore addetto (il pastonista) riassumeva il senso complessivo della giornata. Scalfari ruppe anche questa consuetudine. Veniva dai settimanali dove la cronaca politica doveva tener conto del tempo tra la redazione di un articolo e la sua uscita. Scalfari trasportò di peso questa scansione sulle pagine del nuovo quotidiano. Non più un “pastone” ma numerosi articoli che dessero conto dell’attività del governo ma anche di quella dei partiti, dei sindacati, dei movimenti. Una maggiore articolazione che voleva dire maggiore comprensibilità della vita pubblica nonché la scoperta per il lettore del momento iniziale di un’iniziativa, un’idea, una corrente, una degenerazione.
L’impostazione del giornale cominciava con la riunione del mattino trasformata da Scalfari in un evento teatrale. La “messa cantata” (in gergo) poteva durare ore. Ottimo il tuo articolo, diceva ad un redattore; oppure: questa volta non eri al meglio, sai fare di più. Elogi e rampogne, confidenze, battute, sorrisi. Accadeva che chiamasse il tal politico e che la telefonata fosse messa in vivavoce. Teatro certo, ma anche uno strumento di governo degli umori del giornale. Comunque una assoluta padronanza delle circostanze. Il punto di equilibrio economico era previsto con centomila copie di vendita. Per molti mesi Repubblica fu lontana da quel livello anche se Scalfari arrivava alla riunione con un foglietto dal quale leggeva cifre immaginarie: ieri a Milano 18 mila, a Roma quasi 30 mila, traguardi gettati lì per rincuorare la truppa facendogli intravedere la luce di un futuro. Tentativo che, a distanza di tanti anni, mi sembra eroico. Qualche volta, insieme al collega e amico Enzo Golino, andavamo dopo la riunione dal capo della distribuzione che apriva per noi il registro (scritto a mano!) delle copie vendute.
Lontanissime da quelle annunciate. Era comunque chiaro che il progetto funzionava, di Repubblica si parlava in giro, il giornale andava in tutte le mazzette dei dirigenti pubblici e privati, i temi lanciati sulle sue pagine rimbalzavano negli interventi politici, di Repubblica si cominciò a dire che era più un partito politico che un giornale. Un commento malevolo o beffardo che però coglieva un punto: Repubblica effettivamente veniva pensata e scritta da un gruppo di persone che avevano notevoli interessi comuni politici e culturali. Fu anche questa coesione, che permise senza difficoltà il cambio di linea. Repubblica era nata come quotidiano filosocialista. Non a caso nel primo numero figura un’intervista di Scalfari al segretario del Psi Francesco De Martino. Nel luglio di quel 1976 accadde però che, col pretesto dei deludenti risultati elettorali, De Martino venne sbalzato dalla segreteria. Gli successe Bettino Craxi che, in teoria, avrebbe dovuto essere un segretario di transizione.
Sappiamo com’è andata. Repubblica a quel punto virò verso il Pci con un progetto inaudito: accelerare il distacco dei comunisti italiani dalla matrice sovietica, agevolarne la trasformazione in un moderno partito riformista. Ancora una volta Scalfari aveva scelto un traguardo ambizioso e lontano. Infatti, ci volle la caduta del Muro perché le resistenze al cambiamento fossero finalmente vinte.
A Eugenio Scalfari ho voluto bene, quasi tutto quello che so come giornalista l’ho imparato da lui.
Corrado Augias per la Repubblica
Il titolo di questo libro, La sera andavamo in via Veneto, ha una tale levità che sembra strizzare l’occhio al lettore. Serate leggere, chiacchiere, pettegolezzi, sorrisi, qualche drink. Nel libro c’è anche questo, intendiamoci: «Ad alcuni di noi piaceva molto ballare, i tanghi, i valzer...». Il temperamento di Scalfari comprendeva una tendenza all’allegria a volte sincera, altre volte usata come uno strumento tattico. Lo vedo ancora dopo una facezia mentre ancora sorride e intanto accende una sigaretta con un aggraziato movimento delle mani dalle unghie curatissime. Fermarsi al richiamo ammiccante del titolo sarebbe però un errore. Già la secchezza del sottotitolo richiama il vero scopo del saggio, sicuramente tra i più belli che Scalfari abbia scritto: «Storia di un gruppo dalMondo aRepubblica ».
Non deve stupire che un libro di storia — perché questo il libro è — possa avere cadenze da racconto brillante comprese alcune eccentriche divagazioni personali. Non deve stupire nemmeno che il racconto di questo gruppo abbia inizio da certi tavolini da caffè in una delle strade più famose del mondo. Il richiamo sottinteso sono icafés littéraires del XVIII secolo, quello dei Lumi, o la loro più recente replica italiana nella versione casalinga della Terza saletta di Aragno. Un dipinto di Amerigo Bartoli del 1930, Gli amici al caffè (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna), mostra una specie di foto di gruppo di quegli amici e di quel caffè: da Emilio Cecchi a Vincenzo Cardarelli, da Giuseppe Ungaretti a Roberto Longhi, insieme a molti altri. Aragno si trovava in via del Corso, mezzo secolo dopo, dall’immediato dopoguerra, la scena si sposta ottanta metri più in alto: Porta Pinciana, via Veneto. Non cambia però la doppia finalità dei caffè: pettegolezzi e progetti, cronache e fantasie, burle e accanite discussioni letterarie e politiche. Politica e letteratura, chi non ha memoria di quegli anni e di quelle persone, ignora quale diversa importanza avesse la coesistenza di questi due termini per molti rappresentanti politici, e per alcuni giornalisti. Oggi siamo abituati a rappresentanti politici di cultura approssimativa anche in termini generali. Riserverebbe credo brutte sorprese chiedere a questo o quello (o quella) la data d’un trattato, il titolo di un’opera, se Cavour riuscì o no a vedere Roma riunita al Regno d’Italia. Per quel gruppo la cultura era un elemento indispensabile.
Scalfari lo dimostrerà, tra l’altro, collocando le pagine culturali di Repubblica esattamente al centro del giornale, con doppio spazio. Nel libro arriva a confessare che lo scrittore americano Francis Scott Fitzgerald «aveva fornito alle nostre immaginazioni un modello di eleganze, vere o presunte, che era entrato a far parte del lessico e del comportamento collettivi». Al sommo di questo piccolo pantheonletterario non c’era lui però, bensì Marcel Proust, «il testo per antonomasia, senza la conoscenza del quale l’appartenenza al gruppo restava largamente imperfetta». Nel novero, puramente astratto, degli adepti potevano rientrare alcuni comunisti come Togliatti o Giorgio Amendola, Alfredo Reichlin veniva ammesso ma solo come candidato, i socialisti invece erano scartati in blocco. Frivolezze certo, oggi sarebbero liquidate come “radical chic” e anche allora non erano molto ben viste dalla “sinistra di classe”, come si definivano i comunisti. Resta che lo stesso pittore e disegnatore Mino Maccari, che faceva parte del gruppo, ritrasse in una graffiante vignetta gli “Amici del Mondo” mentre sorseggiano cocktail con tanto di ghette e cappello a cilindro. Fatuità, ma sotto la fatuità c’era la convinzione che solo una politica che si fondasse anche su una solida base di scelte culturali poteva avere qualche possibilità di cambiare il Paese. Non era del tutto vero, come avrebbe dimostrato proprio la sorte del gruppo, però erabello, era gratificante pensarlo.
Questo libro è uscito per la prima volta nel 1986,Repubblica esisteva già da dieci anni, molti eventi avevano notevolmente modificato il volto dell’Italia uscita dalla guerra come paese agricolo e patriarcale, con vaste zone d’arretratezza, largamente distrutto dai bombardamenti. Il 19 febbraio 1949 aveva visto la luce il settimanale Il Mondo destinato ad avere notevole importanza sul costume; nel 1955 era nato l’Espresso che sarà protagonista di risolute battaglie civili. Nel 1978 l’Italia aveva conosciuto il culmine del terrorismo con l’assassinio di Aldo Moro, due anni prima Bettino Craxi aveva conquistato la segreteria del Psi, c’erano state le grandi riforme degli anni Settanta, la morte di Enrico Berlinguer nel 1984.
Il gruppo dei fondatori, poco meno di un clan, si prefiggeva l’ambizioso scopo politico di creare una terza forza tra le due grandi Chiese rappresentate dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Comunista: «Creare un altro protagonista che le bilanciasse, depositario della laicità e del senso dello Stato». Unacultura liberale, dunque, però attenta ai valori e alle necessità sociali a cominciare dall’ammodernamento complessivo del Paese, della sua economia, dal riscatto del Mezzogiorno. Un gruppo, precisa Scalfari, che sentiva profondamente i valori occidentali avendo come lascito culturale i principi della Rivoluzione francese e, ancor più, quelli della Rivoluzione americana del 1776, schierato senza riserve in favore di una federazione europea e della Nato: «Stati Uniti ed Europa occidentale erano visti come una Comunità unica», più Israele, ovviamente.
Tra le pagine nelle quali mi sono maggiormente riconosciuto ci sono quelle dedicate ai convegni degli “Amici del Mondo” che dovevano diffondere la necessità di questo rinnovamento in un’epoca in cui non esisteva nessuno degli attuali strumenti di comunicazione. I convegni si tenevano la domenica mattina al romano teatro Eliseo in via Nazionale. Tra il marzo del 1955 e il marzo del ’64 ce ne furono una dozzina. Per uno studente ventenne qual ero, ascoltare quelle relazioni equivaleva a una buona esercitazione universitaria. Per laprima volta molti (quorum ego) sentirono dibattere sulla laicità dello Stato, sull’errore del Pci di aver elevato il Concordato fascista a livello costituzionale votando l’articolo 7, sulla speculazione delle aree edificabili che Antonio Cederna documentava con accuse di tale precisione da risultare inoppugnabili.
L’Espresso affrontò il tema gravissimo del “Sacco di Roma” affidandolo a un’inchiesta di Manlio Cancogni il cui titolo era destinato alla celebrità: Capitale corrotta = Nazione infetta.Le relazioni di Scalfari su temi economici erano tra le più seducenti. Ernesto Rossi aveva un’oratoria aspra, fiammeggiante; Scalfari al contrario era pacato, ragionevole, parole venate a tratti da una sfumatura di humour, un bel signore dai folti capelli neri, una fossetta sul mento, il vezzo di portare spesso, senza vera utilità, la mano alla montatura degli occhiali. Mai avrei immaginato ascoltandolo con attenzione concentrata, che di lì a pochi anni avrei collaborato con lui nei suoi giornali, che da lui avrei imparato quasi tutto quello che so di giornalismo. Credo che in quei convegni Scalfari abbia messo a punto quel suo modopiano, razionale, documentato, di esporre un problema o una situazione poi applicato ai suoi lucidi editoriali su Repubblica.
Tra le idee lanciate da queste campagne c’erano la riforma fiscale, la nominatività dei dividendi azionari, la tutela del risparmio, la lotta contro i monopoli. Era più o meno la piattaforma sulla quale sarebbe nato il primo esperimento di centro sinistra nel 1963. Monopoli e oligopoli, godevano d’una posizione che permetteva di disporre di mezzi e strumenti d’utilità collettiva utilizzandoli come un bene privato. Situazione additata come intollerabile, un furto alla collettività. Si chiedeva, con insistenza, il passaggio di questi poteri o funzioni alla mano pubblica. In qualche caso il gruppo ebbe successo. Nel 1963, quando finalmente arrivò il primo governo di centro sinistra guidato da Aldo Moro, le società elettriche vennero abolite e nacque l’Enel anche se poi, postilla l’autore, «la programmazione fallì di fronte alla resistenza degli interessi corporativi e a causa della pochezza delle forze politiche che avrebbero dovuto sostenerla».
Un altro percorso politico di alto contenutostrategico per la vita degli italiani fu quello dei rapporti tra questi liberals e il Partito Comunista. Il lettore troverà in queste pagine numerosi riferimenti ai notevoli cambiamenti portati dal tempo. Inizialmente il giudizio era del tutto negativo: «il Partito Comunista veniva guardato come un luogo politicamente desertico e impraticabile; si aveva verso la sua cultura e verso alcuni dei suoi uomini un atteggiamento di superba alterità». Le cose, in seguito, cambiarono in base a fattori politici, ideali, di carattere, di convenienza, nonché di epocali mutamenti internazionali. A distanza di tanti anni a noi interessa l’approdo finale di questo viaggio. Lo possiamo riassumere nella formula “democrazia compiuta” cioè nell’utilità di cui lentamente ci si rese consapevoli d’includere quanto meno nel gioco delle istituzioni, se non in quello del governo, i rappresentanti di una grande forza popolare fortemente motivata e disciplinata, a condizione che riuscisse a sciogliersi dall’abbraccio con il comunismo sovietico che — tra l’altro — stava ormai declinando.
La mattina in cui fu rapito, Moro si stava recando alla Camera dove il governo presieduto da Andreotti avrebbe avuto anche l’appoggio dei comunisti. Era stato proprio Moro a tessere con movimenti quasi impercettibili quella tela, un disegno assai poco gradito ad alcune cancellerie occidentali, alcune delle quali erano arrivate a minacciare la sospensione di ogni aiuto se i comunisti fossero davvero arrivati al governo. Gli assassini delle Br ne erano certamente consapevoli. Le cose poi andarono come sappiamo. Nel 1989 venne giù non solo il Muro di Berlino ma l’intero sistema politico e imperiale sovietico con le conseguenze che abbiamo oggi sotto gli occhi. Come il lettore vedrà, il racconto è completato da una serie di bellissimi medaglioni dedicati ad alcuni dei protagonisti di quegli anni, gustosi anche per l’aspetto narrativo. Ritratti dai quali emergono non solo le fisionomie ma anche gli aspetti del carattere, i gusti, le predilezioni. La cronaca di una giornata a casa De Mita nel cuore del Mezzogiorno sembra una pagina strappata al racconto di un grande meridionalista. Le oscurità insondabili delle manovre di Andreotti, fosse o no mafia, sembrano tratte da un film con Nosferatu.
La cordiale allegria di Pertini, i suoi slanci apparentemente ingenui toccano il loro zenit quando volò a Padova con un aereo militare per riportare a Roma la salma di Enrico Berlinguer: «lo porterò a casa come un figlio», disse. A Craxi che lo rimproverava d’aver fatto guadagnare un paio di punti al Pci nelle elezioni, Pertini rispose: «Quando succederà riporterò a casa anche te». Fondamentali, per capire il carattere e la vera linea profonda di un giornale come Repubblica, le pagine con la cronaca di quanto avvenne nei quasi due mesi del sequestro Moro. Si doveva decidere ogni giorno se pubblicare o no il tal comunicato delle Br, la tal foto di un sequestrato, se si doveva o no cedere alla richiesta di appoggiare la liberazione di alcuni terroristi regolarmente condannati per salvare la vita di un ostaggio. Un tragico ricatto. Non credo che ci siano, in tempo di pace, decisioni più difficili. La calma con la quale Scalfari ne riferisce è la stessa con la quale guidava le nostre riunioni: mantenere al massimo la freddezza del giudizio per cercare di salvare una vita, ma prima ancora per non compromettere gli equilibri e la stessa vita della Repubblica italiana. Negli anni, successivi Scalfari ha più volte ripetuto che di quella “linea delle fermezza” non s’è mai pentito. Per la parte che mi riguarda, nemmeno io. Nelle pagine che seguono il lettore troverà tutte le motivazioni di quella difficile scelta. Gli anni sono passati in fretta e quasi senza fatica, conclude Scalfari: «Li abbiamo vissuti con l’allegria degli affetti e quelli delle opere». Il tempo della memoria è la cifra di questo libro che a mo’ di congedo ha, quasi una dedica, una finale citazione dell’amato Proust.
Simonetta Fiori per la Repubblica (2 articoli)
Alla fine è arrivata, la Regina ha toccato il suo corpo esile, fragilissimo. E lui non s’è fatto trovare impreparato. Pochi come Eugenio Scalfari sono stati capaci di accogliere la morte con altrettanta vitalità. Fino agli ultimi giorni, prima di scivolare in una sorta di torpore, è stato vigile sul suo paesaggio mentale che andava acquistando profondità e colori diversi. E fino alla fine è rimasto un giornalista, un cronista curioso che ci raccontava la sua traversata vegliarda verso un pianeta a noi sconosciuto. «Papà hai paura della morte?», gli chiedono le figlie, Enrica e Donata, nell’ultimo splendido documentario Sentimental Journey . Lo sguardo arriva sereno, quasi non ci fosse bisogno del suo no fermo. Si muore desiderando, diceva. Desiderando di scrivere. Desiderando di amare. Desiderando di essere sempre nelle contraddizioni del mondo. «Sono nato a Civitavecchia il 6 aprile del 1924 alle ore 10.30, all’ultimo piano d’un palazzo costruito nei primi anni dell’Ottocento nella piazza centrale della città». Comincia così il suo racconto autobiografico, con l’austera meticolosità di chi sa che la propria vita – o meglio le tante vite vissute in un’unica vita – è stata un’avventura importante. Un lungo viaggio in cui ha incrociato molte altre esistenze, condizionando innumerevoli destini e anche la storia d’un paese intero. Economista, inventore di giornali, imprenditore, politico, filosofo, romanziere, poeta. In ultimo anche amico del Papa gesuita, lui cresciuto tra le pagine di Diderot e Voltaire. Non tracciava mai un limite, mosso da un’energia che era insofferente ai confini. Tra le sue letture preferite erano i romanzi di Pessoa, lo scrittore del doppio e del multiplo. Anche Scalfari sentiva di essere sempre altro, un’orchestra con le sue armonie e i suoi contrappunti, molti strumenti all’opera, corde e arpe, timpani e tamburi. Guai a inciampare nella monotonia tonale, in contrasto con la vita che deve essere tempesta. Del patriarca aveva l’aspetto fisico oltre che lo stile, la barba bianca che ricordava quella del nonno calabrese e la capacità di tenere insieme uomini e donne caratterialmente diversi. Una qualità che attribuiva al suo ruolo di figlio unico di genitori sì affettuosi ma lontani, la mamma romantica e mite, il padre un meridionale pugnace che aveva aderito all’appello di D’Annunzio a Fiume.
«Fu l’amore per me a tenerli uniti finché vissero. E io feci tutto ciò che potevo per evitare la separazione che avrei vissuto come una catastrofe». Una triangolazione d’affetti decisiva per la sua formazione sentimentale e professionale, della quale avrebbe preso coscienza molto più tardi. «La componente paternale è stata la dominante d’ogni mio tipo di sentimento e di amore per gli altri. L’appartenenza a un progetto comune, la protezione, la felicità che tutto questo poteva procurare, il senso di partecipare a qualcosa che superava i singoli individui, me compreso, ma che aveva in me un motore di avviamento, privo di rivalità e di gelosia». Un patriarca-padre non privo di una componente femminile, accessibile però soltanto agli amici più intimi. Tra gli incontri che ne forgiano l’adolescenza vi fu quello a Sanremo con Italo Calvino, il compagno di banco insieme al quale costruisce una grammatica del pensiero e delle emozioni: in pubblico ne parlava con l’ammirazione che si deve al grande scrittore, nel privato emergeva la complicità maschile di due amici che scoprivano insieme la vita e la sessualità anche negli aspetti più ruvidi. A dividerli furono le diverse scelte verso il regime. Trasferito a Roma nel 1941, Scalfari aveva attraversato il fascismo come molti della sua generazione, nella divisa grigioverde da balilla moschettiere. Quando nel 1943 viene cacciato dal Guf per un articolo scritto suRoma fascistasulla corruzione dei gerarchi, non la prende bene. Ma fu quell’episodio a segnare l’inizio della maturazione antifascista che l’avrebbe portato su sponde ideali molto lontane. Della sua adesione a Mussolini parlava senza reticenze, forse più insistentemente in anni recenti, nel tentativo mai finito di storicizzareun’esperienza che in fondo lo turbava.
Nel dopoguerra arriva il sodalizio con i liberal, l’incontro con i “maggiori”. Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti, padri di giornalismo e di politica. Comincia l’epopea illuminista del Mondo , con le stelle polari di Croce, Luigi Einaudi e Salvemini, tra liberalismo e socialismo democratico. Di giorno si riflette sulla politica e sull’economia, la sera ci si immerge nell’atmosfera sciroccosa di via Veneto, in lini bianchi d’estate e flanelle chiare d’inverno, con la musica di Duke Ellington e il piano bar del tapeur Amerigo dove si balla il charleston e il foxtrot. Il socialismo alla Pellizza da Volpedo non era roba per quel «club di vitelloni con un pizzico snob, di solito longilinei e di solito benestanti ». A Milano frequenta il caffè Cova con il meglio dell’establishment economico e finanziario del dopoguerra. Dal 1949 collabora alMondo , sotto la guida delsulfureo moschettiere Ernesto Rossi. E sull’Europeo tiene una rubrica di economia. È là che inventa il giornalismo economico, genere che non esisteva o meglio era appannaggio di severi cultori della materia. Ne avrebbe attribuito il merito ad Arrigo Benedetti che per tre volte gli cestinò l’articolo: «Ma come scrivi, non ho capito niente!». Bisognava raccontare l’economia con le sue regole e i suoi personaggi, le forze che muovevano il mercato e gli interessi, senza tecnicismi e ragionamenti oscuri. Una lezione che Scalfari apprese istintivamente in poche settimane, impegnandosi nei successivi cinquant’anni a trasmetterne il modello ai suoi redattori. Gli venne naturale anche aderire a un costume di giornalismo libero, attitudine nella carta stampata ancora più rara della capacità divulgativa. Scrisse sulMondo delle malefatte della Federconsorzi, il più potente cliente della Banca Nazionale del Lavoro presso la quale lavorava da un paio d’anni. La reazione fu immediata: trasferimento ad Alghero che equivaleva a un licenziamento. Scalfari non fece una piega: solo ne riferì la notizia nel post scriptum del suo ultimo articolo sulla Federconsorzi, conquistandosi l’ammirazione di Guido Carli e Raffaele Mattioli.
I suoi amici generalmente erano molto più grandi, circostanza che nella stagione dei bilanci l’avrebbe fatto sorridere. «In effetti erano affascinati dal mio candore. E io usavo la mia ingenuità con una certa astuzia. Ero già un seduttore». Anni fondamentali anche per un’altra ragione: a Milano conosce Simonetta de Benedetti, figlia di Giulio, leggendario direttore dellaStampa. Si sposano a Londra nel 1954 e cinque anni più tardi rinnovano le nozze a Roma: un sodalizio affettivo che non si sarebbe mai spezzato fino alla morte di Simonetta, riuscendo ad accogliere anche il grande amore di Scalfari per l’attuale moglie Serena Rossetti, conosciuta a Roma nel 1966. Ad entrambe dedica un libro sul Sessantotto, L’autunno della Repubblica: «Questo libro è dedicato a due persone. Una m’ha insegnato a non farmi corrompere dal potere, l’altra a non disperare della rivoluzione». Di nuovo si riproponeva quel triangolo sentimentale che aveva conosciuto da bambino, anche una doppia vita che sarebbe stata fonte di felicità e di infelicità per le sue compagne e per le figlie Enrica e Donata. Un’esistenza che gli farà dire nelle sue pagine conclusive: «Ho avuto una vita non serena, ma fortunata e felice. Molte ansie e molti complessi di colpa, molta fiducia in me stesso, molto amore verso gli altri unito a un’intensa competitività. Ho dato molto amore e moltissimo ne ho ricevuto».
Intanto nella sua vita è comparso Carlo Caracciolo, il principe biondo che gli fu fratello, in un’amicizia sgombra da competizioni e gelosie. Senza il loro sodalizio, nutrito da complicità maschili e coincidenze ideali, non sarebbe nato l’Espresso. E non sarebbe nata Repubblica. Nell’ottobre del 1955 è il varo del settimanale di via Po, la nave dei liberal italiani. L’idea iniziale era stata quella di un quotidiano nazionalpopolare libero da interessi se non quelli generali del paese. Uno dei pochi imprenditori di cui Scalfari, Benedetti e Caracciolo si fidano è Adriano Olivetti, perché attento ai bisogni collettivi e alla vita della società. Ma Olivetti non se la sente di fare un quotidiano insieme a Enrico Mattei, l’altro imprenditore coinvolto nell’affare, così sfuma il progetto del quotidiano e sopravvive quello del settimanale. Una rivoluzione in edicola, nella veste grafica prima ancora che nel costume e nella politica, «espressione dell’Italia moderna che sognava un paese non più ingessato e baciapile». A chi gli domandava quanto avesse contribuito a cambiare il paese, Scalfari rispondeva: «Io non volevo cambiare l’Italia ma il giornalismo sì. E questa mi pare un’impresa riuscita». In realtà ne beneficiarono anche quegli italiani che si riconoscevano nei suoi valori di democrazia, innovazione, giustizia sociale, legalità, diritti. Epiche furono alcune sue inchieste che smascherarono poteri occulti e il progetto golpista del generale De Lorenzo. E appartengono alla storia del giornalismo le battaglie contro un’imprenditoriaintrecciata alla politica corrotta e al malaffare. La storia della battaglia contro Cefis, nome rappresentativo del ceto padronale colluso, è stata anche la sua storia. E il volume scritto nel 1974 con Giuseppe Turani,Razza Padrona, il simbolo di quella campagna. Alla metà degli anni Settanta si realizza quello che era stato il “primo sogno” di Scalfari, un nuovo quotidiano che può essere finanziato dai lauti profitti dell’Espresso. Nel luglio del 1975, «in una notte di temporale estivo cui seguirono le stelle», Scalfari firma nella villa di Giorgio Mondadori l’atto costitutivo della nuova società editrice. Repubblica prende il mare il 14 gennaio del 1976. Etica pubblica, innovazione, modernizzazione del paese: le coordinate politiche e culturali restano le stesse. Vent’anni di direzione, supportati nell’ultimo periodo anche dall’editore Carlo De Benedetti, lasciano il segno: lo sdoganamento del Pci, incoraggiato nel percorso democratico; l’argine alla minaccia terroristica, le battaglie contro la corruzione e i poteri occulti, le campagne contro il craxismo «incubatore del berlusconismo, la cellula anormale che generò il tumore e le sue metastasi». Scuola di invenzioni giornalistiche, Repubblica, e anche scuola morale. Superando le ottocentomila copie – e in qualche occasione anche il milione – il quotidiano di piazza Indipendenza riuscì nel miracolo di rendere maggioritaria una cultura riformista nata minoritaria. Non si trattava solo di un successo editoriale, disse Scalfari nell’emozionata cerimonia di addio alla redazione. Ma di una conquista civile che andava oltre i profitti.
Nel 1996, a 72 anni, in un’Italia in cui nessuno si dimette e per questo forse un paese stagnante, Scalfari lascia la direzione diRepubblica. «Meglio andarsene prima di essere cacciato», è il principio confessato solo a pochi intimi. Qui comincia un’altra vita, il lungo viaggio dentro di sé che ci avrebbe fatto capire molte cose: sul suo mondo interiore e anche su di noi, la sua famiglia professionale. È la stagione dei saggi filosofici e dei romanzi, dell’incontro con io, della testimonianza diaristica che si rinnova perché la memoria non è un deposito di ricordi congelati nel tempo. Narciso, predatore, allegrissimo anche nel declino. «Io non scrivo, creo», diceva del suo vezzo di dettare a braccio l’articolo, paralizzando i dimafonisti dall’altro capo del telefono. Fino all’ultimo Scalfari ha lavorato, pensato, fatto progetti e battaglie, trasformando la nostalgia in speranza di futuro.
Quando il viaggio volge alla fine, il vero patriarca non cede al pozzo profondo della malinconia ma innalza il livello della sfida. Non fa mistero del suo pensiero della morte, che filtra dai suoi articoli, dalle pagine citate a memoria dei suoi stessi libri o da quelle degli autori prediletti. Gli piaceva molto quel passaggio di Rilke, neiQuaderni di Malte Laurids Brigge, in cui la morte del vegliardo viene celebrata per giorni e giorni, tra ululati di cani, il continuo via vai tra le stanze sontuose del palazzo, un rumore di fondo scandito dal tamburo delle passioni. Nessuna disperazione perché «l’addio alla vita è l’estremo atto di amore di Eros quando ti chiude gli occhi e ti abbandona solo dopo l’ultimo respiro». Sempre dopo, mai un attimo prima. Sul finale di partita è scacco alla Regina.
Simonetta Fiori per La Repubblica
Il giorno della morte è lo stesso che ha festeggiato sempre come un anniversario di famiglia, la presa della Bastiglia, per la quale apriva agli amici l’amato giardino di Velletri. Solo Eugenio Scalfari poteva scegliere di andarsene alle prime ore del mattino del 14 luglio, la data della Rivoluzione Francese e dei droits de l’homme,nella grande casa romana piena di luce in piazza della Minerva, dietro il Pantheon. Anche di recente la Marsigliese era tornata ad affacciarsi nella memoria musicale di Scalfari, che ha affidato al canto le sue fragili energie di vegliardo.
Le ultime settimane ne hanno confermato la tempra del combattente, allegrissimo e innamorato della vita. E anche quando sembrava che il sospiro rallentasse e il soffio vitale pian piano si spegnesse, riaffiorava una canzone a tenerlo legato alla sua personale costellazione di affetti, alla moglie Serena, alle figlie Enrica e Donata.
Nel giorno grande della rivoluzione, a 98 anni ci lascia un grande rivoluzionario che ha cambiato i giornali e, insieme alla carta stampata, la storia d’Italia. E la politica per un momento resta sospesa. Nonostante la minaccia della crisi di governo, nonostante la confusione ormai endemica, un’intera classe dirigente — non solo quella di sinistra, non solo quella laica — rende omaggio a un protagonista che ha avuto lo straordinario merito di far circolare nel paese valori civili legati al progresso e all’innovazione, valori di democrazia, giustizia sociale, legalità, diritti, etica.
A cogliere in tutta la profondità il significato della scomparsa di Scalfari è il premier Mario Draghi, legato al fondatore da un’amicizia personale nutrita da un patrimonio ideale condiviso. «La scomparsa di Eugenio Scalfari lascia un vuoto incolmabile nella vita pubblica del nostro paese», scrive Draghi rievocando il «coraggio delle idee» e la «profondità delle analisi» che hanno favorito per sette decenni la formazione di più generazioni di italiani. E insieme al premier si dicono rattristati la più alta autorità civile, il presidente Mattarella, e la più alta autorità religiosa, papa Francesco, che all’“amico Eugenio” dedica l’emozionante ricordo qui a fianco.
Sulla «passione dell’etica» si concentra Mattarella, che traccia un filo ideale tra le battaglie per il rinnovamento della vita pubblica e le riflessioni più recenti sui temi essenziali della condizione umana. Molti grandi testimoni ne rievocano il ruolo di pungolo svolto a sinistra. «Per decenni», scrive Giorgio Napolitano, «ha seguito con partecipazione l’evoluzione della sinistra italiana, e l’ho sempre sentito vicino nei miei difficili anni da presidente della Repubblica». In Senato Luigi Zanda, amico d’una vita, richiama alla responsabilità chi resta: «È finito un pezzo importante della storia del nostro Paese, e noi dovremmo riflettere su questo salto d’epoca. Il suo lascito più importante va alle generazioni più giovani, perchésappiano prendere sulle loro spalle il destino di un’Italia sempre più integrata all’Europa».
Tra i più giovani, a ricordarlo è l’editore di Repubblica John Elkann, che rivendica un antico legame con il fondatore attraverso la figura di Carlo Caracciolo. «La sua libertà di pensiero e la ferma volontà di rendere l’Italia più moderna e giusta hanno reso possibile un’avventura straordinaria, con il sostegno di mio prozio Carlo Caracciolo e dei tanti colleghi che lo hanno accompagnato per tutta la sua lunga esistenza».
Scalfari è stato fondamentaleper la formazione democratica di molti. E anche nel centro-destra c’è chi oggi depone le armi della battaglia. Tra i suoi nemici politici colpisce il tweet di Silvio Berlusconi, di cui fu pugnace duellante negli ultimi trent’anni di vita. «Eugenio Scalfari è stato una figura di riferimento per i miei avversari in politica», scrive Berlusconi. «Oggi, però, non posso non riconoscergli di essere stato un grande direttore e giornalista». Torna alla mente un’antica assemblea a Repubblica, Scalfari direttore alle prese con la guerra di Segrate, tra il 1989 e il ’91. La proprietà del giornale rischiava di finire nelle mani del nuovo padrone della Mondadori, Berlusconi appunto: per il quotidiano di Scalfari sarebbe stata la fine. Il direttore si presentò davanti a un’assemblea allarmatissima. Era teso anche lui, ma non volle darlo a vedere. A sorpresa ci descrisse una serata di mondanità passata con Berlusconi al pianoforte: «È un uomo molto simpatico, anche divertente. Ma è totalmente estraneo alla cultura democratica di Repubblica.
L’ingegner De Benedetti è certo più serioso, ma con lui siamo al sicuro».
Ma Scalfari non è solo patrimonio dell’élite dirigente. Si accendono le chat dei vecchi colleghi diRepubblica, quelli che hanno contribuito a farla grande sotto la minaccia dei «tre giri di chiglia» (il massimo della pena simbolica minacciata dal comandante della corazzata).
Piange Alberto Bertini, storico capo della tipografia. E piange Sandra Bonsanti, una delle prime valorose inchiestiste che ricorda «il grande cittadino dell’Italia repubblicana» avversa alle mafie. E scrivono i lettori, anche quelli della prima ora, che si formarono sull’Espresso formato lenzuolo.
I funerali si terranno domani alle 10.30 in Campidoglio. Oggi pomeriggio è aperta dalle 16 alle 19 la camera ardente nella sala della Protomoteca. Domani interverranno il sindaco Gualtieri, l’amico Walter Veltroni, il direttore di Repubblica Maurizio Molinari, il direttore della StampaMassimo Giannini, infine Ezio Mauro, il “figlio” prediletto a cui il fondatore affidò il suo giornale. Funerali laici, come da ultimo ha invocato Scalfari che si è sempre dichiarato «non credente». O, meglio, «credente nella vita» e «non credente nell’aldilà». Credeva in quello che aveva fatto e ci ha lasciato, credeva nell’energia che non si spegne ma si rinnova sotto altra specie. E intorno a lui si raccoglierà una comunità grande, per dirgli grazie, ancorauna volta. E per sempre.
Maria Novella De Luca per la Repubblica
Bisogna partire da qui, dalla sua stanza. Al sesto piano di Largo Fochetti, in fondo al corridoio della Cultura, accanto alla stanza di Ezio Mauro. È come se Scalfari fosse appena uscito o da poco entrato, il grande tavolo di vetro, l’autografo di Totò, il sorriso complice con Carlo Caracciolo, le foto la moglie Simonetta. Bisogna partire da qui, lottando con la nostalgia, per ricordarlo, con le “nostre” parole. La “sua” redazione, quella nata nel palazzone di piazza Indipendenza, e le generazioni arrivate dopo, fino ai colleghi più giovani, ancora stupiti di incontrarlo, quando ancora veniva al giornale, accompagnato, sottobraccio, dolcemente, dal suo autista Dario.
In questa giornata sospesa e segnata dal lutto, Fabio Tonacci è alla sua scrivania, in Cronaca Nazionale, da poco è tornato dall’Ucraina. «La prima volta che ho visto Scalfari era su una mensola della mia camera. Mio padre aveva la raccolta di tutti i suoi articoli, “perché Repubblica è un giornale meraviglioso”, mi diceva. Nel 2010 mi sono ritrovato nel giornale meraviglioso. Da qualche parte c’è la stanza di Scalfari, mi dissero. Ma i giganti intimoriscono, fanno volare e lasciano cicatrici. Non ho mai bussato a quella porta. Nel 2020 Scalfari venne in assemblea un’ultima volta. Piegato dalla vecchiaia, era sempre lui: intellettualmente dritto come un fuso, inarrivabile come una mensola appesa troppo in alto».
Ed è sempre la stanza di Eugenio che torna nei ricordi di ieri e di oggi, sospesi tra il sorriso e il dolore, con senso di aver appartenuto e di appartenere a una storia speciale. «Era il 1984 – racconta Daniele Mastrogiacomo, uno dei giovanissimi di piazza Indipendenza - fui mandato dalla Cronaca a fare un servizio su uno sciopero dei medici al Policlinico. Avevo appena finito di scrivere e ricordo distintamente la voce di Scalfari nell’interfono: mandatemi il cronista del pezzo sui medici. Entrai e il direttore, guardandomi, buttò il mio pezzo nel cestino. E mi spiegò per filo e per segno perché quell’articolo era sbagliato: non avevo spiegato le ragioni politiche di quello sciopero, cosa c’era dietro quella protesta. Riscrissi tutto daccapo e non ho più dimenticato quella lezione».
Essere coscienti di un’avventura irripetibile. Di far parte di un giornale che aveva un’anima diversa da tutto. Giuseppe Smorto, a lungo a capo dello Sport poi del sito di Repubblica, dice, addirittura, «anche 40 anni dopo continuo sognare il Direttore ». «Parla di un titolo, di un’inchiesta, del giornale che ha chiuso troppo tardi. Sta dentro di noi, specialmente quelli cresciuti in via dei Mille, un padre, un maestro».Dario Olivero, oggi capo della Cultura, esponente della “nuova generazione”, smussa la nostalgia con l’ironia. «Ezio Mauro voleva che dirigessi la Cultura, mi convocò dicendomi: “Prima devi passare da Eugenio, ti vuole conoscere”. Andai nella sua stanza, intimidito e incuriosito. Scalfari fu gentilissimo, mi offrì una sigarettae parlammo di Shakespeare. Dopo una citazione dall’Enrico V, capii che l’esame era passato». Ed è infatti con una frase di Shakespeare «vi lascio il rosmarino per i ricordi, le viole per i pensieri» che il 3 maggiodel 1996 «dopo vent’anni, tre mesi e due giorni» Scalfari cede il posto a Ezio Mauro.
Commosso il ricordo di Laura Laurenzi, anche lei entrata giovanissima a Repubblica. «Ho sempre pensato che Scalfari avesse un grande carisma, un po’ libertino. All’inizio mi metteva persino soggezione e faticavo a dargli del tu. Ma rapidamente mi fu chiaro quanto fosse importante per lui il senso dell’umorismo, il suo e quello altrui, se non ridere quanto meno sorridere. Non credo ci sia stato un direttore che abbia valorizzato così tanto le firme femminili.
In una riunione che lui chiamava “Messa cantata” annunciò che stava per affidare un’inchiesta molto complicata a Miriam Mafai: “Siccome è un pezzo difficile voglio che lo scriva una donna”».
Alessandra Longo, a lungo firma del Politico: «Aveva la straordinaria capacità di far sentire tutti importanti. Anche gli ultimi arrivati potevano ricevere idealmente da lui il “bastone del maresciallo”. Complimenti e alzate di sopracciglio. Tutto scolpito nella pietra. Siamo stati molto fortunati ». Silvana Mazzocchi: «Mi ha insegnatoche il giornalismo è anche passione. Che è necessario avere il coraggio dell’anticonformismo e che bisogna rischiare per informare ». Carlo Bonini, vicedirettore di Repubblica: «Porterò sempre con me le risate cristalline, come di un bambino, con cui alle sei del pomeriggio del sabato Eugenio interrompeva e giocava con il discorso che intrecciavamo al telefono e gli leggevo il titolo scelto per il suo editoriale. Un rito che trasmetteva fisicamente il senso di appartenenza a questa casa».
Marco Ruffolo, già capo dell’Economia: «Dopo la vendita del pacchetto azionario dell’Espresso a Carlo De Benedetti, scrissi una lettera a Scalfari dolendomi del fatto che con quella cessione finiva il doppio sogno di un editore puro (Caracciolo) e di un direttore comproprietario del proprio giornale (Scalfari stesso). Subito dopo avergli inviato la lettera, mi pentii di questa mia iniziativa forse troppo ardita e inopportuna. Temevo una sua risposta dura, o peggio ancora il più assoluto silenzio. Non fu così. Mi arrivò una sua lunga lettera nella quale mi spiegava i motivi di quella scelta: senza quella vendita, Repubblica semplicemente non sarebbe sopravvissuta. Concluse ricordandomi affettuosamente che l’indipendenza di un giornale sta nella tenuta etica e nella capacità professionale dei suoi giornalisti, a cominciare dalla figura del direttore».
Marco Patucchi, vice caporedattore degli Interni: «Lui non c’è più, ma continuerà a vivere in tutti noi e nelle generazioni successive di giornalisti alle quali, mentre Repubblica cambiava pelle, abbiamo trasferito la storia e l’anima del giornale».
Marco Ruffolo per la Repubblica
Entrare nell’ufficio centrale di Repubblica durante la riunione del mattino dopo aver firmato un pezzo importante di economia significava non di rado sottoporsi a un autentico esame, durante il quale Scalfari risfoderava le sue origini di esperto giornalista economico. Che fosse il racconto dello scandalo Italcasse o quello della tangente Eni-Petromin, che fosse la ricostruzione di come le forze politiche si erano spartite le nomine bancarie o il retroscena di una delle tante svalutazioni della lira, una cosa era certa: quanto più forte era la critica che si voleva rivolgere al potere economico di turno, tanto più preciso nella ricostruzione dei fatti e chiaro nell’esposizione doveva essere l’articolo. Come erano le sue inchieste. Che cominciavano quasi in sordina e poi salivano di tono in una specie di crescendo, mettendo pazientemente i fatti uno dopo l’altro, seguendo un itinerario lineare anche nella sua complessità. Senza indulgere in metafore distraenti o in barocchismi autocompiaciuti, usati a volte – diceva – solo per nascondere la carenza di notizie o per dar sfogo al proprio esibizionismo.
Esigeva da tutti precisione e chiarezza, ma non “oggettività”, nel senso ambiguo di imparziale equidistanza. Una volta qualcuno gli chiese cosa significasse per lui quella parola. E lui tirò fuori dalla sua mazzetta di quotidiani l’Unità : quello era il giornale più oggettivo d’Italia, perché sotto la sua testata c’era scritto “organo del Partito comunista italiano”. «L’oggettività – spiegava a noi giovani giornalisti – è dichiarare subito ai lettori il proprio punto di vista, la particolare angolazione da cui si guardano i fatti». Fatti che tuttavia vanno capiti fino in fondo prima di essere interpretati. Pressapochismo e sciatteria cadevano regolarmente sotto i suoi strali nella riunione mattutina, marchiati dall’espressione «abbasso» seguita dal nome del responsabile di turno. Al quale magari il giorno dopo veniva riservato un «viva» come ricompensa per una più precisa ricostruzione dei fatti.
Lo faceva ridere di gusto un episodio che gli aveva raccontato il grande economista Paolo Sylos Labini: di fronte a uno studente che durante l’esame aveva presentato come argomento a piacere la teoria del valore di Marx spiegandola malamente e anche con una certa presunzione, Sylos, tra lo stupore generale, aveva cominciato a solfeggiare a voce altissima: “do-o, re-e”. Quindi si era rivolto allo studente: «Lei vuole suonare Beethoven, ma prima deve imparare il solfeggio: do-o, re-e». E lo aveva mandato via. Ecco, anche nel giornalismo, soprattutto di fronte a materie tecniche come l’economia e la finanza, Scalfari esigeva la conoscenza di un minimo di “solfeggio”.
I rudimenti della finanza li aveva appresi a Milano con il suo primo impiego all’ufficiocambi della Bnl. Impiego che gli stava decisamente stretto e che non gli impediva di coltivare il crescente interesse per il giornalismo economico, con le inchieste che gli pubblicavano nel frattempo ilMondo di Mario Pannunzio el’Europeo di Arrigo Benedetti. E proprio una di quelle inchieste – sulle malefatte della politica degli ammassi della Federconsorzi – gli era costata una bella lettera di licenziamento, essendo l’associazione guidata dal potente Bonomi un grande cliente della Bnl. Da lì in poi Scalfari avrebbe cercato di mettere in pratica quello che era per lui l’obiettivo centrale del giornalismo indipendente: “controllare il potere”. Anzi, qualcosa di più: erigersi a “contropotere”. «Noi – amava ripetere – ci dobbiamo sentire come i primi libellisti del Settecento, come Jonathan Swift, che sezionava senza pietà le miserie della nascente rivoluzioneindustriale». Con lo stesso spirito, Scalfari aveva sezionato, dalle pagine dell’ Espresso , l’ascesa della “razza padrona”, quel kombinat politico-burocratico-industriale che avrebbe trasformato l’industria pubblica da motore propulsivo della crescita (quale era stata durante il boom) a strumento di spartizione clientelare e di saccheggio delle casse dello Stato. Tanto la sua sfida solitaria a Cefis e al suo sistema di potere, con l’assalto alla Montedison (sfida costruita insieme a Peppino Turani) quanto quella successiva lanciata dalle pagine di Repubblica a Berlusconi, erano sorrette da una accurata conoscenza delle basi finanziarie oltre che politiche su cui quei due personaggi avevano costruito le loro fortune.
Non è un caso, dunque, che l’economia abbia avuto sempre un peso fondamentale nelle pagine del quotidiano fornendo una chiave interpretativa di fatti politici che per molto tempo gli altri giornali hanno stentato a comprendere. Avvalendosi della competenza di Mario Pirani, con la sua squadra proveniente dal Globo , Scalfari aveva dato subito l’idea che il giornalismo economico non sarebbe stato più relegato in angusti spazi per addetti ai lavori, ma avrebbe fornito il filo conduttore, fino a quel momento mancante, al racconto del nostro Paese, dichiarando subito, inoltre, il proprio sistema di valori: un liberalismo di sinistra fondato sul motto dei fratelli Rosselli “giustizia e libertà”.
Liberalismo ma non liberismo, con lo Stato tutt’altro che neutrale e indifferente ma chiamato invece a raddrizzare squilibri e a rafforzare il welfare, senza però trasformarsi – come invece stava accadendo – in una macchina distributrice di favori assistenziali a clientele e corporazioni. Aver spiegato prima degli altri come stava degenerando l’Italia della super-inflazione e del super-debito resta il merito primario della scuola di giornalismo economico nata e cresciuta a Piazza
Michele Serra per la Repubblica
L’ultimo gigante del giornalismo classico se ne va, quasi centenario, trascinando con sé, come una grande nube bianca e nera che scompare all’orizzonte, il suo mondo di carta e di inchiostro. In quel mondo, che è irripetibile per ragioni tecniche e culturali, le une inestricabili dalle altre, un giornale quotidiano voleva e doveva essere, ogni mattina, il riassunto ragionato della vita pubblica di un Paese e del suo popolo; con una implicita funzione di orientamento politico.
Non è esagerato dire che nella seconda metà del Novecento una persona si autodefiniva anche a partire dal quotidiano che portava ripiegato in tasca. La politica vi era sovrana incontrastata. Era la scienza inesatta, eppure non rimpiazzabile, grazie alla quale, anzi dentro alla quale, le generazioni passate discutevano della conduzione della Polis e dunque del proprio destino.
Non si osava dire “politica”, al tempo di Scalfari, senza che la parola mettesse una certa soggezione, perché rimandava a una disputa intellettuale, ideologica e anche filosofica. Non che – già allora – la politica non fosse anche basso maneggio, espediente di potere, raggiro della buona fede popolare. Delle grandi inchieste sul malaffare e la corruzione Scalfari non solo aveva contezza; ne fu, specie negli anni dell’ Espresso , uno dei più implacabili artefici. Eppure non si metteva mai in dubbio – se non nella ciancia volgare e disfattista, che non era considerata vero giornalismo anche se arrivava nelle edicole – il valore profondo della politica. Che era, appunto, una discussione sul destino degli uomini; oppure non era.
Lui fu tra i grandi interpreti di quel copione novecentesco, si confrontava da pari a pari con i grandi capi dei partiti di massa e anzi, forse furono loro a dover temprare idee e parole per sostenere il confronto con quel signore eloquente e solenne (tra le numerose frecce del suo arco non c’era la leggerezza) che quando parlava di politica mirava in alto, quasi per allenare il tiro ai bersagli celesti della sua senilità.
Ma la lezione davvero preziosa, forse il vero lascito di Scalfari, è che questa intransigente pratica verbale e intellettuale è stata seguita con passione, quotidianamente, per decenni, da milioni di persone, contraddicendoclamorosamente il pregiudizio, oggi furoreggiante, sulla distanza incolmabile tra intellettuali e popolo, tra élite e bisogni sociali (essendo l’informazione, senza dubbio alcuno, un bisogno sociale: oggi come prima e forse più di prima).
Eugenio Scalfari, lo Scalfari che citava i filosofi greci e gli illuministi francesi, è stato un uomo popolare, come del resto il ristretto novero delle grandi firme del secondo Novecento, da Montanelli a Biagi a Fallaci a Bocca. Ben prima che le apparizioni televisive ne rinforzassero la fama (e anche la diluissero…), bastavano i giornali e bastavano le edicole, tempietto laico, molte anche nella forma architettonica, a costruire la popolarità degli editorialisti, dei grandi inviati, dei direttori. I giornali vendevano molti milioni di copie, non sospettando che la solida diarchia con la televisione sarebbe presto stata travolta dal digitale e dal web, dalla destrutturazionedell’informazione in una nebulosa sempre vitale, non sempre autorevole, dalla quale, almeno in questa lunga fase di transizione, non sembra poter sortire una leadership riconosciuta come fu quella degli Scalfari e dei Montanelli. Si spera dunque nel futuro.
Repubblica nacque, per prudente calcolo, come quotidiano incompleto, selettivo e riflessivo, quasi un lusso per l’opinione pubblica più irrequieta e più esigente. Ma quel vascello leggero diventò, in pochi anni, una corazzata. Come un piatto “stellato” che diventa pietanza popolare, pane quotidiano. Neppure i più stretti collaboratori di Scalfari sanno dire con certezza se quel clamoroso salto fosse in qualche modo messo in preventivo, o almeno sperato, dal fondatore. Quello che possiamo dire, alla luce dell’accaduto, è che la tetragona fiducia di Scalfari nella sua qualità intellettuale (il suo non dissimulato ego, tanto trattato e meditato negli ultimi libri) si è tradotta in atto di fiducia, e di contagio, nella qualità intellettuale dell’opinione pubblica, o almeno di una sua larga parte. Scalfari, senza i suoi tantissimi lettori, è impensabile: eppure uno dei grandi meriti – e privilegi – del suo giornalismo fu non porsi mai, nemmeno per un attimo, il problema di “come piacere ai lettori”, modulando i toni e magari abbassando il tiro.
La facilità, direi quasi l’automatismo, con cui un uomo così ambizioso e così esigente, incapace di qualunque ruffianeria o semplificazione per ingraziarsi il pubblico, è diventato uno dei più popolari e amati (o quantomeno rispettati) giornalisti italiani, ci dice molto, anzi moltissimo, sulla qualità come eterno motore delle attività umane. Le persone giovani che hanno il compito, e direi il dovere, di progettare l’informazione del futuro, che non può essere più la stessa perché il mondo cambia e con lui cambiano i linguaggi, lo scenario sociale, il mercato delle idee, riflettano sulla straordinaria avventura intellettuale di Eugenio Scalfari, che in virtù della fedeltà a se stesso e al proprio mondo di libri e di idee – un mondo apparentemente ristretto – è riuscito a diventare amico di milioni di lettori. Sempre in piazza, come un filosofo antico, a conversare con i concittadini come se i concittadini fossero tutti, per principio, per fede nella democrazia, perfettamente all’altezza di qualunque conversazione.
Alberto Melloni per la Repubblica
La storia della cultura italiana è piena di pretume a caccia di anime famose avviate dall’anagrafe sulla soglia dell’eterno: cacciatori di prediche, più che pescatori di uomini, che applicavano un principio della apologetica intransigente. Quello che dava appunto ad una capitolazione in articulo mortis un valore apologetico, quasi una dimostrazione di potenza. Rispetto a costoro Eugenio Scalfari era una “preda” inarrivabile.
Scalfari il “laico” come dice il nostro sfocatissimo linguaggio, reso consapevole da una meditazione filosofica alta. Scalfari il “non credente”, come lui stesso diceva, che usava quel non con una consapevolezza e una serietà che spesso manca a chi si dichiara “credente” senza avere quella pudicizia che è propria di chi sa di cosa sa parlando. Scalfari, però, che “questionava” la fede e si lasciava questionare cercando da un vita un interlocutore, in fondo con poco successo.
Due grandi porporati ebbero infatti con lui un dialogo di intensità diversa: Carlo Maria Martini e Camillo Ruini. Con loro il dialogo non scosse una convinzione, che talora diventava stereotipo: e cioè almeno che tutto ciò che era cristiano e cattolico, doveva non poteva che essere ottuso, perché poggiato su una convinzione “assoluta” e un adesione ad una verità rivelata, immobile, sorda al richiamo della modernità.
Non poteva scuoterlo Martini. Il cardinale di Milano, a torto ritenuto simile a Bergoglio, i non credenti li metteva in cattedra. Ma per uno scopo nobilmente “strumentale”: far risuonare la loro corda così da far vibrare quella che nell’esperienza di fede trasforma la monodia agnostica nella polifonia dello spirituale. Quella sua intensità principesca nell’ascolto li toccava e li seduceva: rompeva una parte del luogo comune che vedeva nei cristiani degli apologeti della cristianità. Ma alla fine lo avvalorava perché presentava quel suo modo di porsi come una rarità non replicabile, una eccezione che confermava la regola. Non poteva scuoterlo nemmeno Ruini. Il cardinale che ha espresso e dominato la chiesa italiana per un ventennio, cercava in Scalfari anche un interlocutore “teologico”: si lasciava volentieri interpellare sui dogmi della fede e poteva, almeno con lui, far sfoggio dei suoi studi tomisti. Ma alla fine era chiaro che la incolmabile distanza fra quelle astrazioni dottrinali e la politique d’abord che ne segnava la quotidianità nell’Italia che scivolava nell’anomia berlusconiana non interpellava alcunché.
E alla fine è arrivato Bergoglio: le nove pagine di risposta a un suo articolo, il dialogo a quattr’occhi a santa Marta e la scoperta di una cosa che un grande italiano nonagenario, che aveva scrutato l’Italia dalla tolda di una ammiraglia della informazione, in un rapporto stretto con tante figure e tante notizie, poteva dire di aver visto per la prima volta: il cristianesimo. Il cristianesimo di Bergoglio ha fatto cambiare idea a Scalfari non sul suo rifiuto della fede religiosa, ma sul cristianesimo di chi una fede ce l’ha e la custodisce come un dono e non la usa come un randello. A più riprese Scalfari ha raccontato la storia di un rapporto nato per iniziativa di Bergoglio: suprema astuzia del padre gesuita? No: discernimento del vescovo di Roma. Che si è scelto un interlocutore non credente che gli desse sufficienti garanzie di non capitolare e col quale parlare a coloro ai quali non parla la caritas in veritate ,ma solo la veritas in caritate . Un incontro in cui Scalfari ha agito come al solito: pubblicando una intervista nella quale non c’era tutto quello che Francesco gli aveva detto e c’erano cose che Francesco non gli aveva detto, ma che gli sembrava rendessero il suo pensiero.
Per la prima volta in vita sua, in uno scrupolo, aveva mandato il testo al Papa perché lo leggesse: cosa che il Papa s’era ben guardato dal fare. Convinto, giustamente, che se ci fosse stata qualche forzatura del suo pensiero, qualche equivoco sulla questione del giudizio soggettivo della coscienza, poco contava.
Quel che contava infatti non era far magistero dalle colonne diRepubblica – il Papa il suo magistero lo fa come, dove e quanto vuole – Il punto era che questa antenna sensibile della cultura italiana facesse capire a chi non ascolta, con buon diritto, la predicazione del vangelo di Francesco, che la verità cristiana non è un monolite kubrickiano ma una relazione viva e vitale con Gesù. La scoperta che il solo modo di alzare gli occhi all’onnipotente è lasciare che il crocifisso ti porti ad alzare lo sguardo tracotante allo zenith del demone che toglie l’ombra di torno al potere sacralizzato; né sul filo dell’orizzonte tremolante del tramonto della ragione in attesa di qualcosa ma a quell’altezza della croce, nella cui umiliazione passa la rivelazione del mistero di Dio anche per le genti.
Scalfari ha accettato questo dialogo e ha fatto la scoperta d’una relazione in cui non c’era l’esigenza di stupirlo o di usarlo, ma il desiderio effettivo e reale di ascoltare un uomo pensoso gratuitamente. Questa scoperta ha modificato il linguaggio di Scalfari, che di nessun Papa aveva mai detto “Sua santità” con una intensità non protocollare. Ha modificato i ritmi di scrittura di Scalfari che a Francesco ha dedicato molte riflessioni, facendo del suo laico sermone domenicale uno strumento per continuare a distanza una amicizia degna di questo nome. E ha modificato la convinzione che citavo all’inizio: perché il Papa gli ha detto – lo ricordava qualche sera fa in un colloquio all’Eliseo con il segretario generale della Cei, monsignor Nunzio Galantino – che la sua convinzione non assolutista, ma consapevole e convinta del relativismo nella verità, era la stessa convinzione con cui un cristiano sente in modo consapevole e convinto la verità come relazione.
«Mi hanno detto di stare attento, perché parlando con lei finirà per convertirmi»: così Eugenio Scalfari raccontava di aver confidato a Francesco.
Il Papa gli aveva risposto di star tranquillo che non era possibile convertirlo, anche perché lui aveva bisogno di un ateo con cui parlare. E se si fosse convertito, dove andava a trovarne un altro così? Il giudizio papale era vero in entrambe le parti.
Antonio Gnoli per la Repubblica
E ugenio Scalfari è stata una figura singolarissima della storia italiana. Al di là dello straordinario lavoro nel giornalismo si aggiunse negli anni una vera e propria passione letteraria e filosofica. Non fu cosa tardiva né dilettantesca, ma un attraversamento ostinato e profondo che lo accompagnò fin dagli anni del liceo: da quella Sanremo dove aveva condiviso alcune esperienze intellettuali con il compagno di banco Italo Calvino. Ho l’impressione che quel sodalizio, poi interrotto e ripreso nel periodo della maturità, sia stato anche filosoficamente stimolante.
Se dovessimo, con qualche necessaria approssimazione, guardare al rapporto di Scalfari con la filosofia dovremmo ritagliare tre momenti fondamentali: la relazione con Benedetto Croce; il rapporto denso e proficuo con l’Illuminismo; la scoperta di Nietzsche. Le tre fasi corrisposero a diversi momenti della vita di Scalfari: ma furono soprattutto lo storicismo di Croce e l’apertura illuministica all’idea di ragione e di progresso a imprimere alla sua azione giornalistica una chiara spinta liberale e riformista. Non si capirebbe pienamente l’esperienza al Mondo di Pannunzio e di Ernesto Rossi e poi il sodalizio con Arrigo Benedetti (la fondazione dell’Espresso) e infine la nascita di Repubblica, senza la presenza di questo sfondo politico e culturale. Quanto a Nietzsche, approfondito negli anni della maturità, condivise la critica ai grandi sistemi filosofici, ormai incapaci di fondare o rivelare verità ultime.
Un punto comune ai tre momenti è senz’altro lo stile. Scalfari ha “mimato” la bellezza classica della lingua di Croce; ha interiorizzato quella scintillante e paradossale di Diderot; per poi acquisire il gioco aforistico e frantumato della lingua di Nietzsche. Il risultato è chiarezza di pensiero accompagnata dal dubbio e da una certa dose di provocazione intellettuale.
Tutto il percorso intellettuale di Scalfari avvenne sotto il segno dell’Io: una lunga, profonda, a volte tormentata e infine malinconica discesa nella profondità del soggetto, tra psiche, mente e ragione, ha reso il suo viaggio qualcosa di insolito. L’“Io” scalfariano era debitore della grande avventura di Ulisse, primo e involontario eroe della modernità, e di Montaigne nella cui riflessione colse i primi veri tormenti della ragione e l’insofferenza verso un sapere chiuso e sistematico. Se non si iniziasse da questa constatazione difficilmente si capirebbe l’importanza che il pensiero di Nietzsche avrebbe progressivamente assunto nella riflessione scalfariana. Quale Nietzsche privilegiò? Le sollecitazioni furono diverse. Dalle prime furtive e dannunziane letture giovanili di Al di là del bene e del male e Così parlò Zarathustra, egli giunse alla scoperta della complessità e contraddittorietà del pensatore tedesco. Tanto da farne il testimone più autorevole del passaggio dal diciannovesimo al ventesimo secolo. Ovvero su quegli anni che furono tutto «un susseguirsi di eruzioni vulcaniche del pensiero, una serie di terremoti che abbatterono una dopo l’altra le colonne che da due millenni re ggevano il tempio della sapienza occidentale». Se ne deduce che l’impostazione di certe pagine filosofiche – da L’uomo che non credeva in Dio fino a L’allegria, il pianto, la vita – non è riducibile alla puerile pretesa di fornirsi di un sistema che tutto inglobi e spieghi. Scalfari fu ben consapevole che i grandi scenari, o narrazioni filosofiche (fatta salva forse la lettura avvolgente che diede di Spinoza), erano stati in larga parte terremotati dalle forze che avevano agito sulla faglia irrazionalistica del Novecento e su quella crisi della ragione che avrebbe trovato numerosi testimoni tra le due grandi guerre mondiali. Dunque nessunapacata tranquillità illuministica, nessuna inclinazione metafisica di immobilizzare la ragione si troverà in un pensiero che consegnò a Nietzsche non già il volto del nichilismo ma quello di colui che, distruggendo i valori della metafisica, si poneva il problema del loro necessario superamento.
Se dovessimo collocare la riflessione scalfariana in un punto preciso della contemporaneità vedremmo un uomo che desta ammirazione per la forza coinvolgente con cui seppe usare il timbro di una certa classicità e al tempo stesso sorprenderci per la distanza che egli stabilì da quegli argomenti che la tradizione classica pretese di rendere definitivi. Ogni passaggio, o ipotesi di mutamento, parve viverlo nella mobilità eraclitea piuttosto che nell’immobilismo parmenideo. «Inquesto universo di stelle danzanti (le stelle nicciane per intenderci)», scrisse, «Eraclito detronizza Parmenide, l’essere fluisce nel divenire, il senso si recupera nell’azione, cioè nella vita; la morale coincide con la responsabilità e con la sopravvivenza degli altri, senza i quali il misero animale “io” non potrebbe sussistere. E Dio non è morto: c’è finché qualcuno lo guarderà. Perciò ci sarà sempre». Ma non credere in Dio e ammetterne la presenza, non fu in fondo come guardarlo agire sulla scena di un teatro? Percepirlo più simile a una finzione che a una realtà sovrastante? Dio, insomma, non era morto, ma continuava a svolgere una recita, a interpretare il copione che l’uomo gli aveva assegnato. Quel Dio, va sottolineato, non è mai stato fideisticamente presente nel credo di Scalfari, ma egli non ne sottovalutò mai il peso, l’importanza, l’efficacia, non solo teologica. Semplicemente lo collocò fuori dal proprio sentire più intimo. Senza per questo rinunciare alla forza del dialogo, prima con il Cardinal Martini e in seguito con papa Francesco.
È importante cogliere nella sua riflessione laica il modo in cui la vita e la morte – temi che nel tempo ha fortemente accentuato – siano state affrontate al riparo dalle scommesse della fede e della teologia. Da questo punto di vista, i suoi libri, e le sue poesie finali, possono anche essere letti con un preciso richiamo ad Hannah Arendt: non vi è vera filosofia che non sia in qualche modo legata alla dignità della nostra esistenza. Che è tale perché sempre aperta al gioco e alla tensione del dialogo.
Sono convinto che la filosofia di Scalfari non sia riconducibile a nessuna scuola particolare. Essa è stata prevalentemente nomade e si è nutrita anche di letteratura: da l’Odissea alla Recherche di Proust fino ai Quaderni di Malte Laurids Brigge di Rilke. Le sue incursioni nel mondo antico nascevano dal bisogno di comprendere il canone occidentale. Ma fu in Proust e in Rilke che egli ritrovò il senso della propria inquietudine filosofica e letteraria. In modi assolutamente diversi essi sconvolsero quel canone, riscrivendone, ciascuno dal proprio punto di vista, la forma. Se Ulisse fu in un certo senso centrale in Incontro con Io, Proust e Rilke lo divennero, anche se non esplicitamente, nel Labirinto, il primo tentativo di Scalfari di dare una forma romanzata ai propri pensieri. In quel libro di antica postura araldica – dove girovaghi, avventurieri e aristocratici danno vita a una pantomima filosofica – si cela il vero enigma della morte. Che Scalfari nel romanzo chiamò “Regina”. Essa arriva una sola volta «ti tocca la spalla e il labirinto scompare insieme a te. Così tutto finisce e tutto ricomincia, morte e rinascita seguono un percorso che è eterno perché è circolare». Alla fine della sua lunga vita Scalfari seppe guardare alla “Regina” con rispetto, ma senza alcun timore reverenziale. Senza recedere in quel buio dove il nulla tutto inghiotte.
Maurizio Molinari per la Repubblica
«Repubblica è nata per guidare le riforme, in Italia ed in Europa ». Con queste parole Eugenio Scalfari mi ha accolto alla direzione del giornale che ha fondato e da allora ogni nostro incontro lo ha visto impegnato a condividere le ragioni ed i valori del suo impegno per Repubblica . Adoperandole come chiave di lettura per comprendere e commentare assieme fatti di cronaca, personaggi della politica, eventi internazionali. «Ho sempre creduto in un socialismo liberale, capace di unire eguaglianza e riformismo» mi ha spiegato in più di un’occasione, sottolineando l’importanza che il giornale da lui immaginato, fondato e poi diretto resti sempre «in prima linea nel guidare il Paese e l’Europa in questa direzione». L’idea di affiancare in prima pagina i nostri articoli domenicali è nata dalla volontà di un confronto continuo, su ogni tema – ed in ogni possibile orario – per sovrapporre «radici ed orizzonti del lavoro che ci accomuna».
Era per lui una maniera di continuare ad essere, anche fisicamente, nellasua redazione. Questi incontri, a casa sua o in redazione, sono stati per Scalfari l’occasione per trasmettermi «l’importanza» e «la responsabilità» di «battersi per le riforme» come approccio strategico ad un mondo in rapida trasformazione. Senza mai aver paura di osare. «Non fermarti per resistenze e ostacoli, ci sarà sempre chi te li metterà davanti – ripeteva – perché ciò che conta è fare ogni giorno il giornale più bello, ricco, vitale». Fra costante curiosità sulle nuove tecnologie digitali, passione per le trasformazioni dell’Italia e attenzione all’orizzonte europeo, parole e pensieri di Scalfari mi hanno fanno conoscere forza ed energia di un giornale nato per «innovare e non conservare», per «sfidare i tabù» e «non difendere le ideologie», per guardare «in avanti e mai indietro». Con una costante attenzione al dialogo fra laici e cattolici, tessuto indispensabile della democrazia repubblicana. L’eredità che ci lascia è quella di un pensiero sempre aperto a cogliere le novità e di un’azione tesa a riformare il Paese, unite dalla passione per confezionare ogni giorno un quotidiano di qualità.
Francesco Merlo per la Repubblica
Cos’è lo scalfarismo? Comincia oggi, nel primo giorno di lutto, il gioco degli eredi che, secondo Eugenio, portava male perché ai cloni, che già con una tempesta di aneddoti ne raccontavano l’epica, preferiva gli avversari, «la gente con cui ci si intende quando ci si morde», e «solo da morto smetteranno di mordermi e io smetterò di mordere».
Ma cos’è lo scalfarismo? Sicuramente è la forza dell’impegno e la leggerezza dello stile. Ma è anche il carattere fermo che gli italiani non hanno. E, perché no, è la cultura liberale e libertina lontana dai sermoni di sacrestia e dalle scuole-quadri gramsciane. E non è forse anche il giornalismo come gioco d’azzardo, l’articolo di fondo come serissima gara ad alto rischio? Solo da morto, ci disse, l’aggettivo “scalfariano” prenderà il suo senso. E ce lo disse alla fine di un lungo pomeriggio quando, dopo avere attinto alla sua memoria come le donne che nella Civitavecchia della sua infanzia, da un lato il mare e dall’altro la Chiesa, attingevano coi secchi alla fontana, ci arrendemmo, Antonio Gnoli e io, al cazzeggio intelligentee acuto che è, ça va sans dire , “scalfarismo”.
Ci mettemmo perciò a quantificare lo scalfarismo nei vivi e nei morti: noi facevamo il nome, ed Eugenio lo calava nell’Ordine delle Somiglianze, uno scandaglio delicato e sensibilissimo, uno strumento di ri-conoscenza, lo scalfarismo come arché del giornalismo italiano proprio come il ritratto di Antonello a cui tutti i ritratti somigliano.
Cos’è dunque lo scalfarismo? Forse è un’idea d’Italia sempre minoritaria ma irresistibile. O forse è il romanzo italiano del secolo di carta. Oppure è la felicità dell’intellettuale in un Paese in cui gli intellettuali sono tutti infelici ed è la cosa che, nei nostri pomeriggi insieme, abbiamo desiderato di capire più di ogni l’altra: la sua felicità, misteriosa e irraggiungibile. «Vorresti vivere per sempre?» gli chiedemmo una volta, sicuri che ci avrebbe risposto come rispondono tutti: «L’idea mi riempie di orrore». E invece lo scalfarismo era anche la voglia del “fine vita mai”, del testimone eterno, della vita da scrivere e soprattutto da far scrivere, dello spettatore-partecipe come nel Globe Theater di Shakespeare, il teatro rotondo dove attori e pubblico si scambiavano le parti senza mai confondersi. E ditemi se non è stato anche questo lo scalfarismo, il lungo addio dell’attore e inventore di un’Italia dalla quale neppure la malattia riusciva a strapparlo. Ottimista sino all’ultimo respiro, avrebbe voluto uscire di scena ballando con Angelica Sedara, come il principe di Salina che «dopo il ballo si avvia per una strada buia e scompare. E porta con sé la nobiltà, la saggezza, la prudenza, l’autorevolezza, il potere come visione del bene comune». In una parola sola porta con sé lo scalfarismo.
E ci aprì il suo armadio come la porta per entrare nel mondo di Narnia, avventure e conoscenze fatte di stoffa, completi da pioggia, velluto a coste gialle, indumenti da gentiluomo di campagna…: lo scalfarismo era l’eleganza divertente e divertita, la vignetta di Forattini in prima pagina accanto alla coltissima prosa di Citati, la contaminazione dei generi che aveva ereditato dal padre e dal suo casinò di Sanremo, lo scopone scientifico e Pietro Mascagni, Benedetto Croce e lo smoking bianco, Italo Calvino e lo smoking nero. “Il pensiero danzante” chiamava Scalfari lo scalfarismo.
E frequentando l’Ordine delle Somiglianze scoprimmo che non solo lo scalfarismo era il mondo suo che divenne nostro, ma che in Italia non c’era giornalista che non si era fatto scalfariano, tutti come lui cacciatori di dettagli fuori mano e fuori scena per raccontare l’epoca. Con lui finì anche la grande ipocrisia dei fatti separati dalle opinioni. E a destra e a sinistra tuttisi misero a raccontare l’economia, la famosa scienza triste, come il teatro di Goldoni. In pochissimo tempo i giornalisti italiani si divisero in due grandi categorie: quelli che lavoravano con Scalfari e quelli che volevano lavorare con Scalfari. E “mi vuole Scalfari” divenne quel che nel teatro era stato “mi vuole Strehler”. Al punto che lo scalfarismo fu persino la risorsa contro… lo scalfarismo.
Difatti ilCorriere della Sera riprese il suo primato in edicola quando a dirigerlo Gianni Agnelli chiamò un direttore scalfariano, Paolo Mieli: «ha messo la minigonna a una vecchia signora » disse l’avvocato. E dentro quel Corriere (io ero lì) ci volle un po’ di tempo per capire che il mielismo, che è stata un’altra rivoluzione nel giornalismo italiano, era in realtà il figlio legittimo dello scalfarismo, dell’ Espresso dove si era formato e di Repubblica dove Mieli aveva lavorato, la sua trasfigurazione in quel che restava della borghesia lombarda che Scalfari aveva spesso identificato con la razza padrona: «Il giornalista – spiegò Mieli – deve essere come un ascensore che va dai piani più alti ai bassifondi della politica, deve trattare gli argomenti leggeri con serietà e quelli più seri con leggerezza ». Più scalfarismo di così.
E fu esplorando l’Ordine delle Somiglianze che nacque il capitolo “Io e Montanelli” nella biografia che gli dedicammo e che lui chiamava «il nostro libro, la mia autobiografia» (Grand Hotel Scalfari , Marsilio). Era la sola dualità che riconosceva, la mano destra e la mano sinistra del giornalismo del Novecento, il ghibellino bianco e il ghibellino nero, una folla di Scalfari e una folla di Montanelli, tutti veri, tutti falsi, tutti verosimili, tutti leggendari: «Lui con i suoi fantasmi Longanesi e Prezzolini, io con i miei Pannunzio e Benedetti. E benché ce ne dicessimo di cotte e di crude, siamo stati, a modo nostro, amici ed è vero che ci somigliavamo. Entrambi abbiamo fatto i conti con il liberalismo: lui da conservatore anarchico e io da radicale libertino, lui divulgatore di storia e io scrittore di filosofia». E chissà come sarebbe cambiata l’Italia se i due avessero fatto davvero quel giornale che Scalfari aveva pensato: «Un giorno pronunziammo entrambi la stessa frase: ti immagini noi due insieme?».
Era troppo presto per una simile pacificazione. Come ha detto Scalfari, i grandi protagonisti delle polemiche del tempo, quando passa quel tempo, non hanno conti da saldare. Rimangono gli stili delle loro vite come contributi alla biografia del giornalismo italiano della carta stampata, alla struggente bellezza di una professione in decadenza che ha in Scalfari il suo campione irripetibile. Ma lo scalfarismo è anche questo suo ultimo pensiero: «Non è la prima volta che vedo un’epoca chiudersi. So bene che non è un’operazione semplice come spegnere la luce, ma non sono sicuro che il futuro che si prepara non sia migliore del mio tempo». Lo scalfarismo è la luce che non si spegne mai.
Juan Luis Cebrian per la Repubblica
Persone che raccontano alla gente che cosa succede alla gente. Questa definizione del nostro mestiere, data a suo tempo da Eugenio Scalfari, è la più oggettiva che abbia mai sentito. Disse anche, a un gruppo di studenti spagnoli, che è un mestiere crudele e io posso ben confermarlo, anche se il mio amico Gabriel García Márquez, sempre ottimista, insisterebbe nel dire che è «il mestiere più bello del mondo». In ogni caso, è l’unico che io abbia mai fatto.
Conobbi Eugenio nella primavera del 1976, poco tempo dopo la fondazione di Repubblicae poco prima che nascesse El País. Durante un breve viaggio in Europa feci una sosta a Roma, per imparare dall’esperienza di quello che presto sarebbe diventato il primo quotidiano italiano; andai anche a visitare Le Monde, il simbolo della stampa europea per noi spagnoli che sognavamo la democrazia, e ilSunday Times,diretto all’epoca da Harold Evans. L’incontro con Scalfari e la sua squadra fu quello che più di tutti mi aiutò a porre alcune delle solide basi che diedero fondamento e stabilità al giornale che stavo creando. In seguito ci incontrammo a diversi eventi ma sarebbero passati più di dieci anni prima che cominciassimo a coltivare il sogno di dare vita a una creatura in grado di formare un’opinione pubblica veramente europea, che prescindesse dai tic nazionalisti dei vari Stati dell’allora Mercato comune.
Helmut Schmidt, il cancelliere tedesco socialista, ci provò quando, abbandonata la politica, assunse il ruolo di editore del settimanaleDie Zeit. Inseguendo lo stesso sogno, Robert Maxwell cercò di trasformare il settimanale
The European in un quotidiano ma abbandonò l’impresa per via dei battibecchi fra la squadra editoriale britannica e quella francese.
Fu allora che, durante una cena a casa di Carlo Caracciolo, parlammo della possibilità di tentare noi l’impresa. Non ci può essere un’Europa unita senza un’opinione pubblica europea, pensavamo. Parlammo con il fondatore dell’Independent, Andreas Whittam Smith, e con Jean Daniel, all’epoca alla guida del Nouvel Observateur, dopo che fallirono i negoziati con Le Monde, dove grossomodo ci dissero che non capivano la necessità di fondare un quotidiano europeo dal momento che ne esisteva già uno, il loro.
Preparammo modelli e studi di mercato, cercammo investitori, assumemmo professionisti, ma la singolarità francese sembrava un ostacolo insormontabile per gli europei del sud. Finché un giorno il nostro socio britannico suggerì che il denaro che italiani e spagnoli erano disposti a investire a Parigi avrebbe potuto essere trasferito a Londra, al suo giornale. Accogliemmo la proposta e lavorammo per anni a Fleet Street, finché non ci rendemmo conto che nella culla del giornalismo britannico il nostro denaro era ben accetto ma le nostreidee molto meno. In Portogallo tentammo con
Publico, a Porto, ma nel giro di pochi anni l’avventura finì allo stesso modo. Poi all’improvviso ci fu offerta l’opportunità di tornare a Parigi, questa volta non per competere con Le Monde ma per costruire un gruppo europeo intorno a quella testata leggendaria.
André Rousselet, fondatore e presidente di Canal Plus, invitò Caracciolo, Scalfari e me nella sua casa di Saint-Tropez per definire l’accordo. Fu un fallimento. Lo sciovinismo francese era infastidito almeno quanto l’arroganza britannica dall’idea che gli europei del sud potessero pretendere un protagonismo maggiore di quello che era disposto a concedere.
A quel punto capimmo che il giornalismo moderno, così come lo avevamo conosciuto, doveva al nazionalismo tanto quanto quest’ultimo doveva ai giornali che lo sostenevano. Quello che è rimasto dopo tante peripezie è una relazione stretta fra spagnoli e italiani, un’amicizia vera e il fatto, per me indimenticabile, che Eugenio Scalfari abbia presentato in pubblico l’edizione italiana del mio primo romanzo. E anche la convinzione che fosse un vero europeista, un liberaldemocratico convinto e un progressista che sognava il futuro. È stato un maestro, soprattutto per le nuove generazioni di giornalisti che oggi devono affrontare un ecosistema informativo infinitamente più complesso e difficile di quello delle nostre generazioni.
Negli ultimi anni ho assistito da lontano alla polemica suscitata da una delle sue conversazioni con Papa Francesco, quando fece dire al Pontefice che l’inferno non esiste. Fui felice di sapere che il suo concetto di intervista come genere giornalistico era identico al mio: la ricostruzione di una conversazione, sempre inviata preventivamente all’intervistato, come fece lui; la trasposizione letteraria, anche se non letterale, di un dialogo. Mark Twain o Charles Dickens non avevano registratori con cui fare il loro mestiere e grazie a questo hanno consegnato al mondo una visione genuina della verità. Credo che lo stesso Papa Francesco, che mantenne con Scalfari una relazione amichevole e dialogante, sarebbe in qualche misura d’accordo con me.
In definitiva, quella di Eugenio è una perdita semplicemente irreparabile per questo mestiere crudele, come credeva, e splendido, come ha potuto apprezzare. Il suo nome è già iscritto nella storia dei grandi, assieme a quelli di Indro Montanelli, Hubert Beuve-Mary, André Fontaine, Harold Evans, Jacobo Timmermans, Joseph Pulitzer e di un’altra manciata di persone che hanno dedicato la vita a raccontare alla gente che cosa fa la gente.
Che il maestro riposi in pace, un uomo del nuovo Rinascimento che ci abbandona nel pieno della lotta contro il ritorno della barbarie del Medioevo.
Massimo Riva per la Repubblica
Quella di Eugenio Scalfari alla guida de l’Espresso è molto di più di una storia di felici innovazioni editoriali e di brillanti intuizioni giornalistiche che getteranno poi il seme fecondo da cui è nataRepubblica . È la storia di una vocazione professionale che, settimana dopo settimana, si trasforma in impegno civile e politico a difesa dei valori costitutivi di una moderna società democratica. Per cogliere il senso e la portata del contributo che quell’ Espresso diede al processo di evoluzione della vita nazionale si potrebbe elencare un numero straordinario di articoli e di fulminanti copertine.
Ma c’è, sopra ogni altra, una vicenda in grado di illuminare peso e ruolo che l’azione di Scalfari, attraverso l’Espresso , seppe esercitare nell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta: lo smascheramento del tentativo di colpo di Stato tramato dal generale De Lorenzo sotto l’ala protettrice dell’allora presidente della Repubblica, Antonio Segni.
Ai non pochi che magari traggono dal marasma populista di oggi motivo per rimpiangere i buoni costumi politici di un tempo occorre ricordare meglio quale fosse l’Italia di oltre mezzo secolo fa: un paese fortemente diviso. Da una parte, pochi politici lungimiranti in lotta per il superamento dell’anatema atlantico verso i partiti della sinistra. Dall’altra parte, un agguerrito complesso di poteri e di interessi coalizzati che spaziava dalle correnti più clerical-conservatrici della Democrazia cristiana alla Confindustria fino agli apparati statali — e segnatamente ai corpi militari — nei quali la vena autoritaria introdotta dal fascismo aveva lasciato eredità cospicue.
Il tutto seguito e commentato da una stampa quotidiana che, fatta salva l’eccezione dei giornali dei partiti di sinistra, aveva perso gli entusiasmi professionali dei primi anni del dopoguerra per adagiarsi in un conformismo piatto e noiosissimo di sostanziale, talora connivente, supporto al potere dominante. Insomma, un panorama grigio cupo nel quale la penna di Eugenio Scalfari irrompe creando lo stesso scompiglio del fatidico garibaldino in convento, così riaprendo la strada a un risveglio delle migliori qualità del giornalismo nazionale che non sarà più facile reprimere.
Si deve partire dal luglio 1964, quando l’accidentato cammino di quella che veniva allora chiamata l’apertura a sinistra giunge a un passaggio decisivo: l’ingresso a pieno titolo del partito socialista di Pietro Nenni nel governo con la Dc.
Le trattative procedono con estrema lentezza e fatica fino al giorno in cui il segretario del Psi ritira improvvisamente le sue richieste più osteggiate e accetta un accordo al ribasso. Chi o che cosa ha spinto Nenni aquesta marcia indietro? L’Espresso è il primo a chiederselo e sarà anche il primo a trovare la risposta anche se impiegherà quasi tre anni per venire a capo di questi interrogativi.
Anni di ricerche tenaci, costanti, ostinate che alla fine porteranno alla luce una delle pagine più oscure e drammatiche della vita repubblicana. Nell’immaginario collettivo l’inchiesta giornalistica più conosciuta e celebrata al mondo è quella del Washington Post sul caso Watergate, avvenuta anni dopo e in un paese che ha antiche e solide tradizioni di stampa libera e indipendente. Nell’Italia degli anni Sessanta il clima in materia è assai meno favorevole. Chi sa non parla o fa solo vaghi riferimenti al «tintinnar di sciabole», nulla dicono gli stessi politici al centro della vicenda, figuriamoci gli uomini del mondo militare. Ma Scalfari el’Espresso non si rassegnano e scavano fra inutili mezze ammissioni e altrettanti tentativi di depistaggio. Finalmente a gennaio del 1967 l’Espresso individua un primo filone d’inchiesta e pubblica un articolo in cui si denuncia che il Sifar (ovvero i servizi segreti militari) guidato dal generale De Lorenzo ha realizzato oltre 150mila schedature di italiani ritenuti politicamente “pericolosi”. Uno di questi dossier è dedicato niente meno che a Giuseppe Saragat, divenuto nel frattempo presidente della Repubblica. Lo sconcerto è enorme e i vari muri del silenzio cominciano a cedere. Con la collaborazione di Lino Jannuzzi, Eugenio Scalfari inizia a raccogliere testimonianze più compiute che lo porteranno molto oltre la denuncia delle deviazioni del Sifar. Sempre settimana dopo settimana, l’Espresso arriva a strappare il velo del cosiddetto “Piano Solo”. Un ben congegnato progetto di occupazione “manu militari” delle istituzioni, concepito minuziosamente dal generale De Lorenzo con tanto di campi di concentramento nei quali rinchiudere gli oppositori politici per dar luogo a un governo d’emergenza insediato dal presidente Segni. Le reazioni nel paese sono dapprima orientate all’incredulità, la stampa cosiddetta più autorevole fa muro e il seguitissimo Corriere della Sera parla sprezzante di «farneticazioni » da parte dell’ Espresso . Ma ormai la breccia della verità si è aperta e nessuno sarà più in grado di richiuderla. Ci prova lo stesso De Lorenzo con una querela contro Scalfari e Jannuzzi che una magistratura compiacente avallerà con una condanna.
Alla quale però i due giornalisti avranno modo di sottrarsi facendosi eleggere in Parlamento e mettendosi così al riparo di quell’immunità che in casi come questo può davvero definirsi istituto benedetto contro l’arroganza del potere dominante.
Ora la penna del garibaldino non scrive più, ma la lezione per il convento del giornalismo rimane intatta e vitale.
Lucio Caracciolo per la Repubblica
Ho conosciuto Eugenio Scalfari nell’autunno 1975 da quasi imberbe volontario del “Rotor”, la ciurma dei sessanta ragazzi e ragazze guidata da Gigi Melega, rumoroso supporto volontario della nascente redazione di Repubblica. Chi non ha partecipato a quell’entusiasmante avventura non sa che cosa s’è perduto. Animati dal sacro fuoco, ci sentivamo privilegiate comparse di un’impresa monarchica. Sì, perché la Repubblica nasce monarchia assoluta quanto illuminata. Non per decreto ma per carisma di re Eugenio. Sotto lo smagato sguardo del nostro altrettanto inimitabile editore, Carlo Caracciolo.
Eravamo nell’Italia che non c’è più, quella della vituperata partitocrazia. Paese unico al mondo, dove alla carenza di Stato più o meno brillantemente sopperivano i partiti e le loro diramazioni. “Partito” lo era, a suo peculiarissimo modo, anche il nostro giornale. Però totalmente indipendente dai partiti politici, riferimento inaggirabile del dibattito pubblico e delle correnti culturali che davano il tono a quegli anni.
Non credo mi facciano velo l’affetto e la riconoscenza che da allora ho provato per Eugenio nel valutare l’eccezionalità di quella pattuglia, inizialmente esigua ma combattiva e variegata, da lui diretta con mano sicura.
Solo prestigio e autorevolezza del direttore potevano comporre personalità così esuberanti come Mario Pirani, Gianni Rocca, Fausto De Luca, Sandro Viola, Giorgio Signorini, Miriam Mafai, Giorgio Rossi, Carlo Rivolta, Rosellina Balbi, per citare solo alcuni dei protagonisti degli anni di fondazione. Ciascuno con opinioni piuttosto robuste, tutti disposti alla contraddizione. Al punto che, quando non trovavano contestatori altrettanto autorevoli, amavano contraddire sé stessi per puro gusto della discussione. Tutti disposti — talvolta a denti stretti — a sottomettersi all’arbitrato finale di Eugenio, senza necessariamente cambiare opinione. Sicché dopo la riunione del mattino il direttore fischiava la fine del primo tempo, quello dialettico, e scatenava la fase finale, che culminava verso le otto con i titoli di prima pagina e la lettura dialogica dell’editoriale di Eugenio per gli ammessi all’udienza.
Oggi li ricordiamo come “anni di piombo”. Lo furono, anche. Ma il colore di quegli anni restava quello della speranza e del cambiamento. La convinzione, talvolta un po’ fanatica, di essere “dalla parte giusta della storia”. Di una sinistra liberale e socialdemocratica — nel senso originario del termine — profondamente laica ma non mangiapreti (all’epoca il Vaticano contava qualcosa), orientata da Eugenio verso l’obiettivo strategico del superamento del “fattore K”: la piena integrazione del Pci nel sistema democratico attraverso la sua legittimazione a governare, per la quale necessitava il famoso “strappo da Mosca”. Sul quale si sprecavano le diatribe fra chi lo vedeva compiuto o in via di compimento (il direttore su tutti) e chi lo considerava tutto da verificare o addirittura impossibile. Solo Eugenio poteva dirigere e dirimere quella mischia.
Fra tutti gli insegnamenti che ho ricevuto da Eugenio, massimo resta il gusto di cercare chi non la pensa come me per confrontarmici.
E di apprezzare la diversità delle opinioni altrui come arricchimento delle proprie. In tempi di cancel culture e di intolleranza esibita, sono specialmente grato a Eugenio di avere sempre difeso e addirittura protetto chi — e aRepubblica ce n’erano parecchi — non condividesse le sue tesi. Di tale suo irremovibile principio sono testimone avendolo sperimentato di persona.
Non solo per questo, ma soprattutto per questo, Eugenio è stato e resterà la mia bussola professionale. Così come porterò sempre con me il ricordo della sua burbera dolcezza. Daquel sentimentale che era.
Silvia Fumarola per la Repubblica
L’aggettivo più usato è «grande». Nel ricordo dei lettori che hanno lasciato sul sito di Repubblica l’ultimo saluto a Eugenio Scalfari, ci sono affetto e riconoscenza. Il desiderio di condividere un pezzo di vita, perché c’è stato un padre che un giorno ha comprato quel quotidiano «piccolo». Nell’addio dei lettori c’è la gratitudine che si deve ai rari professori che ci hanno aiutato ad aprire testa e cuore. «Anche quando non ero d’accordo, amavo leggere la sua opinione. Direttore, mi mancherà » è il saluto di Sandro. «L’editoriale della domenica è stato la mia messa.Ciao Direttore, grazie» scrive Luca. Maryanna si rivolge direttamente al fondatore diRepubblica : «Ciao carissimo e grandissimo Direttore, grazie. Mi hai insegnato a capire e a saper leggere la realtà ed il soprannaturale. Buon viaggio». «Avevo 26 anni quando iniziai a leggere La Repubblica e da allora ha accompagnato la mia vita nel bene e nel male» scrive un lettore sul sito di Repubblica. «Onore ad un Grande Uomo di cui sentiremo tutti la mancanza in questo mondo di quaquaraqà ed ominicchi. GRANDE EUGENIO».
Quei lettori con cui Scalfari avevaun rapporto che non si è mai interrotto, ora si ritrovano insieme, nel momento triste dell’addio. Una Spoon river che unisce ex ginnasiali curiosi e pendolari che tenevano e tengono Repubblica in tasca. Un altro utente del sito scrive: «Conobbi l’Espresso , nel vecchio formato da quotidiano, da studente ginnasiale: mio padre, di qualche anno più vecchio di Scalfari, ne era un fedele lettore, e lessi poi Repubblica sin dal primo numero. Grazie papà, grazie Eugenio, al quale ho guardato con stima ed affetto filiale e che ho sempre letto con attenzione, sui giornali che ha fondato e sui libri che ha scritto». C’è chi dà rispettosamente del lei: «Caro Maestro, grazie per il giornalismo che ci ha dato e soprattutto per aver raccontato l’Italia e il mondo con un linguaggio mai volgare sempre aperto e con molta cordialità. Le auguro un buon riposo, e auguro ai suoi ragazzi di continuare la sua legacy come voleva lei, con professionalità e serietà». Emanuelavespari: «Piango come se avessi perso un caro amico, compagno di una vita. Grazie per avermi accompagnato in questi 40 anni con i tuoi articoli, editoriali, discussioni. La Repubblica che amo è nata con te e muore con te direttore. Manchi già». Franco: «Rutelli diceva di essere cresciuto a pane e cicoria, io a pane e Scalfari. Grazie al mio professore delle medie di Italiano e Storia mi innamorai di Repubblica che leggo da più di 35 anni. Devo la mia formazione culturale e politica in gran parte a lui. E sono cresciuto con tutte le firme che Scalfari ha voluto aRepubblica .
Citarle tutte è un’impresa come citare tutti gli intellettuali e scrittori che scrivevano sul nostro amato quotidiano. Grazie di tutto Eugenio». Claudio Cavallini confessa: «Sono un comunista italiano orfano di Berlinguer e ora anche di Scalfari. Con loro se ne è andata una parte di me importante è insostituibile. Mi sento molto triste...».
Un altro lettore condivide un incontro: «È stato detto molto... quasi tutto... aggiungo un ricordo personale: molti anni fa aspettavamo entrambi un taxi che ha tardato ad arrivare. Abbiamo parlato e anche scherzato sulla situazione politica. Una persona semplice e molto affabile. Ci siamo stretti la mano e salutati... Grazie Eugenio, la terra ti sia lieve». Gianfranco Salodini: «Se ne è andato il maestro di vita e di pensiero che mi è stato di guida sin dai banchi dell’università quando, per sfogliare l’Espresso, occupavo anche quello del mio vicino. Con lui ho imparato a leggere la politica, l’economia, ma anche il romanzo la storia e i saggi. Incolmabile perdita». Ancora un ricordo: «Leggo Repubblicadal suo primo numero, “provato” da mio padre. Se Giornale-Partito ha voluto significare una mappa che aiutava ad orientarsi nella complessità e nella sfida al labirinto, allora sono orgoglioso di essere (stato) “iscritto” a quel partito. Ciao, Eugenio, e grazie per averci trasmesso — in anni di intolleranze e ideologie integraliste — i valori illuministi di laicità, apertura cosmopolita, curiosità».
Un altro lettore si sente di far parte di una community: «La mia educazione politico-culturale ha cominciato a muovere i primi passi il 14 gennaio 1976 con la “nostra” Repubblica . Speranze, delusioni, amori, discussioni... e sempre Repubblica nella tasca della giacca. Le tue analisi, i tuoi articoli sono ora il sussidiario necessario per capire la storia d’Italia degli ultimi 50 anni ed andrebbero illustrati dagli insegnanti nelle scuole. Purtroppo, la nostra, è un’idea d’Italia ancora minoritaria, altrimenti da tempo saremmo già diventati una Nazione e non lo Stato che siamo. Grazie davvero di tutto e di cuore, Eugenio!». «Ricordo quando è uscita Repubblica » , scrive Fabio «ero piccolo, mio padre lo adottò come secondo giornale, oltre alla Gazzetta del Mezzogiorno , nostro quotidiano di Bari. Spesso ci leggeva l’editoriale di Eugenio Scalfari, in cui si ritrovava. Immenso, davvero lascia un vuoto». E un’altra lo saluta citando i versi di Amleto cari al fondatore di Repubblica : «Persona di una complessità inspiegabile a parole, ma gli occhi, gli occhi, parlavano e dicevano di un mare di intelligenza, un oceano di cuore e una smisurata umanità. Il rosmarino per il ricordo le viole per il pensiero. A te».
Giuseppe nota la coincidenza della morte di Scalfari e la crisi di governo: «Purtroppo non possiamo clonarlo! Un uomo che lascia nel giorno giusto».
Papa Francesco per la Repubblica e La Stampa
Sono addolorato per la scomparsa di Eugenio Scalfari, fondatore del quotidiano La Repubblica. In queste ore dolorose, sono vicino alla sua famiglia, ai suoi cari, e a tutti coloro che l’hanno conosciuto e che hanno lavorato con lui. È stato per me un amico fedele.
Ricordo che nei nostri incontri a Casa Santa Marta mi raccontava come stesse cercando di cogliere, indagando la quotidianità e il futuro attraverso la meditazione sulle esperienze e su grandi letture, il significato dell’esistenza e della vita. Si professava non credente, seppure negli anni in cui l’ho conosciuto io, rifletteva profondamente anche sul senso della fede. Sempre si interrogava sulla presenza di Dio, sulle cose ultime e sulla vita dopo di questa vita. I nostri colloqui erano piacevoli e intensi, i minuti con lui volavano via veloci scanditi dal confronto sereno delle rispettive opinioni e della condivisione dei nostri pensieri e delle nostre idee, e anche da momenti di allegria. Parlavamo di fede e laicità, di quotidianità e dei grandi orizzonti dell’umanità del presente e dell’avvenire, del buio che può avvolgere l’uomo e della luce divina che può illuminarne il cammino. Lo ricordo come un uomo di straordinaria intelligenza e capacità di ascolto, perennemente alla ricerca del senso ultimo degli avvenimenti, sempre desideroso di conoscenza, e di testimonianze che potessero arricchire la comprensione della modernità. Eugenio era un intellettuale aperto alla contemporaneità, coraggioso, trasparente nel raccontare i suoi timori, mai nostalgico del passato glorioso, bensì proiettato in avanti, con un pizzico di disillusione ma anche grandi speranze in un mondo migliore. Ed era entusiasta e innamorato del suo mestiere di giornalista. Ha lasciato un segno indelebile nella vita di tante persone, e ha tracciato un solco professionale su cui molti suoi collaboratori e successori stanno procedendo.
All’inizio dei nostri scambi di lettere e telefonate, e durante i nostri primi colloqui mi aveva manifestato il suo stupore per la scelta di chiamarmi Francesco, e aveva voluto capire bene le motivazioni della mia decisione. E poi, lo incuriosiva molto il mio lavoro di pastore della Chiesa universale, e in questo senso ragionava a voce alta e nei suoi articoli sull’impegno profuso dalla Chiesa nel dialogo interreligioso ed ecumenico, sul mistero del Signore, su Dio fonte della pace e sorgente di strade di fraternità concreta tra le persone, le nazioni e i popoli. Insisteva sul valore decisivo - per le nostre società e per la politica - delle relazioni sincere, proficue e continuative tra credenti e non credenti. Era affascinato da varie questioni teologiche, come il misticismo nella religione cattolica e il brano della Genesi in cui si dice che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio. E dalla composizione e dalle caratteristiche delle popolazioni che abiteranno la casa comune nei prossimi decenni.
Da oggi ancora di più conserverò nel cuore l’amabile e prezioso ricordo delle conversazioni avute con Eugenio, avvenute nel corso di questi anni di pontificato. Prego per lui e per la consolazione di coloro che lo piangono. E affido la sua anima a Dio, per l’eternità. —
Vito Mancuso per La Stampa
Eugenio Scalfari ha sempre rimarcato non solo l’assenza in lui della fede, ma anche del desiderio di cercarla: «Io non ho la fede nell’oltremondo e non la cerco». Intitolò l’autobiografia del 2008 L’uomo che non credeva in Dio volendo consegnarsi alla storia proprio alla luce della non-fede. Tuttavia è impossibile parlare di lui e dei suoi ultimi anni senza analizzare il suo rapporto con papa Francesco. Non è facile comprendere cosa abbia portato il figlio spirituale dell’Illuminismo francese, colui che fu tra i fondatori del Partito radicale, sostenitore delle leggi su divorzio e aborto, a cercare un dialogo costante con un Papa e a parlarne in continuazione nei suoi editoriali. Fu la curiosità del giornalista? La sfida al pensiero dell’intellettuale? Il bisogno di spiritualità che più o meno intensamente si affaccia in ogni vita al tramonto? Scalfari da giovane avrebbe avuto lo stesso atteggiamento verso il gesuita Jorge Mario Bergoglio? Di certo non l’ebbe verso tutti gli altri Papi.
Vi è stata però l’amicizia coltivata qualche anno prima con un altro gesuita, il cardinale Carlo Maria Martini. Il rapporto di Scalfari con Martini sta a quello con Bergoglio come la primavera sta all’estate. Di certo entrambe le relazioni furono contrassegnate da due punti fermi: nessun desiderio di conversione e un dialogo alla pari. Torna però la questione del motivo dell’interesse verso papa Francesco ed ecco al riguardo un passo della sua intervista al Papa il 1° ottobre 2013: «Il Papa entra e mi dà la mano, ci sediamo, sorride e mi dice: "Qualcuno dei miei collaboratori che la conosce mi ha detto che lei tenterà di convertirmi". È una battuta, gli rispondo. Anche i miei amici pensano che sia Lei a volermi convertire. Ancora sorride e risponde: "Il proselitismo è una solenne sciocchezza, non ha senso. Bisogna conoscersi, ascoltarsi e far crescere la conoscenza del mondo che ci circonda. Questo è importante: conoscersi, ascoltarsi, ampliare la cerchia dei pensieri. Il mondo è percorso da strade che riavvicinano e allontanano, ma l’importante è che portino verso il Bene"».
Io penso che la differenzatra Scalfari e Bergoglio sia la nostra differenza, che questi due uomini siano il simbolo della nostra condizione, perché in ogni essere pensante si muovono il tipo Scalfari e il tipo Bergoglio, il credente e il non-credente che si urtano tra loro come Esaù e Giacobbe nel grembo di Rebecca. Proprio per questo la riuscita del loro incontro è importante, perché insegna che il dialogo è la sigla della spiritualità del nostro tempo: non più convertire l’altro alla propria fede o al proprio ateismo, ma convertire se stessi nella purificazione della mente che il vero dialogo porta sempre con sé.
Qui però si apre una feconda contraddizione. Il ruolo decisivo nel pensiero di Scalfari è infatti giocato da Nietzsche, il filosofo cui egli si è dichiarato più in debito, più di Montaigne, Cartesio, Diderot, Freud. Ora ben aldilà della sua proposta in positivo difficilmente sistematizzabile perché costruita su concetti tra loro ben poco componibili, Nietzsche è decisivo per l’opera demolitrice. Che cosa ha demolito? La ragione e la morale. Faceva filosofia col martello e con le sue martellate ha distrutto la ragione in quanto gloria dell’umanità e la morale in quanto dovere dell’umanità. La morte di Dio da lui annunciata è la morte della ragione e della morale, del Logos da cui deriva Ethos. Il sapore di tragedia che aleggia nei libri di Scalfari a mio avviso sta qui: nell’uso della ragione illuministica all’interno di un mondo ritenuto, con Nietzsche, privo di ragione.
Nell’ultima parte della vita Scalfari però ha scritto pensieri molto intensi sull’amore. Nell’autobiografia si legge «di un deposito di amore tale che renda possibile superare l’io e il tu declinando al loro posto il noi»; e ancora: «Bisogna dimenticarsi di sé per conoscere l’altro senza invaderlo, bisogna modificare la grammatica della psiche per passare dall’io e dal tu al noi»; e infine: «L’amore vero dà riposo e beatitudine». Scalfari racconta inoltre che da bambino, giocando ai soldatini, faceva vincere sempre i buoni. Penso che tutti abbiamo fatto vincere i buoni. Perché? Perché le favole dell’umanità, pur ricolme di orrore, si concludono con la vittoria del bene? Si tratta di un desiderio infantile o è la manifestazione della vera logica della vita? Ancora Scalfari: «Non so spiegarmi perché a sei anni ero convinto che chi vince è buono. Oppure che chi è buono vince». A sei anni, «se non ritornerete come bambini», disse un giorno Gesù. Io penso che il fascino di papa Francesco su di lui risiedesse nell’intravista possibilità di sperimentare ancora in questo mondo la forza del bene, quell’amoris laetitia che aggrega gli esseri umani, infondendo pace e armonia. Scriveva Scalfari il 15 settembre 2013: «Se il mio dialogo con papa Francesco continuerà, come spero ardentemente che avvenga, questo credo che potrebbe essere il tema: far crescere l’amore per gli altri almeno allo stesso livello dell’amor proprio». —
Umberto Galimberti intervista da Simonetta Sciandivasci per La Stampa
Eugenio Scalfari aveva un grande amore per la filosofia. Se ne è occupato, ne ha scritto, ma non è per questo che diciamo di lui che è stato «il direttore-filosofo», come si legge oggi in molti dei titoli che lo ricordano, bensì perché la filosofia l’ha usata per fare i giornali. Era il suo ingrediente segreto, l’azzardo in più, una delle cose che lo hanno reso quello che Altan, nella vignetta che lo ritrae,ha descritto così: «Scalfari. Giornalista fondato da Eugenio Scalfari».
«Però non lo prendevano sul serio, perché lui era un giornalista e la filosofia in Italia è gestita da professori universitari. Non che lo disistimassero, ma non lo reputavano un filosofo», dice a La Stampa Umberto Galimberti.
Professore, perché si può dire, e a ragione, che Scalfari è stato un filosofo?
«Prima di tutto perché sull’Illuminismo ha detto e scritto cose essenziali, importanti. Era innamorato di Diderot, faceva interviste impossibili a Voltaire e D’Alembert, parlandoci come fossero vivi, amici suoi. Questo gli ha permesso di ricostruire in modo sorprendente l’atmosfera in cui l’Illuminismo era nato e si era strutturato. Il difetto dei filosofi è che spesso non sono in grado di fare quella ricostruzione, di legare i concetti al tempo che li fa nascere. E invece niente è più mondano del pensiero. Scalfari è riuscito a spiegare perfettamente perché gli illuministi non potevano che pensare certe cose».
E poi?
«L’Illuminismo ha celebrato la ragione, che tutto sommato era la forza propulsiva dell’era moderna grazie alla quale ci si era convinti che avremmo risolto tutto o quasi tutto. Invece, abbiamo poi scoperto che si può ragionare anche per produrre un male perfetto ed efficace come il nazismo, che ha definitivamente smentito l’idea che con la sola ragione si possa fare la storia. Ed è questo che Scalfari ha sottolineato, ed è la ragione per la quale, pur amando Voltaire e Diderot, si è poi mosso su un altro sentiero, ha seguito e indagato l’irrazionale».
Si riferisce alla religione?
«Sì. Perché la religione è una sorta di recupero dell’irrazionale. Lui aveva molta stima del cardinal Martini, ha conversato tanto con Papa Francesco. La fede lo affascinava quanto i lumi. Ed è anche qui che trovo il filosofo: nel fare, di questa sinergia di opposti, il principio guida di un’indagine certamente intellettuale, ma pure intima, privata. Ed è stato muovendo da quel nucleo di opposti che Scalfari si è spostato anche all’ambito psicologico: nel suo libro Incontro con Io (Rizzoli, 1994), ha discusso Freud e ha scritto che non è Dio a determinarci, ma la nostra specie. Per lui è la specie che decide quando nasciamo e quando moriamo, che ci fornisce di sessualità e aggressività per il tempo in cui dobbiamo procreare, per poi toglierci entrambe le cose, destinandoci alla morte senza alcun motivo. Tutto questo, dal punto di vista di un dio, è qualcosa di assurdo: lo sottolineò bene anche Sartre».
Quindi alla fine ha sconfessato l’Illuminismo?
«No. Ne ha compensato alcuni limiti».
Che cos’è un filosofo?
«Molte cose. Lui era uno che descriveva la realtà così com’è, poiché l’essere umano tende a negarla, quando si manifesta in termini negativi».
Quello è il compito dei giornali.
«No. Il giornalista descrive i fatti, che sono contingenti. Descrivere la realtà significa descrivere l’humus in cui i fatti nascono, lo Zeitgeist. Sono lavori diversi che vanno fare insieme: Scalfari ci è riuscito».
Si favoleggia della boutade: «Non rovinate i giornali con la verità».
«Rido. Che carino».
Lo hanno accusato spesso di essere un presuntuoso, specie quando s’è accostato alla filosofia.
«Ha osato, altrimenti non sarebbe diventato amico del Papa. Osare è un’azione di coraggio, non di presunzione. Certo, per farla si deve avere un’altissima considerazione di sé, e lui la aveva».
Come vi siete conosciuti?
«Lui mi chiamò da Repubblica per farmi scrivere, ma non ero a casa e allora mi inviò un fax. All’epoca collaboravo con Il Sole 24 ore. Ero – e sono ancora – un primitivo: quando vidi il fax, pensai fosse una specie di avviso di chiamata, quindi aspettai che si rifacesse vivo, magari con una lettera, che naturalmente non arrivò mai e io partii per le vacanze. Mi richiamò qualche settimana dopo e mi chiese se avessi avuto il fax e come mai non avessi risposto. Cominciammo così. Ci siamo voluti molto bene».
Litigavate?
«Ma no. Una volta gli dissi che il cardinal Martini non mi piaceva, perché trovavo che pensasse cose giuste senza avere il coraggio di potarle fino in fondo: mi guardò con occhi di brace. Mi fulminò». —
Romano Prodi per la Stampa
Due caratteri diversissimi, radici culturali e sociali quasi agli antipodi, ma per quasi 15 anni il laico Eugenio Scalfari e il cattolico Romano Prodi sono stati i punti di riferimento e i motivatori dell’«altra Italia», quella che tra il 1995 e il 2008 per due volte ha vinto le elezioni e per due volte si è arresa, vinta dalle proprie divisioni. Il professor Prodi, come sempre in giro per l’Italia, risponde dalla sua auto: «Sono molto addolorato per la scomparsa di Eugenio Scalfari, con lui l’Italia perde un eccezionale interprete della vita del Paese».
Romano Prodi, che compirà 83 anni fra 25 giorni, non è mai stato complimentoso, ha una frequentazione misurata con i superlativi ma si capisce che la scomparsa di Scalfari lo ha colpito: «Che vuole, ci conoscevamo da più di quarant’ anni. Da allora il dialogo non si è mai interrotto e si è prolungato e, anzi, intensificato sino a diversi mesi fa. Le ultime erano lunghe conversazioni non sui problemi contingenti. Preferiva approfondire i temi del mondo globale…».
E anche dal racconto di Romano Prodi affiora il rapporto tutto speciale che Eugenio Scalfari intrecciava con i leader politici, la sua concezione del giornalismo, mai quarto potere, ma invece stimolo, consiglio ovvero contrasto del potere politico. E questo lo portava ad intrecciare rapporti personali con i leader, certo per «strappare» notizie, ma accorciando le distanze. Con Prodi, almeno inizialmente, un rapporto molto «empirico», come racconta lui: «Ricordo bene quando ci conoscemmo, era il periodo nel quale divenni ministro dell’Industria, era il 1978 e ricordo bene il tenore dei nostri colloqui: parlavamo unicamente di temi economici. Da allora i nostri rapporti sono stati sempre buoni e sinceri».
Consigli nei momenti-clou? Per esempio prima del voto di sfiducia del 1998? O durante i mesi turbolenti che precedettero la seconda caduta, quella del 2008? «Essendo osservatore partecipante, esprimeva in modo esplicito il suo parere, che si trasformava automaticamente in consiglio».
Prodi ha sempre avuto una passione per i giornali, una curiosità speciale per quella capacità della carta stampata di diffondere notizie e idee: «Nel campo editoriale Scalfari è stato unico. Prima ha fondato quello che si è presto rivelato un grande settimanale, l’"Espresso", che ha completamente cambiato la struttura materiale dei periodici, e poi ha inventato "la Repubblica"».
In effetti l’impresa di «Repubblica» ha rappresentato un unicum nella storia editoriale: un giornale che in pochi anni ha conquistato il primato e non solo è diventato una sorta di «must» per il lettore-elettore di sinistra, ma ha affermato con dignità giornalistica il modello del giornale-partito: «Sì – dice Prodi – un giornale singolare, perché molto popolare, ma anche molto di parte, diciamo meglio: "partecipante". Scalfari non ha mai fatto un giornale neutrale, ma popolare e di battaglia».
Ci si è chiesti tante volte nel passato se Eugenio Scalfari sia stato il più grande giornalista nella storia italiana e in queste ore la domanda è riaffiorata, ma a Prodi preme sottolineare un dato incontrovertibile: «E’ stato un grande innovatore del giornalismo italiano, ha creato un giornale che più di ogni altro ha rivoluzionato l’informazione scritta. E’ stato capace di imprimere un segno indelebile e di trovare nuove formule di comunicazione, riuscendo – ecco il punto – ad appassionare milioni di cittadini alla vita politica, esercitando più di ogni altro una forte influenza sui costumi del Paese».
Un tratto umano congiunge Eugenio Scalfari e Romano Prodi: pur essendo stati divisi da 15 anni, sono sempre state due personalità orgogliose delle proprie idee, tenaci nel difenderle, anche nell’età più matura. Dice Prodi: «Negli ultimi anni della sua vita si è dedicato ad una riflessione profonda sui grandi temi della vita e della morte. Come dimostrano anche i suoi ultimi libri su grandi temi filosofici e religiosi. Ci mancheranno l’ intensità e la ricchezza del suo pensiero. Resterà per me prezioso lo scambio di opinioni: è stato un piacere intellettuale confrontarmi con l’originalità delle sue riflessioni. Così come è stato straordinariamente fecondo il rapporto per tanti giornalisti che hanno trovato in Eugenio Scalfari un autentico maestro». —
Lucia Annunziata per La Stampa
Forse è meglio che cominci dall’inizio, invece che dalla conclusione, saggia, consapevole e incredibilmente dolorosa.
Oggi è andato via l’ultimo dei giganti. Una generazione di giornalisti, i Montanelli, Pintor, Rossanda, Ottone, poteri regnanti di un’epoca senza social e telefonini. Non c’era nulla di facile, nulla di rassicurante in quello che succedeva ogni giorno in un giornale. Non c’erano grandi confidenze con i tuoi superiori, e nemmeno nessuno se le aspettava. Un mondo molto diverso da quello ( mitologico) «partecipato», «coinvolgente», «paritario» che ci si attende oggi. Il potere assoluto del Direttore, era del resto una sicurezza assoluta: non c’erano scuse, per un direttore, né c’erano fughe. Di tutti loro, una strepitosa generazione che si era formata nel fuoco della guerra e nelle divisioni della postguerra, Eugenio Scalfari è stato il più grande.
Quando «la Repubblica» nasce, il Paese è pieno di fogli di battaglia - nuove voci che si alimentano del furore degli Anni Settanta; il Pci italiano è una grande forza europea, ma ancora in bilico nella sua collocazione internazionale, il resto della sinistra non è mai stata più radicalizzata. Quando appare sulla scena un giornale, come «la Repubblica», che scende in campo come la voce della grande tradizione intellettuale del progressismo delle libertà occidentali, pare un esperimento asincrono rispetto ai tempi, più un rigurgito del passato che una vera prospettiva da offrire ai tempi presenti. La differenza che invece quel giornale avrebbe fatto era proprio Eugenio Scalfari, un uomo che camminava nel mondo con la certezza di esserne il centro – e di saperne diventare il perno. Senza la sua «Repubblica» oggi avremmo un altro Paese. Un cambio avvenuto esercitando una sola condotta – il riconoscimento della priorità assoluta della realtà, contro ogni deriva ideologica, e il coraggio di sostenere la proprie opinioni senza nessun timore. Due virtù , o forse difetti, servite come grimaldello contro ogni rendita di posizione, in un Paese in cui la politica , anche quella della sinistra, ha ampiamente contribuito a costruirne.
Mi ha mai voluto bene, il Direttore? Per anni, quando ero giovane, è stato il mio cruccio. Era davvero difficile vivere nel mondo di questi giganti, anche se è stato un privilegio. La telefonata de «la Repubblica» mi raggiunse in America Centrale, El Salvador esattamente, dove lavoravo nei primi Anni Ottanta per il mio giornale di sempre, «il Manifesto», seguita severamente da Rossanda, Castellina, Pintor. Inizi Anni Ottanta, fuga dall’Occidente, troppo odio civile, troppi errori a sinistra – in altre parole: troppi morti nel nostro stesso Paese. Fuggire, fuggire, dove la morte non è una scelta, ma quasi solo un obbligo. La differenza fra leoni e agnelli ancora possibile.
Dalla segreteria di redazione de «la Repubblica» mi venne quasi ordinato di andare a Roma, perché il Direttore voleva vedermi. Il nome del Direttore non fu pronunciato. Andai – ma vidi solo il capo degli esteri e neanche l’ombra di Scalfari. A «il Manifesto» non ci furono parole, nemmeno. Rossanda, alla notizia che andavo a «la Repubblica», mi disse che non si va in un giornale «borghese», e chiuse la telefonata. Lasciare un giornale all’epoca era un fatto grave. Non si scriveva sui giornali ma si apparteneva a un giornale. Ripartii per il Salvador.
Di Scalfari nessun segno, fino a che in albergo, tempo dopo, trovo un messaggio, arrivato per me all’Ap. «Lucia», cominciava, e seguiva una disamina di ogni singolo pezzo scritto in quel periodo, con la lista di tutto quello che avevo sbagliato: «Ricordati che non sei più in un giornale fazioso, ma in un giornale che ragiona sui fatti, ossia su quello che esiste di più vicino alla verità». Una lezione che non ho mai dimenticato. Rapporti sempre travagliati nel tempo – corrispondente in Medio Oriente, mi vuole fuori dall’Iraq alla vigilia del primo bombardamento da parte occidentale. «Non voglio avere indietro il tuo cadavere», urlava al telefono. Io uscii e tornai dentro a giro di 24 ore. Arrestata in Israele dalla guardie del corpo di Shamir, accusata di aver morso una di loro nel corso di tafferugli, rispose «sono certo che non è vero. Se lo avesse fatto la guardia sarebbe sicuramente morto» ( riferimento al mio difficile carattere!). Dopo la guerra in Iraq fui premiata con la Nieman Fellowship, di Harvard. Quando glielo comunicai – chiedendo di andare in America- mi disse, «ma dai, tu devi tornare in America Latina». Uscii dall’ufficio e nel giro di tre ore passai al «Corriere» (Harvard e America comprese). Glielo comunicai via segreteria di redazione e lui mi scrisse una lettera che lesse in riunione. Diceva che aveva sbagliato tutto con me – dopo 12 anni! Ma il filo con lui non si interruppe e si riallacciò sempre.
Mi voleva bene, il Direttore? Sì. Solo uno che ti vuole bene può dedicare tanto tempo a cercare di «educarti» a qualcosa di buono. Grazie Direttore. —
Federico Geremicca per La Stampa
La più frequente delle definizioni utilizzate per sintetizzare profilo e ruolo di Eugenio Scalfari nell’Italia dell’ultimo mezzo secolo è senz’altro quella di «capopartito senza partito». La definizione è indiscutibilmente vera nella sua prima parte, e richiama la naturale capacità di leadership del fondatore de «la Repubblica»; lo è di meno, invece, nella seconda: ma qui, naturalmente, bisognerebbe mettersi d’accordo su che cosa s’intendeva ieri su e che cosa s’intende oggi per «partito».
Chi ha avuto la ventura di lavorare con Scalfari, qui può limitarsi a ricordare quel che ne pensava lui. Cos’è un partito, andando al sodo? Un gruppo di persone - tante o poche che siano - tenute assieme da valori e obiettivi comuni. Precisamente come in un giornale, diceva. È corretto, dunque, sostenere che Scalfari non avesse un partito? Se ne può discutere, ma a «la Repubblica» è da sempre contestato il fatto di essere appunto un giornale-partito, ed Eugenio Scalfari - effettivamente - l’ha messa in campo e poi diretta precisamente così: come fosse un partito. Il partito che forse, chissà, avrebbe voluto davvero guidare negli anni di mezzo della sua parabola politico-giornalistica...
Se «la Repubblica» non fosse stata anche un «partito», del resto, non si coglierebbero fino in fondo le ragioni del successo e dell’influenza esercitata dal fondatore e dal giornale negli anni neri del terrorismo e fino al traumatico passaggio alla Seconda Repubblica, dopo l’abisso di Tangentopoli. Né ci si spiegherebbe perché Scalfari (e dopo di lui Ezio Mauro) si appassionasse e si divertisse tanto. Traeva energia da ogni battaglia politica vinta, e ne riproponeva subito un’altra. Come un segretario di partito. O come il direttore di un giornale-partito. Per come girano le cose oggi, però, forse toccherebbe definirlo in maniera più moderna, che «capopartito senza partito». Un influencer? Definizione dalla Treccani: «Personaggio di successo... che è in grado di influire sui comportamenti e sulle scelte di un determinato pubblico». A Scalfari sarebbe piaciuto, forse. Di sicuro ne avrebbe riso.
L’economia, prima, e la politica poi. Ma la seconda ha lentamente soppiantato la prima, in un processo lento e diventato poi inarrestabile con l’avventura avviata nel 1976. Schierare il giornale per fare politica. Da subito e sempre. Contro la trattativa Stato-Br; contro Andreotti e in sostegno di De Mita; contro Craxi e in aiuto a Berlinguer. E contro Silvio Berlusconi, naturalmente, in una saga infinita che ha mischiato economia e politica, etica e Costituzione: fino a chiamare in causa passioni umanissime, come il risentimento o addirittura il rancore.
Quanto il «capopartito senza partito» abbia influito sul corso delle cose negli ultimi cinque decenni almeno è impossibile da dire: ma la vastità del cordoglio e il tono di molti commenti inducono a pensare che il suo peso sia stato grande. Il nome dei suoi nemici - citiamone tre, gli ultimi: Andreotti, Craxi e Berlusconi - e quello dei suoi amici - La Malfa, Berlinguer e De Mita su tutti - rendono a sufficienza l’idea di come Scalfari schierasse il suo «partito». Non sempre in redazione si era contenti di certi innamoramenti (verso De Mita, così per dire): lui ne spiegava le ragioni e, comunque, accettava il dissenso. A condizione che non divenisse fronda e, tra una riga e l’altra, finisse subdolamente sul giornale...
La breve adesione al fascismo, l’azionismo, la fase socialista e quella repubblicana, poi il lungo lavorìo per accelerare la metamorfosi del Pci di Berlinguer e il sostegno a De Mita nel suo tentativo di rinnovare la Dc. Evoluzioni che testimoniano l’irrequietezza e la curiosità di Eugenio Scalfari: motori che hanno fatto di lui uno dei più grandi direttori del nostro tempo, ma forse un analista politico talvolta influenzato dalle forti passioni. Chi ai tempi era a «la Repubblica» ricorda - per fare un solo esempio - il grande scontro che lo contrappose a Francesco Cossiga, quando avviò la sua fase di «picconatore».
L’allora Presidente straparlava ogni giorno ovunque e di tutto. Costringeva a fare e rifare il giornale cinque volte ogni pomeriggio. Scalfari si stufò e decise che tutto quel che diceva il Capo dello Stato doveva finire confinato in una rubrica: un colonnino titolato, in maniera irridente, «Cossigheide». Quella rubrica visse una settimana e poi si tornò all’antico, visto che le giornate politiche continuavano comunque a girare intorno alle «picconate» del Presidente. Ma Scalfari era contento lo stesso. Era stata una trovata. E soprattutto lo divertiva pensare a quanto si fosse arrabbiato Cossiga per esser finito, da Presidente, in una rubrica... —
Conchita De Gregorio per La Stampa
Non lo so scrivere questo pezzo. Penso solo che non saremo mai più belli di così, più interi di così. Folate di dettagli inessenziali. «Il tuo errore ha recato grave nocumento al nostro giornale. Considera questa una censura» – ordine di servizio, una lettera scritta a mano recapitata sulla scrivania, depositata al centro della tastiera. Il direttore ti cerca. Cuore in gola, ascensore da due che sale al settimo piano. «Intendo con questo omaggio renderti encomio per il servizio reso al nostro lavoro collettivo», un mazzo di fiori. L’ascensore da due era esattamente da due: un montacarichi. Se non frenavi l’abbrivio quando si apriva la porta non riuscivi a fermarti, ce lo trovavi dentro e mormoravi «salve», poi ti guardavi la punta dei piedi. Lui chiedeva: «Da dove torni, cosa hanno visto oggi i tuoi occhi, racconta». Non sono obiettiva. Dovrei forse rinunciare. «Ti affidiamo il ricordo dell’ex segretario Dc, un cameo. Inutile dirti che sei pregata di scrivere del morto, non di te». Inutile, certo. Scrivere del morto.
Quindi il secolo finisce con ventidue anni di ritardo, ma puntuale invece nel mettere affianco con perfidia la dimensione dei grandi che spariscono e dei piccoli che comandano. Puntuale nel dirci guardate, cosa ne è del Novecento: guardate il caos incomprensibile agitato da questa polvere di dilettanti, vedete?, è tutto finito. Si chiude un’epoca ma si era chiusa già: è il sigillo, questo. «Sei pregata inoltre di schivare la retorica e di attenerti ai fatti. Con la realtà non si discute: si racconta». La realtà. Sì. E però.
Non c’è niente che possa dire di lui che non sappiate già perché tutti ne hanno avuto un pezzo persino senza saperlo, anche chi non sapeva chi fosse lo ha avuto. È stato per ciascuno quello di cui ciascuno aveva bisogno, per ottant’anni – il secolo: un nemico, un maestro, un esempio, un demone. La cosa peggiore che potevi fare era essere imprecisa, prendere male le misure, non aver previsto. «Ogni strategia si giudica dall’esito. È il risultato che definisce l’azione». Penso a Di Maio, alle due del pomeriggio, ma è un attimo. Concentrati, resta asciutta. Racconta com’era. Era elegante, profumava. Non era mai in disordine. Era un uomo del Sud. Maschilista, quando questa parola non esisteva: non c’era una parola per dirlo. Dispotico, autoritario, eppure democratico. Sei indulgente? No, non credo: ascoltava tutti, soprattutto i ragazzi. Noi, i piccoli, stavamo seduti sul davanzale della finestra di Piazza Indipendenza perché attorno al tavolo della riunione le sedie erano tutte occupate. Appollaiati, a vent’anni. La riunione gli altri la chiamavano la Messa perché questo era: un rito. Bisognava decidere «dove gira la giornata»: qual è il perno, oggi, del nostro racconto. Lo decidiamo noi, lo decidete voi. Dunque prego, ditemi. Miriam Mafai, Bernardo Valli, Rosellina Balbi, Giampaolo Pansa, Alberto Jacoviello – ricordo il giorno in cui irruppe Bossi sulla scena, questa «astronave chiamata Lega». Ricordo Bossi in una stanzetta limitrofa all’ufficio del direttore che a una signora diceva, sottovoce al telefono: «Sto per essere ricevuto da Scalfari, ci credi?». Ricordo Bettino Craxi che aveva chiesto per settimane di partecipare alla riunione e fu ammesso, ma senza diritto di parola. Ho le foto. Poté parlare quando tutti gli altri avevano finito. Tutti, persino noi i ragazzi. «Sentiamo i ragazzi cosa hanno visto, perché senza i loro occhi noi siamo ciechi». Dunque dimmi, cosa vedi tu che hai 23 anni, dopo magari Craxi ti risponde. Abbiamo parlato troppo, abbiamo fumato e bevuto troppo, dice la canzone, ma non saremo mai più leggeri di così. Più giusti di così. Paolo Guzzanti lo imitava alla perfezione, c’era l’interfono – un oggetto al centro della stanza – si sentiva: «Sali subito». Il caporedattore saliva, ma era uno scherzo. Una volta parlò per un’ora con un redattore scambiandolo per un altro. Gli disse alla fine «Va bene, grazie Alberto». Si chiamava Paolo. Paolo Vagheggi non lo corresse, non protestò l’equivoco. Dopo tre ore lo richiamò: «Caro Paolo, ho appena deciso sulla base della tua condotta professionale di nominarti inviato». Era dispotico? Sì lo era. Aveva talento? Abbastanza, diciamo. Gli si perdonavano gli errori? Non sempre, molti sono stati errori gravi però tutti in quella redazione erano stati scelti da lui. Assunti da lui, anche i «fuori linea». Era il giornale di Carlo Rivolta, Repubblica. Googlate prima di raccontare di De Mita, o intanto. In questo senso era un gruppo, e non è vero come da fuori si crede che c’era «una linea». O meglio: c’era, ma nasceva dal dubbio. Questo, ha insegnato a tutti quanti noi: a dire non so, a dire forse, a dire sempre andiamo a vedere meglio, perché forse l’avversario ha qualche ragione. Ascoltiamolo. Studiamo tantissimo, intanto. Mai un errore, sarebbe fatale. Poi i tempi sono cambiati, il secolo è finito. Il giorno in cui lasciò il giornale c’eravamo tutti, una moltitudine. Disse: «Vi lascio il rosmarino per i ricordi e le viole per i pensieri». Shakespeare, non ci si muove per meno. I redattori fecero un video salendo in piedi sulle scrivanie e recitando «Capitano, mio capitano», riferimenti minori. Sorrise. Aveva stabilito, molti anni prima, che non si dovevano guardare i titoli dei tg prima di licenziare la prima pagina, e che non si dovevano mandare le prime pagine in bozze ai tg. Ciascuno faceva la sua partita: la Tv, i giornali. Ancora non c’erano i social. Era una battaglia persa ma il segnale preveggente di una guerra in corso. L’identità è l’unica cosa che fa di te la persona che sei. Ti definisce quel che hai di diverso: sei tu che decidi di te, non lasciarti condizionare.
È un grande dolore, oggi, la perdita. È come quando nella vita di ciascuno muore il padre, la madre. Volta una pagina nella propria storia. Ci sei tu adesso in prima linea. Sei tu l’anziano nella foto, tocca a te la guida. È stata una grande fortuna, d’altro canto. Bisogna ricordarselo: è stato un privilegio. Si chiamava Indipendenza, quella piazza. Indipendenza, sillabiamolo. Solo chi ce l’avrebbe fatta anche senza di te può esserti davvero riconoscente, direttore, e non sono moltissimi. Li riconoscerai perché non pubblicheranno la loro foto con te e Arbasino, te e Bernardo Valli, te e loro stessi, oggi. Non parleranno di sè, come volevi, ma del morto. Non hai mai contestato un pezzo perché fosse «fuori linea», mai a mia memoria hai detto: questa cronaca non ci giova. Altri sì, dopo, lo hanno fatto. E per questo credo che, dal caso Moro in avanti, Repubblica è diventata il posto dove tutti – anche la sinistra che ora si chiama radicale – sentivano di avere un posto. Il dubbio, l’accoglienza. La guida ferma ma l’ascolto. La possibilità di cambiare idea. Il rosmarino per i ricordi, le viole per i pensieri. Ofelia. L’amore, che altro al mondo non conta. Non il potere: l’amore. Quindi grazie, e chiudiamo qui questo secolo direttore. Andiamo a vedere che succede ancora, con gli occhi aperti, ma lo sappiamo: non saremo mai più belli di così, come dice la canzone. Mai saremo più interi di così. Un pezzo per uno, tutti insieme – fin dove possiamo - avanti ti portiamo. —
Paolo Griseri per La Stampa
Una vita al massimo, una vita affamata di curiosità, una vita da giornalista. In un secolo Eugenio Scalfari ha cambiato la comunicazione in Italia, ha introdotto il principio per cui non è il giornale a dover temere le incursioni della politica ma è il contrario: è il giornale a dare la linea e la politica finirà per adeguarsi.
Scalfari nasce nel 1924 a Civitavecchia e presto emigra a Sanremo dove il padre, Pietro, legionario fiumano, ammiratore del fascismo di D’Annunzio e non di Mussolini, è chiamato a dirigere il Casinò. Nella città ligure frequenta il liceo Cassini con Italo Calvino, un’amicizia profonda che durerà fino alla morte dello scrittore: «Mai l’ho assimilato a me – ha confessato Scalfari nel libro-racconto fatto con Antonio Gnoli e Francesco Merlo – mai l’ho assimilato come usano gli amici delle grandi personalità scomparse; non ho fatto di Calvino morto un altro Scalfari, il mio doppio, la mia coscienza riflessa, non me lo sono annesso con quella sottrazione di cadavere che è tipica in Italia». Negli anni giovanili, Scalfari aderisce al fascismo. Scrive sui giornali della gioventù universitaria. Lo fa con una passione molto precoce per il giornalismo che finirà per attirargli le ire del regime. Viene cacciato da Roma Fascista per aver scritto una serie di articoli sulle speculazioni edilizie di alcuni gerarchi nell’area dell’Eur. Non nasconderà mai quella sua militanza giovanile: «Una volta un ragazzo, leggendo non so quale giornale, mi disse: "Qui sostengono che Scalfari è stato fascista, monarchico, liberale, radicale, socialista, comunista e democristiano". Gli risposi che non ero mai stato democristiano, neppure alla lontana, né comunista, anche se con Berlinguer ho cominciato a votare per il Pci. Il resto, gli dissi, è tutto vero».
Nel dopoguerra Scalfari lavora alla Banca nazionale del lavoro, all’ufficio esteri della sede milanese. Nel frattempo inizia a collaborare con Il Mondo e con L’Europeo. Ma anche qui la passione per il giornalismo gli fa perdere il posto: «Descrissi con molti dettagli ciò che allora mi parve giusto denunciare: la complicità di alcuni politici con i vertici della Federconsorzi e dell’Ente Risi. Si trattava di una vera e propria truffa organizzata ai danni dello Stato». Ma la Federconsorzi era uno dei principali clienti della Bnl e gli articoli sui settimanali di Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti finirono per costargli il licenziamento. Un episodio importante perché da quella rottura nasce l’idea di portare in edicola l’Espresso, il settimanale che avrebbe cambiato la storia del giornalismo italiano. La nuova testata venne finanziata tra gli altri da Adriano Olivetti. Avrebbe dovuto partecipare all’impresa anche Enrico Mattei, allora al vertice di Eni, ma poi non se ne fece nulla. Nella scelta di chiedere il finanziamento a Olivetti c’è una parte importante del programma politico ed economico di Scalfari. L’appoggio alle forze più illuminate del Paese, espressione di un’Italia più attenta a quanto accade nel resto del mondo, l’idea di un capitalismo dal volto umano, come si sarebbe detto negli anni successivi. Politicamente Scalfari era un liberale di sinistra. Aveva partecipato alla fondazione del Partito Radicale nel 1955 e nel 1968 aveva ottenuto ospitalità nelle liste elettorali del Psi quando la magistratura lo aveva condannato a 15 mesi di carcere per l’inchiesta dell’Espresso sul tentato golpe del generale De Lorenzo. L’Espresso, fondato nel 1967, era dichiaratamente la prima tappa di un progetto editoriale che meno di dieci anni dopo avrebbe dato vita a Repubblica. L’idea di fondo di quell’impresa l’ha raccontata lo stesso Scalfari nel libro intervista a Gnoli e Merlo: «In un’Italia attraversata dagli scontri ideologici, priva della dirittura morale indispensabile alla buona politica, dedita alla dilapidazione delle risorse, soggetta al malaffare e refrattaria ad ogni tentativo riformista, solo un giornale che si fosse posto come alternativo a tutto questo avrebbe avuto la possibilità di rappresentare una voce nuova. Prima l’Espresso e poi Repubblica assolsero a questo compito».
L’Espresso diventa presto uno dei punti di riferimento degli intellettuali italiani: economisti come Paolo Sylos Labini e Giorgio Ruffolo, scrittori come Umberto Eco e Piero Citati collaborano al settimanale e nel 1976 entreranno nella squadra di firme che darà vita a Repubblica. Il "caso Repubblica" scuote l’editoria italiana. La novità si percepisce fin dal formato e da una prima pagina concepita come vetrina dei pezzi più importanti del giornale. Scalfari è un direttore-editore, assommando due ruoli normalmente distinti. Lo è all’Espresso, lo sarà a Repubblica nella prima parte della vita del giornale: «Ho dato sempre più importanza alle mie capacità di editore che a quelle di giornalista. Sono uno che, avendo lavorato soprattutto per i giornali che ha fondato, non ha scalato la cima, ci si è seduto subito sopra». Per questo crea quello che lui stesso definisce «un giornale-famiglia». La formula vincente è quella che ha fatto la fortuna di molte imprese editoriali che non sono semplici aziende e che non possono essere amministrate con la logica dei tagli lineari. Sono al contrario delle comunità di lavoro che hanno un equilibrio interno molto delicato e che probabilmente solo chi ama il giornalismo è in grado di comprendere.
Il successo di Repubblica arriva nei giorni drammatici del rapimento Moro. Il giornale della sinistra riformista italiana sposa la linea della fermezza, del no alla trattativa con le Br per la liberazione del leader Dc. Gli stessi brigatisti riconoscono implicitamente il ruolo del quotidiano di Scalfari ritraendo il sequestrato con in mano una copia di Repubblica per certificare la data in cui era stata scattata la fotografia. In quegli anni Repubblica supera il Corriere della Sera nella classifica delle vendite e diventa il primo quotidiano italiano. Le battaglie di Scalfari sono certamente a favore di un’Italia più moderna e più laica. Ma si nutrono anche di sanguigne contrapposizioni e repentini innamoramenti per i protagonisti della politica e dell’economia. «I miei avversari sono stati numerosi e formidabili. Il primo davvero potente fu Eugenio Cefis. Uno scontro durato dieci anni e per combatterlo mi alleai persino con Giulio Andreotti, il diavolo. Un altro avversario acerrimo fu Bettino Craxi. Poi c’è stato Silvio Berlusconi, il solo che ho sottovalutato». Alla fine degli anni Ottanta la battaglia di Segrate per il controllo del gruppo Mondadori-Repubblica spinge Scalfari a rinviare la data in cui avrebbe lasciato la direzione del giornale. Nell’87 Carlo De Benedetti entra nella Mondadori guidata dalla famiglia Formenton. Silvio Berlusconi entra come socio di minoranza. La battaglia per il controllo del principale gruppo editoriale italiano si conclude dopo una lunga vicenda giudiziaria in cui Berlusconi corrompe i giudici per avere una sentenza favorevole. Il gruppo Mondadori viene diviso in due parti. Scalfari e De Benedetti tengono Repubblica e l’Espresso. Tra il direttore e l’editore inizia una stagione che durerà anche dopo il 1996 quando Scalfari lascia la guida di Repubblica consegnandola a Ezio Mauro: «Con Carlo Caracciolo decidemmo che il migliore candidato a succedermi era lui». Nel passaggio di consegne Scalfari confida a Mauro il suo giudizio su De Benedetti: «Siccome era stato direttore della Stampa gli chiesi quante volte sentisse Agnelli. Mi rispose che l’Avvocato lo chiamava una volta al mese. Gli dissi: "Vedrai che De Benedetti ti chiamerà molto più spesso". De Benedetti formava le sue idee confrontandosi con il direttore del suo giornale senza mai oltrepassare i limiti tra le prerogative dell’editore e quelle del direttore».
Nell’ultimo periodo della sua vita Scalfari aggiunge alle riflessioni del tradizionale editoriale domenicale un’intensa attività di scrittore. E coltiva l’inedita e per molti aspetti insospettabile amicizia con Papa Francesco. Scalfari, ostentatamente ateo fin dalla gioventù, trova in Bergoglio un uomo con cui discutere di filosofia e del senso della vita. Il sodalizio scandalizza, anche oltre le mura Vaticane. Ma prosegue, nonostante le smentite e precisazioni della sala stampa, segno che anche al papa argentino quei colloqui non sono dispiaciuti.
La cronaca degli ultimi giorni è quella di un padre di 98 anni, assistito dalle figlie del primo matrimonio, quello con Simonetta De Benedetti, figlia di Giulio, storico direttore della Stampa. Solo alla morte di Simonetta, Scalfari sposerà Serena Rossetti, la segretaria di redazione cui è stato legato per oltre quarant’anni: «So perfettamente dell’assurdità di questo doppio legame, so che entrambe hanno pagato un prezzo molto più alto di quello che è toccato a me».
Le ultime riflessioni dell’uomo che ha governato indirettamente l’Italia nella seconda metà del Novecento guidando il Paese dalla sua scrivania di direttore, sono quelle che riguardano il fine vita. Lo fa nei suoi scritti filosofici, lo confessa pubblicamente con quell’ironia che aiuta a sdrammatizzare: «Io non ho paura della morte, anche se so che un dolore fisico, spero lieve, ci sarà. Mi spiacerebbe di meno se arrivasse in un piccolo momento di gioia. Per esempio, che so, mentre ho in mano una fetta di pandoro, che in genere mi è vietato dal diabete». —
Aldo Cazzullo per Il Corriere
E ugenio Scalfari non ha solo fondato giornali. Ha anche diretto per cinque mesi una casa da gioco nell’Italia del dopoguerra, a Chianciano, seguendo le istruzioni del padre, direttore del casinò di Sanremo. La tecnica, raccontava nelle conversazioni private, era la stessa. L’aveva appresa pure dal suocero Giulio De Benedetti, padre della prima moglie Simonetta, per vent’anni leggendario direttore della Stampa: «Bisogna essere come il domatore del circo; avere sempre un numero pronto, per sostituire il numero che non va più». L’altro suo punto di riferimento fu Arturo Toscanini: una mattina in cui il giornale non l’aveva soddisfatto, fece ascoltare ai capiservizio la registrazione della sfuriata con cui il grande direttore d’orchestra traumatizzava i suoi musicisti che avevano sbagliato i tempi.
Scalfari non veniva da sinistra. Il padre Pietro fu legionario con D’Annunzio a Fiume (lo zio Antonio ebbe una medaglia d’argento al valor militare e la spina dorsale spezzata: divenne morfinomane, morì suicida). Ne L’uomo che non credeva in Dio, forse il suo libro più bello, Scalfari confessa l’infatuazione giovanile per il regime: la notte della proclamazione dell’Impero, i tripodi di bronzo accesi, la voce del Duce. Al referendum del 2 giugno 1946 votò monarchia. La sinistra fu l’approdo scelto anche per dare ai suoi giornali un pubblico, oltre che un nemico: per vent’anni Craxi, per altri venti Berlusconi.
Sapeva fare tutto: il settimanale e il quotidiano, l’editoriale e l’intervista, il saggio e il romanzo, oltre a titoli che hanno fatto la storia del giornalismo: «Capitale corrotta nazione infetta», «L’Africa in casa», «L’avanguardia in vagone letto» (era il reportage del suo amico Sandro Viola sul Gruppo ’63), «Nottetempo casa per casa» (era la deposizione del generale dei carabinieri Zinza sul piano Solo). E ancora: «Carlo De Benedetti compra un terzo del Belgio» (ma l’avventura della Société Générale non finirà bene), «Addio Ghino di Tacco» sulle dimissioni di Craxi, cui riconoscerà di aver avuto «la grandezza della fine».
L’esempio di Toscanini
Una mattina, insoddisfatto per il giornale, fece ascoltare ai capiservizio la sfuriata di Toscanini contro i musicisti
Da giovane porta via una fidanzata a Federico Fellini, e ride nel vedere Italo Calvino fuggire spaventato da un bordello. Da adulto tiene duro sulla linea della fermezza durante i 55 giorni del sequestro Moro. «Porta la testa come il Santissimo in processione» (così diceva Carlo Caracciolo). Si sdraia davanti all’ascensore per impedire a Paolo Guzzanti di andare in un altro giornale. Una domenica conclude l’editoriale preannunciando per la settimana successiva un articolo su Spinoza. Il Foglio di Giuliano Ferrara, uno dei suoi più cari nemici, inizia un count-down quotidiano: meno 6 all’articolessa di Scalfari su Spinoza, meno 5, meno 4... quando la domenica arriva, Scalfari scrive di attualità economica e conclude con un post scriptum beffardo: «Di Spinoza parleremo un’altra volta».
Molto legato alle figlie Enrica e Donata — che gli hanno dedicato un bellissimo film, A sentimental journey —, a un certo punto della vita si accorse che l’amore per lui era diviso in due: Simonetta, la moglie, e Serena, divenuta la sua compagna. Alla fine è stata la morte a tagliare il nodo che lui non poteva e non voleva dipanare. E quando Simonetta morente chiese di spargere sul cuscino il profumo che le aveva regalato Serena, Eugenio Scalfari poté sciogliere nel pianto il dolore proprio e altrui.
Come dei sacerdoti, anche di lui si può dire che sia stato giornalista in eterno, sino all’ultimo giorno: e pure i suoi concorrenti non potevano che vedere in Scalfari, dopo la scomparsa di Indro Montanelli — cui lo accomunava un’affettuosa rivalità —, il decano del nostro mestiere. E se, come ha scritto, «il solo modo per difenderci dalla morte» è vivere dentro le persone che ci hanno amato, stimato, voluto bene, e anche avversato, allora lui forse è davvero immortale.
Antonio Polito per il Corriere
Alla fine del punto pomeridiano sulla prima pagina, Eugenio ci prese da parte e ci disse: domenica venite a pranzo da me a Velletri, vi devo parlare. Velletri era il suo buen retiro, una villetta a un’ora da Roma, perfetta per il weekend del direttore di un giornale, che non è mai veramente in vacanza.
L’invito ci sorprese: pur essendo collaboratori molto stretti di Eugenio, i suoi redattori capo, Mauro Bene e io, non foss’altro che per ragioni anagrafiche, non eravamo nel suo circolo di amici. Ma il clima era così surriscaldato a Piazza Indipendenza, sede della Repubblica, in quel 1990, che intuimmo subito il tema. Silvio Berlusconi, allora non ancora in politica ma già l’editore più «politico» che si potesse immaginare, stava per prendersi la Mondadori e diventare padrone di Repubblica. La cosa era inaudita. Nel senso che il giornale fondato da Scalfari era il nemico numero 1 del Cavaliere, l’ostacolo più grande alla sua ascesa, anche per la capacità di Eugenio di influire su Parlamento e partiti.
Ciò che Scalfari ci chiese quella domenica a Velletri era dunque se eravamo pronti a lasciare la nave per far salpare «una scialuppa». Disse proprio così. Le metafore guerriere gli piacevano. Le battaglie vinte dal principe di Condè e dagli «straccioni di Valmy» erano quelle che preferiva per descrivere le sue campagne politiche. Di noi — soldatini alla sua corte — diceva napoleonicamente che «portavamo nel nostro zaino il bastone di maresciallo».
Un narciso buono
Era un narciso di prima grandezza, ma non del genere, corrivo e oggi volgarmente diffuso, che umilia o irride l’amor proprio altrui. Bensì del genere elegante e suadente che carezza, titilla e corteggia il narciso in ognuno di noi
La «scialuppa» era un nuovo giornale. Il piano B, se davvero la sua creatura, nata nel 1976, baciata da un enorme successo di pubblico e critica, fosse finita nelle mani dell’odiato Cavaliere. E con noi voleva discutere — dopo una nostra dichiarazione pregiudiziale di fedeltà perinde ac cadaver — chi arruolare nell’avventura, come condurla, quante pagine, che tiratura. Confesso che cominciammo a mettere nero su bianco i nomi dei fedelissimi. Del titolo della testata non si parlò: la chiamavamo in codice «la scialuppa».
Come è noto, il nuovo giornale di Scalfari non nacque mai, grazie a Giulio Andreotti. Più tardi Scalfari l’avrebbe definito «Belzebù», quando fu accusato di rapporti con la mafia. Ma a quel tempo il felpato leader democristiano fu decisivo per fermare la «battaglia di Segrate» per la conquista di Mondadori. Non voleva concedere a Craxi, alleato del Cavaliere, l’enorme potere mediatico che si sarebbe concentrato nelle sue mani, espugnando il giornale nemico e aggiungendolo alla dote delle testate Mondadori. Andreotti mobilitò così, come negoziatore, niente di meno che Giuseppe Ciarrapico; il quale riuscì, insieme con il principe Caracciolo coeditore di Scalfari, a raggiungere un accordo di spartizione: Panorama, Epoca e tutto il resto al Cavaliere, Repubblica e l’Espresso a De Benedetti. Per la cronaca, va aggiunto che il giudice Vittorio Metta e l’avvocato Cesare Previti vennero poi condannati per corruzione in atti giudiziari, per una sentenza favorevole al Cavaliere.
Modernizzatore
Può essere accostato al nemico Berlusconi: grandi modernizzatori della comunicazione nell’Italia post anni ‘70. Il Cavaliere sul versante nazional-popolare, lui sul fronte del giornalismo impegnato, militante e di sinistra
Scalfari era un narciso di prima grandezza. Ma non del genere, corrivo e oggi volgarmente diffuso, che umilia o irride l’amor proprio degli altri. Bensì del genere elegante e suadente che carezza, titilla e corteggia il narciso che è in ognuno di noi. Grande seduttore! Gli bastava un quarto d’ora per convincerti che per lui eri la persona più importante del mondo, con l’eccezione di se stesso ovviamente (ha scritto anche un libro dal titolo «Incontro con Io»). È diventata leggenda la scena madre che fece quando Paolo Guzzanti, sua firma prediletta, andò a dirgli che si dimetteva per passare a un altro giornale: Scalfari si gettò ai suoi piedi, mettendosi tra lui e la porta. Doveva passare sul suo corpo, disse.
Se non fosse stato del genere «narciso-buono», non sarebbe mai riuscito d’altronde a tenere al tavolo della riunione di redazione del lunedì, a varie riprese e in varie epoche, Enzo Biagi e Alberto Ronchey, Giorgio Bocca e Giampaolo Pansa, Mario Pirani e Natalia Aspesi, Enzo Golino e Rosellina Balbi, Bernardo Valli e Piero Ottone; tutte prime donne, come si diceva un tempo quando le firme femminili sui giornali erano davvero poche.
Le metafore belliche
Paragonava le sue campagne alle imprese del principe di Condé e degli «straccioni di Valmy»
In quanto a capacità di seduzione — spero che il suo fantasma non mi perseguiti per questo giudizio — può essere accostato all’arci-nemico Berlusconi. Entrambi sono stati, a mio parere, grandi modernizzatori della comunicazione nell’Italia uscita dal trauma degli anni Settanta. L’uno, il Cavaliere, sul versante nazional-popolare della tv commerciale. L’altro, Barbapapà, sul fronte del giornalismo impegnato, militante e di sinistra, ma con una grafica, un formato, un linguaggio, una titolazione, uno stile della casa mai visti prima, e rivelatisi in definitiva molto popolari anch’essi.
Per dare un’idea del suo assolutismo democratico, basti questo episodio. Quando decisi di lasciare Repubblica — lui non era più direttore — per fondare un piccolo giornale corsaro allora chiamato Il Riformista, lui mi telefonò per dissuadermi con questo argomento: «Se fai un giornale simile al nostro, è inutile. Se fai un giornale diverso dal nostro, è dannoso». Après lui, le déluge.
Carlo Verdelli per il Corriere
H a succhiato la vita fino all’ultima stilla. E la vita ha succhiato lui fino a trasformarlo, negli anni finali, in un legno nodoso e asciutto, con le gambe insicure, le mani tremanti avvinghiate a un bastone, la pelle del viso tirata come un velo troppo corto su zigomi e guance, addolcite da quel che rimaneva della sua proverbiale bianca barba. Solo gli occhi resistevano all’assedio sempre più implacabile del tempo. Occhi che si inumidivano ai ricordi cari riscattati dalla notte della memoria, restavano vigili e concentrati quando il discorso piegava su temi che ridestavano mai sopiti ardori, si accendevano di una luce propria, inestinguibile, se appena si sfiorava l’argomento della vita, o almeno di una lunga parte della sua vita: il giornale, il suo giornale.
Eugenio Scalfari non ha soltanto fondato la Repubblica, il quotidiano che non c’era e che con lui, dal lontanissimo 1976, ha cambiato il modo di fare quotidiani in Italia, e informazione in generale. L’impresa vera è che ha creato una casa, ospitato una comunità grande che non aveva un posto dove ritrovarsi, inventato una lingua diventata la lingua di chi la frequentava. Una casa nel campo vasto e allora incolto di quella che una volta si chiamava sinistra e poi area democratica e adesso chissà. E ha forgiato uno per uno, una per una, le persone della sua Repubblica, dai giornalisti agli autisti, insegnando e all’occorrenza imponendo uno stile proprio, riconoscibile, e insieme infondendo l’orgoglio di essere parte di un’impresa culturale e civile che non aveva precedenti e difficilmente avrà seguiti, a parte qualche inconsistente tentativo di imitazione.
Il vuoto che lascia la sua assenza è di quelli che non si riempiono. Semmai lo si frequenta stando ai bordi, ricordando e onorando un formidabile costruttore, finché resterà a qualcuno la voglia di tenere accesa la torcia della memoria a illuminare radici che hanno dato fiori e frutti inconfondibili, impermeabili alle tempeste del tempo.
Non ho avuto la fortuna di incontrarlo quando era capitano coraggioso e spavaldo al timone della più innovativa nave corsara del giornalismo italiano, e nemmeno nella buona stagione in cui ha lasciato ad altri il comando pur restando nel cassero più alto a vegliare sulla rotta di quella che nel frattempo era diventata una corazzata. Ma conservo come un dono le ore passate con lui, nel suo autunno di patriarca, capace di dolcezze umane che forse si era negato quando ancora andava in via Veneto e, prendendola per la coda, faceva girare Roma e tutto quel che gli ballava intorno.
Mancherà come mancano i beati pochi capaci di imprese che altri, pur dotati di notevolissimi talenti, nemmeno tentano. Mancherà al nostro giornalismo, sempre più povero di maestri, lui che aveva coltivato la maestria, propria e negli altri, con la cura di un giardiniere. Non mancherà a tanti che invece fingeranno una consapevolezza del lutto che manco li sfiorerà. La democrazia, tendenza sinistra, ha perso un faro che era già stato tagliato fuori dalle rotte molto prima che finisse di spegnersi da solo. Altre le vie, altri i fari. Buon riposo, Eugenio.
Aldo Grasso per il Corriere
Mi auguro che Techetecheté riproponga un’intervista di Mixer del 1981. Giovanni Minoli stimolava i ricordi di Eugenio Scalfari sul «Mondo» di Pannunzio, gli chiedeva di rispondere alle opinioni date su di lui da alcuni giornalisti come Bocca e Montanelli, lo solleticava sul «vizio» dello scrivere. Mi auguro che Rai Storia riproponga Della vita e del potere, un lungo dialogo tra Scalfari e Paolo Mieli del 2004: «Non sono un dittatore — mente con sublime civetteria Scalfari —, non sono un monarca. Posso essere, e sono stato, il primus inter pares… Non sono mai stato un dittatore, e ho sempre cercato di allevare dei talenti che potessero, appena fosse il caso, appena io sentissi terminata la fase, sostituirmi…».
Mi auguro che La7 rimandi in onda una memorabile puntata di Otto e mezzo condotto da Giuliano Ferrara del 2006. Scalfari aveva scritto che nella sua trasmissione gli ospiti di Ferrara erano presenti soltanto «per far rifulgere le capacità del matador». Ferrara non aveva mai celato il suo dissenso alle opinioni di Scalfari, spesso in toni canzonatori. Ma che incontro civile, che alto livello! E spero anche che La7 rimandi in onda una puntata delle Invasioni barbariche di Daria Bignardi del 2008. Piccato da alcune osservazioni della conduttrice, Scalfari spiega a Bignardi, con sguardi paterni e buone maniere, come pausare di più le domande, senza necessariamente soverchiare il proprio interlocutore. Mi auguro che Rai 3 riproponga Scalfari. A Sentimental Journey, un racconto appassionato sulla vita del famoso giornalista, realizzato dalle sue due figlie Enrica e Donata del 2021. Ne esce un quadro vivido, striato di humour e di lacrime: «Questo crudele mestiere e il senso che se ne trae hanno poco a che spartire con solidarietà e compassione, richiedono un carattere addestrato al combattimento, una vocazione a vincere più che a soccorrere». È morto il 14 luglio, giorno della presa della Bastiglia.
Paolo Guzzanti intervistato da Paolo Conti per il Corriere
Guzzanti: con lui anni irripetibili, mi impedì di passare al Corriere
Paolo Guzzanti, l’episodio fa parte della mitologia del giornalismo italiano. Eugenio Scalfari che si stende davanti all’ascensore della redazione de «la Repubblica» per impedire il tuo trasloco al «Corriere». Come andò?
«Era il 1984 e avevo già firmato un accordo con Piero Ostellino. Avevo voglia di cambiare. Gli chiesi di finire il mio servizio da Varsavia sull’assassinio di padre Jerzy Popielusko. Una sera trovai un telegramma in albergo: “Sono stato a Milano Stop Non aggiungo altro”. Tornai di corsa a Roma...».
E a Roma?
«Corsi in redazione. Scalfari, fingendo di non vedermi e parlando col vicedirettore Gianni Rocca, cominciò a dire a voce alta e davanti alla redazione (e qui Guzzanti imita alla perfezione la voce dell’originale): “Se davvero Guzzanti volesse andare al Corriere della Sera dovrebbe usare l’ascensore. Se io mi stendo qui davanti, significa che deve passare sul mio corpo, capisci?”. Arrotolò la giacca, ne fece un cuscino, cominciò a stendersi. Applausi fragorosi di tutta la redazione. Scrissi una lettera di miserevoli scuse a Ostellino...».
Com’era lavorare con lui?
«Anni irripetibili con un uomo fantastico che ti ordinava: “Ora parti, vai dove vuoi e mi racconti la storia della nascita della borghesia europea”. E mi lasciava in portineria il volume Adelphi con il carteggio dei fratelli Pietro e Alessandro Verri tra il 1766 e il 1767... Chi, se non lui?».
Senti di dovergli molto?
«Molto? Tutto. Direi tutto ciò che penso, anche in contrasto con lui».
Conflitti?
«Durissimi, durante il caso Moro. Lui era contro ogni trattativa, io e altri in redazione a favore. Tra noi ci fu una frattura emotiva, anche amicale, nei rapporti personali».
Vulcanico
Una volta mi ordinò: “Ora tu parti, vai dove vuoi e mi racconti la storia della nascita della borghesia europea”.
Mi lasciava i libri della Adelphi in portineria
Vi siete voluti bene?
«A un certo punto, io ero alla Stampa, seppi che c’era stata una gran cena da Sandra Verusio in cui era stato decretato che io dovessi finire nel cono d’ombra del gruppo. Significava che se incontravi qualcuno per strada, cambiava marciapiede. Un giorno lo vidi e gli dissi: “A me, di finire nel cono d’ombra mi fa un baffo, tanto continuerò a volerti bene”. E lui: “Anch’io credo di volerti bene”. Non: “ti voglio bene”. Ma “credo di volerti bene”...».
Scalfari era famoso anche per le inimicizie.
«Aveva bisogno di grandi nemici per affrontare grandi battaglie e fare un grande giornale. Il suo contrasto con Craxi occupò i pensieri dell’Italia per anni».
Il suo giornalismo era colto, letterario...
«Durante le riunioni citava continuamente i Promessi Sposi come sterminato catalogo delle tipologie umane italiane. E Ariosto. Il suo immenso fascino gli consentiva di aprire dibattiti sia su ciò che padroneggiava alla perfezione, penso all’economia, sia su materie su cui era orecchiante, per esempio l’arte contemporanea: ma frequentava personaggi di altissimo livello e gli bastava ascoltarli per impadronirsi del tema».
Un difetto?
«Tra i tanti (ride) la sua capacità di troncare importanti rapporti umani, amicali e credo anche sentimentali, in un istante e senza spiegazioni».
L’aspetto che amavi di lui?
«L’autoironia. Un giorno arrivò in redazione e gettò sul tavolo una copia del libro “Il cittadino Scalfari” di Claudio Mauri, uscito nel 1983. Disse a voce altissima: “Qui c’è scritto che io sarei stato prima fascista, poi monarchico, quindi liberale, dopo radicale, e poi socialista, quindi comunista e infine democristiano”. Una pausa teatrale: “Ebbene, è tutto vero”. Cosa puoi dire a un uomo così?».
Antonio Carioti per Il Corriere
Con l’addio di Eugenio Scalfari, scomparso ieri all’età di 98 anni, il giornalismo italiano perde una delle sue figure di maggior rilievo in assoluto. Sempre al centro di discussioni e polemiche, è stato l’inventore di un nuovo modo, più diretto e avvincente, di raccontare la politica e l’economia, senza paura di schierarsi in modo netto quando lo riteneva opportuno. Per questo la sua creatura più importante — il quotidiano la Repubblica, fondato nel 1976 — è stata spesso descritta come un «giornale-partito», per la perseveranza e l’aggressività con cui conduceva sotto la sua guida alcune battaglie di enorme importanza per gli equilibri delicati dell’Italia repubblicana.
Sul piano culturale Scalfari si collocava nell’ambito della sinistra laica. Da giovane, come aveva raccontato nel famoso libro di memorie La sera andavamo in via Veneto (Mondadori, 1986) si era formato nell’ambiente liberaldemocratico, con venature azioniste, che ruotava intorno al settimanale Il Mondo, diretto da Mario Pannunzio, sul quale scrivevano due grandi personaggi molto lontani tra loro, Benedetto Croce e Gaetano Salvemini. In politica era stato esponente del Partito radicale negli anni Cinquanta, ma più avanti aveva avuto notevoli contrasti con Marco Pannella. L’unica breve esperienza parlamentare di Scalfari era stata nelle file socialiste, ma poi era stato un avversario strenuo di Bettino Craxi, che lui aveva paragonato al fuorilegge medievale Ghino di Tacco.
Aveva intrecciato un dialogo costante con il Partito comunista, specie ai tempi di Enrico Berlinguer, nell’intento di favorirne l’occidentalizzazione, che aveva dato per compiuta forse con troppo anticipo. Illuminista di vecchio stampo, dichiaratamente libertino sul piano filosofico e per certi aspetti anche anticlericale, coltivava tuttavia una propria acuta sensibilità spirituale e aveva trovato un interlocutore in papa Francesco.
Penna vivace e a volte fluviale, conversatore brillante e salace, uomo amante della musica (suonava il pianoforte), Scalfari aveva notevolissime doti manageriali e sapeva valorizzare i talenti giornalistici delle sue testate, che dirigeva con piglio dinamico quanto paternalistico. Quando lui era giunto al timone, L’Espresso aveva ottenuto risultati lusinghieri. Con la Repubblica aveva dato vita a un prodotto senza dubbio innovativo, che dopo le difficoltà iniziali si era dimostrato in grado di rivaleggiare da pari a pari con quotidiani di consolidata tradizione storica.
Nato il 6 aprile 1924 a Civitavecchia, cittadina della quale era originaria la madre, Scalfari si trasferisce da ragazzo per tre anni con la famiglia a Sanremo, dove il padre, calabrese di Vibo Valentia, lavora al casinò: nella città ligure frequenta il liceo e il futuro scrittore Italo Calvino è il suo compagno di banco. Dopo l’esperienza giovanile a Roma nei Gruppi universitari fascisti, da cui viene espulso nel 1943 alla vigilia della caduta del regime di Benito Mussolini, si colloca su posizioni liberali. Si laurea in Giurisprudenza nel 1945, poco dopo la fine della guerra.
A scuola con Italo Calvino
Da ragazzo vive per tre anni con la famiglia a Sanremo, dove il padre, calabrese di Vibo Valentia, lavora al casinò: nella città ligure frequenta il liceo e il futuro scrittore Italo Calvino è il suo compagno di banco
Da impiegato alla Banca nazionale del lavoro, dove viene assunto all’ufficio estero nel 1947, Scalfari muove i primi passi come giornalista, collaborando con due settimanali di grande prestigio: Il Mondo di Pannunzio, già menzionato, e L’Europeo, diretto da Arrigo Benedetti. Nel 1954 sposa Simonetta De Benedetti, figlia del direttore della Stampa Giulio De Benedetti, dalla quale ha due figlie: Enrica e Donata. Più avanti, senza mai divorziare dalla moglie, si legherà sentimentalmente a Serena Rossetti, che sposerà dopo la morte di Simonetta, avvenuta nel 2006.
Nel 1955 Scalfari aderisce al Partito radicale, nato da una scissione a sinistra dei liberali guidati dal moderato Giovanni Malagodi: tra i dirigenti del nuovo raggruppamento ci sono personalità del prestigio di Nicolò Carandini, Ernesto Rossi, Leo Valiani, Mario Pannunzio. Sempre nel 1955 fonda assieme ad altri, con l’appoggio economico dell’imprenditore illuminato Adriano Olivetti, il settimanale L’Espresso, di cui diventa direttore amministrativo, mentre il direttore responsabile è Arrigo Benedetti. Poi nel 1963 Scalfari subentra alla guida giornalistica del periodico, di cui è divenuto anche azionista, e lo porta a grossi traguardi di diffusione. Nel 1967 L’Espresso, con una serie di articoli firmati da Lino Jannuzzi, attacca il generale Giovanni De Lorenzo, capo di stato maggiore dell’esercito ed ex comandante del servizio segreto militare Sifar, sospettato di precedenti manovre golpiste quando era al vertice dei carabinieri (il «piano Solo»). Scalfari e Jannuzzi sono querelati da De Lorenzo e condannati in primo grado, benché il pm Vittorio Occorsio (che anni dopo fu assassinato dal terrorismo nero) avesse chiesto l’assoluzione.
Eletto deputato socialista nel 1968 in conseguenza di queste vicende, Scalfari abbandona la direzione dell’Espresso, ma conserva l’incarico amministrativo: rimane alla Camera una sola legislatura, fino al 1972. Nel 1974 pubblica con Giuseppe Turani il libro Razza padrona (Feltrinelli), in cui prende di mira alcuni esponenti molto in vista del potere economico legati anche alla politica, in particolare il presidente della Montedison Eugenio Cefis.
Nel 1976 Scalfari fonda il nuovo quotidiano la Repubblica, di cui assume la direzione, e nel giro di pochi anni riesce a imporlo come uno dei più influenti e popolari organi di stampa del nostro Paese: dopo un avvio in sintonia con i socialisti, il giornale si avvicina al Pci di Berlinguer, di cui Scalfari raccoglie in una famosa intervista la presa di posizione sulla «questione morale», dopo il tramonto della strategia del compromesso storico. Critico verso il leader del Psi Craxi e favorevole al segretario democristiano Ciriaco De Mita, Scalfari negli anni Ottanta diventa un protagonista assoluto della vita pubblica, mentre il controllo del gruppo editoriale Espresso, che comprende anche la Repubblica, passa alla casa editrice Mondadori. Nel 1989 scoppia il conflitto tra l’imprenditore piemontese Carlo De Benedetti e il magnate delle tv private Silvio Berlusconi per il controllo della Mondadori. Scalfari si schiera nettamente dalla parte del primo: la disputa dura fino al 1991, quando si arriva a una spartizione che assegna il gruppo Espresso a De Benedetti e il resto della Mondadori a Berlusconi. In seguito la Repubblica sarà capofila dell’opposizione al proprietario della Fininvest come leader politico con punte anche di notevole asprezza nella contesa.
Nel 1996 Scalfari lascia la direzione del quotidiano da lui fondato, ma continua regolarmente a scrivere i suoi autorevoli editoriali. Si fa più intensa la sua attività di saggista e scrittore. Dopo La sera andavamo in via Veneto, che resta il libro più noto e meglio riuscito da lui firmato, pubblica testi di riflessione filosofica sui grandi temi della vita e dell’etica, come Incontro con Io (Rizzoli, 1994) e Alla ricerca della morale perduta (Rizzoli, 1995), quindi i romanzi Il labirinto (Rizzoli, 1998) e La ruga sulla fronte (Rizzoli, 2001). I suoi libri più recenti hanno un taglio autobiografico e intimistico: L’uomo che non credeva in Dio (Einaudi, 2008); Per l’alto mare aperto (Einaudi, 2010); Scuote l’anima mia Eros (Einaudi, 2011); L’amore, la sfida il destino (Einaudi, 2013); L’allegria, il pianto, la vita (Einaudi, 2015). Un analogo taglio hanno le confidenze di varia natura riversate da Antonio Gnoli e Francesco Merlo nel volume Grand Hotel Scalfari (Marsilio, 2019). I testi relativi alla sua interlocuzione con papa Francesco sono raccolti nel libro Dialogo tra credenti e non credenti (Einaudi, 2013).
Paolo Guzzanti per il Giornale
Quando eravamo molto amici e lavoravamo insieme capitava di sfiorare l’argomento della morte e Eugenio Scalfari sorridendo mi diceva: quando arriverà il momento pensaci tu. Adesso il momento è arrivato e trova disarmato me e tutti coloro che l’hanno conosciuto e coloro che lo hanno adorato. Io appartengo alla seconda schiera: fino alla metà degli anni Ottanta adorai quest’uomo unico, irripetibile e non paragonabile ad alcun altro giornalista italiano o straniero. Tanto per cominciare Scalfari non era un giornalista ma lo diventò quando fece un suo giornale ai tempi dell’Espresso e poi più ancora quando fondò quasi per ripicca il rivoluzionario quotidiano in formato tabloid che si chiama Repubblica. Con quel giornale straccio tutte le tradizioni dei quotidiani canonici, inventò la riunione di redazione come messa solenne, fece sparire la terza pagina di cultura inventando un paginone che si ampliò ai dibattiti e alle arti. Scalfari puntava sulle firme più scintillanti dell’epoca e aveva un rapporto di odio amore con l’unico che gli potesse tener testa: Indro Montanelli.
Con coraggio spudorato, lui come Giorgio Bocca, Indro Montanelli e pochissimi altri rievocava con nostalgia incolpevole l’incommensurabile amore che aveva avuto per il fascismo di cui apprezzava prima di tutto la sgargiante uniforme con lo spadino. In mezzo alla guerra, scrisse due articoli per il giornale studentesco in cui sosteneva che il fascismo purtroppo cadeva perché tradito da affaristi, magnoni, parassiti. Il segretario fascista dell’epoca, certo Costa, lo convocò nella sede del partito e gli chiese brutalmente di fare i nomi di questi traditori. Il giovane fascista Scalfari non aveva alcun nome da offrire perché, come confessò, aveva inventato tutto per farsi bello davanti ai gerarchi. E così fu letteralmente spogliato dal segretario fascista che dopo avergli strappato le mostrine alla maniera di Dreyfus, lo schiaffeggiò gridandogli di andare fuori dal partito fascista, che non aveva bisogno di cialtroni come lui. Invitato in televisione a parlare del libro in cui raccontava questa storia, modifico con un colpettino gli avvenimenti che aveva da poco stampato in questo modo: mi rendevo conto già allora che il fascismo fosse fradicio e che avesse bisogno di un potente scrollone per essere abbattuto nella guerra ormai persa. Non era vero, stava inventando, così come ha sempre fatto, in maniera letteraria, ai limiti dell’innocenza. Scalfari ha creato un tipo di giornalismo «da campagna»: cioè che agisce soltanto per raggiungere un fine politico si tratti di attaccare a sangue Bettino Craxi, poi Silvio Berlusconi e poi tutti i nemici di Ciriaco De Mita, incluso Francesco Cossiga il quale per anni andò a pranzo a casa sua ogni venerdì ma poi divento il matto da cacciare dal Quirinale. Eugenio inventò anche un’arma segreta: il cono d’ombra. Non è soltanto una figura retorica. È uno strumento di tortura che equivale alla morte civile. Io lo so perché l’ho sperimentato: ero passato alla Stampa, rompendo con i sodalizi e l’autocompiacimento della antica casa madre di Repubblica.
Ma ci siamo sempre voluti bene ugualmente. È questo fa onore a lui che è stato un grandissimo combattente quasi mai dalla parte giusta. L’ultima volta lo incontrai in una piccola libreria antiquaria. Arrivò sorretto da due giovani che gli permettevano di camminare malgrado una forma di artrosi molto fastidiosa. All’inizio finse di non riconoscermi, poi mi comunicò che ero molto cambiato e non sembravo più me stesso. Erano parole che significavano: ti ho perdonato e sei autorizzato a rivolgermi la parola. Gli raccontai che cercavo dei libri sul 1943 per scrivere di quell’anno e lui esclamò: «Il 1943 fu un anno ancora fascistissimo. Purtroppo il mio amico Italo Calvino aveva la strada facile per sfuggire al servizio militare: bastava che aprisse la porta posteriore della sua casa in montagna e se ne andava nei boschi facendo il partigiano. Io, dietro la porta di casa mia, avevo il Vaticano e dunque feci il partigiano dentro la Santa Sede. Italo Calvino fu il suo tormento oltre che il suo compagno di banco al liceo di Sanremo dove la famiglia Scalfari si trovava perché il padre di Eugenio dirigeva il casinò. Racconteranno più tardi entrambi, Eugenio e Italo, che il futuro autore del Cavaliere inesistente era già diventato in cuor suo comunista e lo comunico con segreta trepidazione all’amico Eugenio che viceversa era un patriottico monarchico oltre che fascista. Più tardi Italo Calvino scrisse delle lettere ferocissime contro l’amico Eugenio criticando quella che a lui sembrava pura codardia, incapacità di scegliere di fronte alla tragedia in cui l’Italia fascista si era ficcata.
Scalfari era entrato in politica per caso: condannato in primo grado con Lino Jannuzzi per gli articoli pubblicati sull’Espresso in cui si raccontava di un ipotetico golpe ordito dal presidente Segni e dal comandante dei carabinieri (storia che si rivelò poi del tutto falsa), Scalfari chiese aiuto al segretario del partito socialista Giacomo Mancini che candido lui a Milano e Jannuzzi a Sapri. Eletti entrambi Eugenio si scatenò in una guerriglia all’interno del partito socialista contro Bettino Craxi, il quale vinse l’ultimo round facendo pubblicare sul Corriere della Sera la notizia secondo cui Scalfari avrebbe pronunciato le fatidiche parole «lei non sa chi sono io» a un vigile urbano milanese. Trombato alle elezioni tento di rientrare all’Espresso come direttore ma trovo uno sbarramento. Fu allora che concepì la sua grande opera e la sua grande vendetta: Repubblica. Poco prima che il giornale uscisse mi telefono in Calabria, dove lavoravo, per assumermi e il 14 gennaio del 1976 cominciò quell’avventura di alta e divertente pirateria con Giorgio Forattini che disegnava la vignetta. C’erano firme strappate al Giorno come Giorgio Bocca e Natalia Aspesi e un pattuglione di ragazzi di cui molti diventarono famosi. Quel giornale fu così potente che nella stanza di Eugenio vidi nascere e morire parecchi governi, cosa che appagava il suo Ego barbuto ed elegante.
Scalfari era prima di tutto un politico, componeva e scomponeva alleanze, diceva di detestare Berlusconi ma poi si scoprì che andava ad Arcore per suonare assieme al fondatore di Forza Italia e a Fedele Confalonieri al pianoforte la rapsodia in blu di Gershwin. Quando Carlo De Benedetti che era diventato il suo editore lo venne a sapere, decise di farlo fuori e di consegnare l’aulico trono di Eugenio al giovane e più fidato Ezio Mauro. Fu così che Scalfari che era anche un realista chiese e ottenne di poter fingere di essere stato lui a scegliere Mauro e di poter vedere il proprio nome sotto la testata con la definizione di Fondatore.
Eugenio Scalfari è stato un personaggio rinascimentale, dotato di una cultura specialmente economica ma anche letteraria di primissimo ordine, con un senso settario delle amicizie, un umorismo spiccato e, cosa che più di tutte mi colpì quando lo conobbi, innamoratissimo delle sue due figlie che poi gli dedicarono un bellissimo documentario mandato in onda da Raitre pochi mesi fa. Disse di non temere la morte. È inevitabile, a che vale prendersela. Aveva già accompagnato al cimitero quasi tutti i suoi amici più cari.
Stenio Solinas per il Giornale
Nel 1976, quando Eugenio Scalfari fondò La Repubblica, aveva davanti a sé una florida prateria editoriale ben fortificata, ma a macchia di leopardo. L’unico quotidiano autenticamente nazionale, nonché organo del Pci, era L’Unità, con le sue sedi locali sparse per tutta la penisola, c’era poi Il Giorno a Milano, Paese sera a Roma, un po’ di quotidiani generalisti di provincia e tutta una pletora di giornali militanti della cosiddetta ultrasinistra, a cominciare dal Manifesto per finire a Servire il popolo. Due anni prima, nella più ristretta e spelacchiata prateria editoriale di destra, Indro Montanelli aveva fondato il Giornale, con l’obiettivo di dar voce a un mondo minoritario che voce non aveva. Intelligentemente Scalfari fece sul versante opposto la stessa scelta, un quotidiano-mondo in cui si potesse riconoscere tutto quel ceto medio progressista acculturato, un po’ a disagio con i giornali di partito, genericamente di sinistra, ma non necessariamente comunista, desideroso di vedere riconosciuto il suo ruolo di borghesia illuminata lì dove era tutto un tripudio di classe operaia, gioventù protestataria e lavoratori della Cgil.
Un quotidiano-mondo, non un quotidiano-partito, si badi bene. Scalfari era perfettamente a suo agio nel ruolo di consigliere del Principe, indipendentemente da chi fosse il Principe, quanto a disagio nello scegliere il Principe giusto e infatti le volte che scommise su un cavallo politico (il caso De Mita è l’esempio più clamoroso) regolarmente quel cavallo politico perse la corsa. Consigliere, del resto, vuol dire comandare per interposta persona, nonché concedere o negare i favori di un’opinione pubblica che nel quotidiano scalfariano credeva di vedersi riflessa come in uno specchio, accattivante e sprezzante, libertina e un po’ corsara, convinta di essere la parte sana di una nazione infetta. C’era molto del marchese del Grillo in Scalfari, così come nei suoi lettori, un processo di osmosi che ha pochi precedenti.
Finché Scalfari è rimasto alla guida del suo giornale, quel mondo, che era poi anche uno stile di vita e, se si vuole, un modello comportamentale, con i propri tic, i propri tabù, le proprie miserie e le proprie grandezze, gli è rimasto fedele, al punto che si poteva indovinare il lettore di Repubblica per come si presentava vestito all’edicola, il concentrato dello shabby chicLasciato lui il timone, quel mondo si è andato via via appannando, così come andava appannandosi il suo specchio-giornale, e sempre più è subentrata la caricatura dell’uno come dell’altro. Venuta meno un’egemonia giornalistico-culturale, anche perché era andato intanto modificandosi radicalmente il campo sociale, economico e politico, tutto ha finito con l’assumere un sapore surreale, come quando in un palazzo signorile il maggiordomo si illude di sostituire il padrone di casa improvvisamente scomparso.
Fuori di metafora, di quel giornale-mondo sono rimasti sparsi frammenti, qualche volta ancora capaci di smaglianti beau geste, più spesso di sterili trombonismi e di interessasti equilibrismi.
Eppure, fino a che è durato, quel lettore-mondo di Repubblica è stato un po’ la cartina di tornasole di cosa si dovesse leggere e di cosa si dovesse vedere al cinema, quali trasmissioni scegliere in tv, quale opinione corretta indossare nei salotti o nelle piazze, persino dove andare in vacanza, un concettato di conformismo maggioritario travestito da élite alternativa...Un universo a sé stante che bacchettava l’altra Italia lazzarona e nullafacente, maschilista e retrograda. E poco importa se poi i suoi abitanti, tornati a casa, si mettessero le dita nel naso e dessero della serva alla colf filippina. Leggere la Repubblica li rendeva comunque mondi dal peccato mortale di essere italiani alle vongole. Erano e restavano gli antitaliani, come da insegnamento scalfariano. Ovvero vongolari anche loro, ma con la puzza al naso e il mignolo alzato.
Alessandro Gnocci per il Giornale
Per quanto riguarda la caduta del fascismo, gli intellettuali antifascisti sono stati quasi del tutto ininfluenti. La maggior parte si acquattò negli anfratti del Regime, attendendo in silenzio la fine del fascismo per poter meglio raccogliere il potere culturale. Tra questi c’era anche Eugenio Scalfari, antifascista al caffè con gli amici, in camicia nera sui giornali dell’epoca, Roma Fascista, e con maggior coerenza e fedeltà alla battaglia spirituale del Duce, Gioventù italica e Conquiste d’Impero.
Scalfari si riteneva l’erede di Mario Pannunzio e della storia, parallela in molti momenti a quella del Partito liberale e radicale, di giornali come Risorgimento liberale e il Mondo. Peccato che Mario Pannunzio, nel 1968, prima di morire, diede disposizioni per il suo funerale tra cui spiccava quella di vietare la presenza di Scalfari. In un carteggio con Leo Vallani. Pannunzio dedicò a Eugenio queste parole:«È instabile, femmineo, esuberante. Non ha veri legami né affinità ideali e morali con nessuno. Tutto è strumentale, utilitario; tutto deve servire alla sua splendida carriera. Ha fretta, vuole arrivare. Dove? Forse non lo sa nemmeno». Anche l’amico Italo Calvino, compagno di liceo, accusò Scalfari di opportunismo. Erano ancora giovani. Forse il giudizio era ingiusto ma Scalfari sapeva certamente come muoversi con il potere e prima sposò il moralismo di Berlinguer e poi si accodò alla corrente democristiana di Ciriaco De Mita.
Categorico nelle questioni giudiziarie altrui, Scalfari non esitò a farsi eleggere, nel 1968, nelle liste del Psi al fine di farsi scudo con l’immunità parlamentare di una condanna a 15 mesi di carcere (in seguito al falso scoop sul presunto colpo di Stato noto come piano Solo). Poco incline a perdonare gli errori altrui, Scalfari sarà stato altrettanto spietato con se stesso? Chissà come giudicava l’aver firmato nel 1971, assieme al gregge degli intellettuali, la lettera aperta a L’Espresso sul caso Pinelli, un manifesto che contribuì a isolare il commissario Luigi Calabresi, poi ucciso da un commando di Lotta continua. Con Repubblica, Scalfari fece un miracolo editoriale, che nessuno potrebbe mai negare. Come commentatore, i maligni sottolineano i voltafaccia e gli errori di valutazione. Ad esempio, in campo economico, nel 1959, predisse sull’Espresso il sorpasso dei soviet: «Nel 1972 l’Urss sarà addirittura passata in testa non soltanto come potenza industriale ma anche come livello di vita medio della sua popolazione». Alla fine, quando il mondo cambiò, fu proprio Eugenio Scalfari a diventare il faro della nuova sinistra italiana che aveva abbandonato il marxismo senza rinunciare alla propria autoproclamata superiorità morale. Repubblica dettava la linea. Indicava quali scarpe, libri, viaggi, idee fossero degni di una sinistra illuminata. Negli anni Novanta, Scalfari schierò il giornale contro Silvio Berlusconi e Forza Italia. Nel 1994 firmò questa profezia: «Forza Italia è un partito di plastica che si scioglierà in pochi mesi». Quella contro Berlusconi fu una lotta affidata soprattutto a colpi bassi. Le idee non venivano proprio prese in considerazione. Fu un esame ai raggi x della vita privata di Berlusconi. Paradosso: non molti anni dopo, Scalfari dirà di fidarsi di Berlusconi più di Matteo Renzi. Altro paradosso: Berlusconi fu accusato di tutto, eppure Scalfari, e un’altra tonnellata di scrittori anti Biscione, hanno pubblicato e pubblicano felicemente per i marchi editoriali del leader di Forza Italia. Ed ecco Scalfari spuntare nel catalogo Einaudi con poesie e saggi, fino all’ingresso trionfale nella collana dei Meridiani Mondadori, di solito riservata ai classici. Tra i tomi di Proust e Svevo, c’è lui, il Fondatore, Eugenio Scalfari. Persino Papa Francesco ha baciato la pantofola di Eugenio al quale ha rilasciato interviste regolarmente smentite ma anche regolarmente ripubblicate tali e quali dai canali web del Vaticano.
Pochi uomini sono stati adulati come Eugenio Scalfari, che aveva il potere di lanciare e stroncare carriere intellettuali. Secondo i recensori delle sue opere, il «filosofo» Scalfari «reinventa la forma dello Zibaldone» di Giacomo Leopardi e ricorda Rilke, Montaigne, Rousseau, Keats, Shakespeare, Sterne. Scalfari fu accostato anche a Nietzsche, Croce, Cartesio, Socrate, Eraclito, Parmenide, Proust, Holderlin, Arendt, Valéry, Eckhart e Pascal. Tra i giudizi memorabili, ricordiamo almeno quelli del critico letterario Alberto Asor Rosa e del teologo Vito Mancuso, solo per caso all’epoca entrambi collaboratori di Repubblica. Alberto Asor Rosa: «Le cime della modernità sono scalate dal nostro autore con straordinaria agilità e incredibile capacità comunicativa, che però non diviene mai volgarizzazione». Vito Mancuso: «Cartesio, Spinoza, Kant, Freud ... sono i filosofi che banno contribuito a formare Scalfari, che poi li ha per così dire superati». Avete letto bene: su-pe-ra-ti.
Roberta Amoruso per il Messaggero
«Il giornalista grande», «innovatore». E poi, «politico appassionato» e «protagonista della storia del nostro Paese». E’ soprattutto questo Eugenio Scalfari nei ricordi e nei messaggi di cordoglio di chi l’ha vissuto e condiviso, con tutte le sue contraddizioni, ma anche di chi come Silvio Berlusconi, il nemico storico, lo ha ricordato ieri come il «riferimento per i miei avversari politici», riconoscendo però «il grande direttore e giornalista, che ho sempre apprezzato per la dedizione e la passione per il suo lavoro».
Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, «particolarmente addolorato», ha ricordato il «giornalista, direttore, saggista, uomo politico, testimone lucido e appassionato della nostra storia repubblicana». Un «punto di riferimento coinvolgente per generazioni di giornalisti, intellettuali, classe politica e un amplissimo numero di lettori. Da sempre convinto assertore dell’etica nella società e del rinnovamento nella vita pubblica, si era magistralmente dedicato, negli ultimi tempi, ai grandi temi esistenziali dell’uomo», ha detto Mattarella.
AMICI E AVVERSARI
Papa Francesco, che con il direttore-filosofo ha condiviso «un tratto di cammino», piange l’«amico», conservando «con affetto la memoria degli incontri e delle dense conversazioni sulle domande ultime dell’uomo». A «uno dei più grandi giornalisti del XX secolo» ha reso omaggio Elisabetta Casellati, presidente del Senato, dedicando un minuto di silenzio. Mentre per il premier Mario Draghi, resta «il vuoto incolmabile nella vita pubblica del nostro Paese». Mancherà «la chiarezza della sua prosa, la profondità delle sue analisi, il coraggio delle sue idee» che «hanno accompagnato gli italiani per oltre settant’anni e hanno reso i suoi editoriali una lettura fondamentale per chiunque volesse comprendere la politica, l’economia». «A me mancheranno i nostri confronti, la nostra amicizia», ha concluso il premier.
Per il presidente emerito Giorgio Napolitano rimane alla storia l’«alto senso civico» e l’«indomita passione civile». Massimo D’Alema ha salutato «il compagno di strada della sinistra italiana». Ma il cordoglio coinvolge tutto il mondo politico, da Romano Prodi a Paolo Gentiloni, da Enrico Letta a Matteo Salvini, da Giuseppe Conte a Luigi Di Maio, da Matteo Renzi a Carlo Calenda, da Nicola Zingaretti a Roberto Gualtieri, da Roberto Speranza ad Antonio Tajani.
Lo ha poi ricordato Forattini, vignettista storico di Repubblica, un grande affetto, nonostante gli screzi via interfono, botta e risposta via fax, il graffio della satira su Occhetto o De Mita, amici del direttore. E naturalmente è l’intero mondo del giornalismo a salutare un maestro. Non soltanto i suoi giornalisti che lo chiamavano Barbapapà.
Mario Ajello per il Messaggero
Eugenio Scalfari, ovvero l’uomo che ha creato un giornale partito, e questo mix tra politica e informazione non sempre ha preso le scelte giuste e fatto le campagne più adatte a perseguire il bene del Paese. Dividendolo in maniera netta, noi di qua, voi di là, quando invece un Paese diviso avrebbe avuto e ha bisogno di conciliarsi, di incontrarsi, di mescolarsi. Fuori e oltre gli steccati. Quando invece lo scalfarismo è stato una linea di separazione.
Scalfari, con le sue intuizioni editoriali e con la forza e i limiti di un giornalismo militante, è stato il simbolo del complesso dei migliori. C’è l’Italia sapiente, elegante, libertina, progressista e di sinistra, quella che merita di guidare la politica pur non facendo politica e in cima alla quale si era auto-insediato L’uomo che non credeva in Dio (titolo di libro scalfariano) e dall’altra parte c’è l’Italia alle vongole. Quella arci-italiana, tendenzialmente impresentabile, dedita a tutti i vizi atavici di una storia plurimillenaria che Scalfari - il giornalista scomparso a 98 anni, fondatore di Repubblica e Papa laico, ma ultimamente bergogliano, della sinistra per mezzo secolo - ha sempre creduto di poter giudicare e ha sempre condannato dall’alto di una cattedra morale.
LA TESTA IN PROCESSIONE
Scalfari aveva una idea di sé perfettamente sintetizzata nella descrizione che ne ha fatto il suo amico Carlo Caracciolo, l’editore con cui ha condiviso tutto compreso il successo di un’impresa giornalistica in concorrenza con le altre non meno importanti e innovative della loro: «Eugenio porta la testa come il Santissimo in processione».
A dispetto dell’infatuazione spirituale e filosofica degli ultimi decenni, che ha prodotto volumi su Eros, su Nietzsche, su Pascal, su Montaigne, su La ruga sulla fronte e su altre profondissime altitudini, egli è stato uomo da battaglia.
Convinto che la ragione, che per lui era sempre maiuscola, La Ragione, fosse esclusivamente nel luogo dove si trovava lui. Ed ha agito - dai tempi in cui fondò L’Espresso e poi a Repubblica dal primo numero del 14 gennaio del 76, e sempre in tutti i suoi acerrimi scontri contro Craxi il Ghino di Tacco, contro Berlusconi il Mackie Messer brechtiano e in favore di quella che snobisticamente lui e gli azionisti come lui hanno chiamato una certa idea di Italia - come vero leader della nostra sinistra.
I SUGGERIMENTI AL PALAZZO
In qualità di suggeritore, interprete, censore di chi il Palazzo lo abitava, Scalfari, detto Barbapapà dai suoi giornalisti, era continuamente impegnato a spiegare ai politici - celebre l’infatuazione per De Mita, ma nessuna delle sue passioni ha superato quella per Berlinguer, e comunque egli ha sempre parlato da potere a potere e talvolta da amico con i presidenti della Repubblica - come dovevano abitare il Palazzo. In un tentativo di egemonismo, sui partiti e sui lettori.
In ogni caso, Scalfari è stato uno capace di dire di sé una cosa così: «L’analista non volle curarmi la nevrosi perché, mi spiegò, non poteva smontare uno degli assi portanti dell’opinione pubblica». L’autore della famosa inchiesta sul Sifar per cui fu condannato insieme a Lino Jannuzzi, del libro La sera andavamo in via Veneto e prima ancora di Razza padrona insieme a Giuseppe Turani, era nato mussoliniano però.
LE ORIGINI
I suoi primi articoli comparvero su Roma fascista, la rivista dei Guf. E al referendum del 2 giugno del 46 avrebbe votato per la monarchia. Poi l’ufficio esteri della Banca d’Italia, parlamentare socialista, giornalista, direttore, editore, narratore e la sua amicizia con Italo Calvino da piccoli a Sanremo - il padre di Eugenio, calabrese, era croupier in Liguria - è diventato una sorta di tormentone scritto e orale soprattutto in questi ultimi decenni da parte di Scalfari anziano. La cui grande soddisfazione, oltre all’incontro con Bergoglio che però ha anche smentito certe ricostruzioni dei dialoghi tra di loro, è stata la pubblicazione della sua opera nei Meridiani Mondadori. Ossia la consacrazione di classico ha riempito di gioia e di orgoglio il libertino.
LE PREVISIONI POLITICHE
Sempre eretto con il barbone profetico sulla cattedra del proprio giornale-partito, di solito sbagliava le previsioni politiche. Come quando alla vigilia della travolgente vittoria di Berlusconi nel 2008 scrisse con sicurezza in una delle sue omelie politiche della domenica: «Contro uno così è impossibile perdere». Sempre fedele alla filosofia dell’editore puro, quando vendette per una cifra mai accertata ma che la voce comune indica in cento miliardi di lire la sua quota di Repubblica a Carlo De Benedetti, lo stuolo di scalfariani ci restò malissimo. La redazione in assemblea accolse il discorso del direttore-editore sulla vendita con un silenzio assoluto e Scalfari alzandosi in piedi e stirandosi leggermente i fianchi chiese sottovoce al suo vice Gianni Rocca: «Come mai non applaudono?».
Dunque Scalfari è stato un protagonista importante delle vicende italiane del 900 e oltre. Ma la presunzione di far parte e di rappresentare i migliori non ha giovato completamente alla sua biografia e alla sua opera.
Antonio Padellaro per il Fatto
Ricordo quel mercoledì 14 gennaio 1976, perché quando sulle nostre scrivanie trovammo la prima copia di Repubblica, noi giovani corrieristi nell’ironizzare sul formato tabloid del nuovo giornale (“troppo piccolo”) e sugli articoli impaginati (“troppo brevi”), dall’alto della supremazia di via Solferino sulla stampa italiana (di cui ci sentivamo parte pur non contando nulla) sentenziammo: dura poco. Non avevamo capito niente. Soltanto cinque anni più tardi, infatti, mentre il Corriere della Sera rischiava di affondare squassato dalla tempesta P2, forte del primato di copie – conquistato con la vicenda Moro e grazie alla massiccia campagna acquisti di firme degna del Real Madrid –, Eugenio Scalfari teorizzava la presenza di un solo giornale nazionale, il suo. Con il conseguente ridimensionamento del Corriere a “quotidiano regionale”. Per noi fu come una frustata in pieno volto, e da quel momento la concorrenza fra le due testate fu spietata nel tentativo di superarci giorno dopo giorno. Come capo dell’ufficio romano del Corriere, avamposto della politica interna, ogni mattina “spizzavo” le pagine di Repubblica alla ricerca dei “buchi” dati e di quelli subiti. E non sempre era una lettura felice. Negli anni a venire, con Eugenio diventammo carissimi nemici (dal titolo del fortunato libro di Vittorio Gorresio) a causa, o per merito, del Fatto Quotidiano. Succede che Scalfari accetta di essere intervistato da Silvia Truzzi per una serie di ritratti dedicati ai cosiddetti “Padri della patria”. Ma è fortemente polemico nei confronti del nostro giornale, di cui ero allora il direttore: “Voi del Fatto avete un fucile a due canne: sparate contemporaneamente un colpo su Berlusconi e uno sul Pd”. Alle obiezioni di Silvia, che gli ricorda come l’informazione dovrebbe essere indipendente dalla politica, risponde: “Il Fatto somiglia al Corriere della Sera che centra continuamente le crepe del Pd perché l’ideologia di quel giornale è privilegiare il centro. Il Fatto non si capisce chi privilegi”. Gli risposi qualche giorno dopo ringraziandolo ironicamente di cuore: “È il più bel complimento che ci potevi fare”. Penso che tra noi ci fosse una certa simpatia umana e un giorno che aveva letto sul Fatto un articolo sulla grande amicizia che lo aveva legato a Italo Calvino, mi tenne al telefono raccontando brani inediti della sua vita. A cominciare dalla vera e propria degradazione sul campo subita a opera di un gerarchetto, irritato dalla fronda che Scalfari e altri giovani virgulti conducevano sul giornale del Guf, gli universitari fascisti. Mi mordo ancora le mani per non avere avuto un registratore che rendesse pubblica quella testimonianza straordinaria. In un’altra occasione mi illustrò un sistema infallibile per togliersi di torno i tanti colleghi che dopo aver scritto libri dimenticabili pretendevano da lui un giudizio, possibilmente benevolo. Lui che le pagine di quei tomi lasciava inevitabilmente intonse mi confidò di avere adottato la formula ineccepibile: “Mi compiaccio”. Che non esprimeva alcun giudizio ma allontanava il molestatore di turno, convinto di aver superato l’esame di letteratura. Poi, capitò a me di dare alle stampe un libro e fu lui nei corridoi di via Po, a venirmi incontro, a stringermi la mano e a pronunciare il fatale verdetto: “Caro Antonio, ho ricevuto il tuo volume, mi compiaccio”. Grazie di tutto, anche per quella raffinata lezione di vita, grande Eugenio, carissimo nemico.
Ettore Boffano per il Fatto
Quando assumeva un nuovo giornalista, alla fine del colloquio allungava il palmo della mano e ci soffiava sopra: “Vedi, io ti ho preso, adesso tocca a te dimostrare se sei capace di volare”. Subito dopo, giungeva quasi sempre l’accenno all’età: “Per quelli come me, ormai, è come guardare dall’oblò di un aereo che sta atterrando: la pista, che prima sembrava larga, si stringe sempre di più”. Per lui, in realtà, tutto sarebbe rimasto aperto a lungo, quasi un secolo: sino ai 98 anni.
Entrare in quel giornale e nel piccolo ufficio del direttore, in piazza Indipendenza, a quei tempi era come salire sull’ottovolante dell’informazione. Con l’entusiasmo e lo slancio di chi – quasi sempre – aveva cominciato a leggere Repubblica sin dal suo primo numero, negli anni dell’università, mettendola poi tra i sogni di un’aspirazione che finalmente, proprio lì tra “quelli di piazza Indipendenza”, trovava il suo compimento e la sensazione di essere finiti nel posto giusto e con la gente giusta.
Poi, il passaggio successivo di quell’iniziazione era partecipare alla “messa cantata”, l’interminabile riunione del mattino nella quale a nessuno era vietato entrare e, se si trovava il coraggio per farlo, dire la sua: vincendo la soggezione davanti alle migliori firme del giornalismo italiano.
Ecco, la riunione del mattino: è stata forse quella la vera, grande innovazione del quotidiano fondato da Carlo Caracciolo e da Eugenio Scalfari. Accanto (e ancora di più) a un formato e a una grafica mai visti prima in Italia, al “primo sfoglio” che rompeva i rigidi schemi dei concorrenti, insieme con il paginone centrale che aveva azzerato la polverosa tradizione della “terza pagina” ed era diventato il nuovo “luogo” per la cultura. “Nella prima parte del giornale – spiegava Scalfari – ci sono le pagine di corsa, nella seconda le pagine di grazia”.
Era la “messa cantata”, appunto: che si apriva ogni volta con la stretta di mano al caporedattore centrale, come un direttore d’orchestra, per ringraziarlo del lavoro del giorno prima. Ma era proprio quella straordinaria officina dell’informazione, quel momento collettivo di discussione (pretesa, ricercata e stimolata) l’assoluta novità di un giornalismo che cambiava, la pietra d’inciampo per i modelli allora ancora imbalsamati del Corriere e della Stampa. Tutti potevano parlare, confrontarsi, suggerire o dissentire: sarebbe stato impossibile fare altrimenti. Poi toccava a Scalfari portare tutto a unità. Anni dopo, il “comunista eretico” Saverio Vertone, rispose così a chi lo interrogava sulla differenza nel fare il giornale tra Scalfari e Paolo Mieli: “Mieli è un direttore d’orchestra, un’orchestra che magari suona solo la Cucaracha, ma lui te la fa sembrare la Nona di Beethoven. Scalfari, invece, è come un cuoco: prende tutto, non rifiuta nulla, ma poi mette le cose in ordine, infilzandole con lo spiedo”. A diversità poi dell’Espresso e dei modi di La sera andavamo in Via Veneto, a Repubblica si accettava che i redattori si presentassero malvestiti: lui no, però, sempre elegante, splendido d’estate nei completi freschi dai toni coloniali e con le scarpe bicolori.
In quell’essere ascoltato, interrogato, cazziato (“Ti impartisco censura professionale” dicevano le sue lettere di richiamo) o vezzeggiato (“Il tuo pezzo di oggi è degno di affissione!”) da Eugenio “Barbapapà”, c’era la volontà di farti sentire un protagonista del “giornale collettivo”, allora senza padrone e senza collare: ma lui lo faceva senza essere mai cattivo, maleducato, meno che mai caporale di giornata. C’era invece uno stimolarti a una concorrenza spietata, suggerita quasi come un’alterità professionale e morale, che sottolineava così, un po’ sornione: “Vi do facoltà di saccheggio!”.
Tutto il giornale per lui contava: un’unicità sottolineata da quel brindisi serale, che ogni 14 gennaio, doveva coinvolgere tutti, per ricordare l’esordio del 1976. Comprese le redazioni locali che, nella sua trama, valevano come la politica, l’economia, gli esteri e non solo come semplice cronaca di una città (“Tutti voi assieme siete la mia falange macedone”) e ai cui capi affidava una rappresentanza: “Siete gli ambasciatori di Repubblica”.
Ora che non c’è più, adesso che il suo Io ha incontrato la morte (“la Regina”), tornano alla mente le parole che usò per chiudere il discorso di congedo dal personale di Repubblica, in un pomeriggio della primavera del 1996, dopo 20 anni di direzione, come era accaduto a suo suocero, Giulio De Benedetti, alla Stampa. Una frase di Shakespeare: “Vi lascio il rosmarino per i ricordi e le viole per i pensieri”. E sempre da Shakespeare aveva tratto la citazione finale per l’articolo in morte di Leopoldo Pirelli: “Ricordate come finisce l’Amleto? ‘Riposa in pace dolce principe – dice Fortebraccio – e quattro capitani portino il tuo corpo a sepoltura’. Ma qui non c’è alcun Fortebraccio e difettano i capitani. Solo tanti amici e, dolenti, gli dicono addio”. Sembra un presagio dell’oggi, quando dell’identità e della memoria di Repubblica, la sua creatura, quasi tutto pare ormai perduto.
Silvia Truzzi per il Fatto
Il giornalismo e molto, molto altro. È il titolo dell’introduzione di Alberto Asor Rosa al Meridiano dedicato a Eugenio Scalfari, scomparso ieri a 98 anni: ottimo per raccontare una vita lunghissima, che ha attraversato il 900 e ne ha scritto un pezzo di storia. Nel volume Mondadori c’è un lungo Racconto autobiografico pieno di particolari inediti. Tutto inizia nell’aprile 1924 a Civitavecchia, in un palazzo della piazza centrale. Ci sono i panorami dell’infanzia, gli orizzonti liceali di uno studente “un po’ secchione” e apostrofato “Napoli” dai compagni di classe di Sanremo, dove nel frattempo si è trasferito con la famiglia e dove fa una conoscenza che lo segnerà: Italo Calvino. “L’ho conosciuto nell’ottobre del ’38, quando il professore di latino e italiano, un dotto e severo sacerdote, chiamò l’appello degli alunni della prima C del regio liceo Cassini. Fummo destinati allo stesso banco e da allora, per tre anni, vivemmo insieme a scuola e fuori”.
C’è la famiglia: una mamma romantica e dolce e il padre, dirigente al Casinò, che alla fine degli anni Trenta si convince a mandare il figlio a Chianciano a fare il croupier. Eugenio cresce, il Regime anche. Tra le prime esperienze giornalistiche, mentre studia Giurisprudenza, c’è Roma Fascista, organo del Gruppo Universitario Fascista (Guf). Scriverà lui stesso: “Io ero fascista. Ero cresciuto nel fascismo come tutti i giovani della mia età. Il liceo mi aveva fornito una piattaforma culturalmente autonoma dalla politica ma non alternativa, erano due parallele, la cultura e la politica, fino a quando sotto la spinta dei fatti si incontrarono e si scontrarono” (all’inizio del ’43 alcuni corsivi non firmati gli costano l’espulsione dal Guf). Al referendum a cui dobbiamo la forma repubblicana, poi, il futuro fondatore di Repubblica votò monarchia.
Nel 1947 comincia a lavorare per la Bnl, ufficio estero. L’Italia, ridestata dagli anni bui della dittatura, è in fermento. Scriverà Nello Ajello per gli 80 anni di Scalfari: “Con la nascita del Mondo, 1949, l’ingresso del giovane bancario-giornalista nel gruppo più esclusivo della Capitale può dirsi acquisito. Far parte di quella équipe, scrivere sul settimanale, cooperare alle sue iniziative – albeggiano i convegni del Mondo – significa legarsi a una sorta d’Olimpo, popolato da figure oracolari, artisti di gran nome e begli spiriti”. Da questo milieu nascerà forse il suo libro più bello, La sera andavamo in via Veneto.
Nel 1950 si sposa con la figlia del giornalista Giulio De Benedetti, Simonetta. A lei e all’altro grande amore della sua vita (Serena, già segretaria di redazione all’Espresso, sposata dopo la morte della moglie) Scalfari ha dedicato parole difficili: “In piena coscienza ho vissuto la fatica della bigamia. Sapendo la fatica, ben maggiore, che si sono assunte le mie compagne. Sapevano l’una dell’altra. Provavo a stare con una sola. Ma era come se tentassi di tagliarmi una gamba”.
Nel 1955 partecipa alla fondazione del Partito Radicale, da cui si distaccherà litigando col gruppo dirigente. Se ne trova traccia in un epistolario tra Pannunzio e Leo Valiani, Democrazia laica (Aragno). In due missive dei primi Sessanta, Pannunzio racconta a Valiani la frattura con Scalfari: “Instabile, femmineo, esuberante. Non ha veri legami o affinità ideali e morali con nessuno. Tutto è strumentale, utilitario; tutto deve servire alla sua splendida carriera. Ha sempre avuto la sensazione di perder tempo stando con noi”.
Intanto nel 1955 è cominciata l’epopea dell’Espresso: Scalfari è direttore amministrativo, dal ’63 anche responsabile: il settimanale è un successo a cui contribuiscono polemiche e scoop come la scoperta del “Piano Solo”, un progetto di golpe dei carabinieri la cui rivelazione costa a lui e Lino Jannuzzi una condanna, aggirata nel 1968 grazie all’elezione in Parlamento col Psi. Nel 1976 Scalfari vara l’operazione più importante, Repubblica, di cui per anni fu la santa trinità – fondatore, direttore ed editore – pulpito da cui visse in prima persona la lunga guerra giudiziaria con Silvio Berlusconi. Il quotidiano nasce corsaro, con l’ambiziosa missione di “ristrutturare” la sinistra italiana e, a questo fine, capace di alleanze tattiche come quelle con Enrico Berlinguer (celebre l’intervista sulla “questione morale” proprio a Scalfari) o con Ciriaco De Mita (in funzione anti-Craxi). Si era dimesso dalla direzione nel 1996, ma aveva continuato ad andare in ufficio e, da buon “illuminista”, a festeggiare ogni anno il 14 luglio, giorno della presa della Bastiglia. Proprio quello in cui è morto.
Carlo Marroni per Il Sole 24 Ore
Francesco ha perso un amico, «conserva con affetto la memoria degli incontri», e «affida nella preghiera la sua anima al Signore, perché lo accolga e consoli quanti gli erano vicini». Bergoglio e Scalfari, il Papa e il Grande Ateo, che si erano incontrati e stretti. Eugenio Scalfari gli aveva scritto per la prima volta nel luglio 2013, pochi mesi dopo la sua elezione. Una lettera aperta (per la verità era ai due papi) e affrontava il tema centrale nel grande agorà esistenziale nei rapporti con il trascendente: cosa è la fede? L’argomento era ed è fondamentale per chi guida i fedeli e interroga atei e agnostici, perché tocca il punto centrale della dottrina cristiana: «Da dove proviene, come è vissuta dai credenti, quali reazioni suscita in chi non è cristiano, come spiega l’esistenza della razza umana e come risponde alle domande che ciascuno di noi si pone e alle quali il più delle volte non trova risposta: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo?». Domande legate soprattutto all’enciclica Lumen Fidei, firmata dai due pontefici. E poi il 7 agosto, in una seconda lettera, pose tre domande «di un non credente al papa gesuita chiamato Francesco», tra cui spiccava la prima: «Se una persona non ha fede né la cerca, ma commette quello che per la Chiesa è un peccato, sarà perdonato dal Dio cristiano?».
Salvatore Carruba per il Sole 24 Ore
Con Eugenio Scalfari non esce di scena solo un grande giornalista: a sottolineare il ruolo che egli ha avuto nella trasformazione e modernizzazione del sistema informativo nazionale basterà ricordare due esperienze: «L’Espresso» prima e «Repubblica» dopo. Educato alla scuola del suocero, il grande Giulio de Benedetti, e a quella del «Mondo», Scalfari approderà nel 1963 alla direzione del settimanale che egli stesso aveva contribuito a fondare nel 1955. Con «L’Espresso», la stampa italiana scopre un approccio all’informazione moderno e orgoglioso della propria autonomia e indipendenza del potere, la difesa delle quali viene affidato a un inedito (per l’Italia) organo di tutela, ossia il Comitato dei garanti.
L’«Espresso» di Scalfari sarà famoso per alcune grandi inchieste, tra cui quella di Lino Jannuzzi sul presunto colpo di stato organizzato dal Sifar che resterà negli annali del giornalismo anche per le furibonde reazioni suscitate.
Qualche anno dopo sarà la volta del nuovo quotidiano, «La Repubblica», con la quale Scalfari, fondatore e direttore, assicurerà un contributo fondamentale al modo di fare informazione e giornalismo in Italia.
Scalfari rappresenta una cultura minoritaria in Italia: quello che sarebbe diventato un giornalista, nasce come operatore di banca, fin dall’inizio coinvolto nelle vicende politiche e sociali del suo tempo. All’indomani della guerra, è liberale; e offre un contributo importante al tentativo di trasformare il Pli da vecchio partito notabilare nella versione italiana di un liberalismo moderno: al congresso di Firenze del 1953 firma, con Francesco Compagna, Enzo Storoni e Giovanni Malagodi, la mozione economica che porterà quest’ultimo alla guida del partito. Nella mozione si sentono gli echi del «Mondo» e si parla, tra l’altro, di «necessità…di escludere gli interventi statali e le tendenze nazionalizzatrici dovute a motivi astrattamente ideologici e passionali, o ad interessi egoistici di ogni colore», si invoca un’adeguata legislazione antitrust e anti dumping; si richiede una «politica commerciale sanamente liberistica». Nello stesso anno, Scalfari è candidato liberale alla Camera, e polemizza, anzi è attaccato da uno dei capostipiti di questo giornale, il «24 Ore» che ne aveva ospitato, senza gradire, un intervento a favore della nominatività dei titoli azionari e lo rimprovererà di «cercare farfalle sotto l’arco di Tito».
Il sodalizio con Malagodi durerà poco: gli esponenti della sinistra del partito, che ne avevano favorito l’elezione, resteranno presto delusi, decideranno di uscire dal Pli e daranno vita a un nuovo partito, quello radicale, per dare voce alle posizioni di sinistra democratica e liberale che tentava di aprire uno spiraglio nella morsa rappresentata dalla forza della Dc e del Pci. Negli anni 60, Scalfari sarà anche deputato socialista, il che non gli impedirà, successivamente, di sferrare un’opposizione durissima a Craxi.
Quando, nel 1976, l’anno della fondazione del quotidiano, le elezioni politiche vedono la disfatta dei laici e il successo della Dc, Scalfari non ha esitazioni ad accusare i laici di non aver mai «interpretato seriamente e rigorosamente profonde correnti ideali, ma semplici e mediocri interessi». L’accusa è ingenerosa, ma denuncia lo scacco di quelle posizioni ideali alle quali lo stesso Scalfari si era formato, rivelatesi incapaci di costruire un’alternativa di governo (e, forse, per Scalfari, anche di stile) al potere democristiano. Nascerà da lì l’apertura di credito al Pci berlingueriano.
Di questo mondo, di questa ambizione e dei reiterati tentativi per costruire un’autorevole presenza laica Scalfari resterà uno dei protagonisti. Politico non meno che giornalista, Scalfari non assicurerà mai un’informazione asettica e ipocritamente “equilibrata”, ma darà vita a quello che sarà chiamato addirittura un partito, il partito di “Repubblica”. Come Montanelli, il grande antagonista espressione della cultura liberal-conservatrice, Scalfari si accetta o si respinge; senza poterne negare tuttavia lo straordinario fiuto giornalistico, la capacità di costruire una comunità coesa che è ben di più che non un semplice pubblico di lettori, di orientare il dibattito, di fare la fortuna o segnare il destino di questo o quell’uomo politico.
Una posizione così esposta non mette Scalfari al riparo dalle critiche dettate proprio dalla sua ambizione di fare dell’informazione un potente strumento di formazione di opinione pubblica; e le sue ultime riflessioni di carattere anche filosofico si rifanno alle ascendenze razionaliste e illuministe alle quali Scalfari, con risultati discutibili ma con passione, professionalità e intelligenza indiscutibili, ha cercato di restare fedele tutta la vita.
Il saluto a Scalfari è dunque l’omaggio non solo a un protagonista della cultura italiana, ma a una cultura laica, rimasta minoritaria (anche per molti errori commessi, a partire da una certa supponenza intellettuale), la cui affermazione avrebbe potuto contribuire a costruire un’Italia più europea.
Raffaele Liucci per il sole 24 Ore
Con Eugenio Scalfari scompare l’ultimo grande protagonista della carta stampata novecentesca. Un mondo ormai estinto, fatto di orari notturni massacranti, tipografie ruggenti, direttori monarchi assoluti e testate che esercitavano un’influenza enorme sull’opinione pubblica. Non è difficile distinguere i tre principali volti assunti dal giornalista calabrese nella sua lunga e operosa esistenza (era nato il 6 aprile 1924). Innanzitutto, Scalfari è stato fondatore, direttore e comproprietario di giornali (il settimanale «L’Espresso», lanciato nel ’55 insieme ad Arrigo Benedetti, cui subentrerà alla direzione nel ’63; e «la Repubblica», sorta nel ’76). In quest’attività imprenditoriale, Scalfari ha brillato come il migliore di tutti. Rispetto a Frassati e Albertini, Scalfari ha esercitato la propria influenza per oltre mezzo secolo. Pur avendo lasciato la direzione attiva di «Repubblica» nel 1996, infatti, ha continuato a indicarne la linea, moderatamente progressista, fino a pochi anni fa. Fra i suoi obbiettivi, allorché fondò il quotidiano, c’era quello di traghettare il Pci e il suo vasto popolo su sponde riformiste.
C’è chi ha accusato Scalfari di aver ‘volgarizzato’ il laicismo liberal italiano, fiorito sulle pagine elitarie del «Mondo» pannunziano (dove egli stesso aveva mosso i primi passi), e di aver trasformato «la Repubblica» in «un club esclusivo, ma di massa» (Alfonso Berardinelli), accogliendo troppi radical-chic. È vero: probabilmente la borghesia illuminista idealizzata da Scalfari è uno dei tanti miti infranti (al pari della destra liberale sognata da Montanelli). Ma cosa sarebbe stata l’Italia senza «L’Espresso» e «la Repubblica»? Hanno svecchiato la carta stampata, allevato fior di firme e fornito una bussola ad uno spicchio d’opinione pubblica altrimenti dispersa.
In secondo luogo, Scalfari è stato un seguitissimo articolista. Massimo Fini ha raccontato che Indro Montanelli, richiesto di un franco giudizio su Scalfari (con cui ebbe un rapporto altalenante), rispondeva puntuale: «Non è dei nostri». Intendeva dire che i suoi pezzi non erano scintillanti come i suoi. Ma il fondatore di «Repubblica» era nato come giornalista economico, mentre la maggioranza dei suoi colleghi si son sempre considerati scrittori prestati al «quarto potere». L’«articolessa» di Scalfari, invece, era un genere a sé stante e in fondo non molto italiano: lo stile pensoso e il taglio analitico poco concedevano all’impressionismo. E lo stesso potrebbe dirsi delle sue lunghe e puntigliose interviste a politici e grandi imprenditori, così lontane dai frizzanti «incontri» montanelliani. Grazie a una strabiliante memoria, riusciva a fissare nella propria mente colloqui e conversazioni senza ricorrere al registratore.
Fra le decine di migliaia di suoi pezzi, resterà nella storia la citatissima intervista a Berlinguer del luglio 1981, sulla «questione morale» e la colonizzazione partitocratica dello Stato. Degno di nota, anche il profilo al vetriolo di Giovanni Agnelli, «avvocato fatto di meringhe e di panna montata» (luglio ’74). Ma il presidente della Fiat sarà pure il gradito ospite che lo inviterà a colazione nella sua villa sulle colline torinesi, o il magnanimo capitano d’industria che gli concederà una trentina d’interviste. Infine, Scalfari è stato anche autore di importanti libri. Inchieste (Razza padrona. Storia della borghesia di Stato, insieme a Giuseppe Turani, nel quale svettava Eugenio Cefis, presidente della Montedison), interviste (a Guido Carli, Sul capitalismo italiano, 1977), memoir (La sera andavamo in via Veneto. Storia di un gruppo dal «Mondo» alla «Repubblica, 1986, senz’altro il suo lavoro più “iconico”) e da ultimo una lunga serie di opere “filosofiche” o romanzesche o ancora memorialistiche. Illuminista convinto, non mostrava remore nell’affrontare la «crisi della ragione» e nel confrontarsi con pensatori e personaggi in apparenza a lui lontani (leggi il cardinale Carlo Maria Martini e papa Francesco). Come fece uno dei suoi «maggiori», Isaiah Berlin.
Paolo Panerai per ItaliaOggi
Su una lapide ideale in memoria di Eugenio Scalfari scriverei così: Ebbe il coraggio di appellare Giovanni Agnelli «L’Avvocato di panna montata».
Era in corso la bagarre per il controllo delle Generali e Agnelli si era accordato con Mediobanca e Lazard per far fuori Cesare Merzagora, presidente della più grande compagnia italiana, ex presidente del Senato e simbolo (legittimo) dell’ideologia liberale dalla quale Eugenio era partito.
Fu un legittimo sussulto, al quale privatamente l’Avvocato rispose: «Ha parlato il giornalista più abile ma anche più vanesio d’Italia». ItaliaOggi rende omaggio al giornalista più abile e più vanesio d’Italia
Camillo Langone per il Foglio
Oh gran snobismo de’ giornalisti antiqui! Di Eugenio Scalfari rimpiango i primi anni di Repubblica, 1976-79: quel giornale dalla bellissima grafica esordì, ovviamente per volere del suo fondatore, senza pagine sportive. Poi Scalfari dovette cedere, sebbene sempre con molto stile, affidando lo squallido argomento al sommo Gianni Brera. Dovette constatare che in Italia le sedicenti élite sono becere quanto le plebi e tifano pur esse Milan, Inter, Roma, Giuventus... Capisco bene, sembra di parlare del tempo degli etruschi, e in effetti Scalfari nacque a Civitavecchia, ma invece era il novecentesco snobismo liberale, il contegno descritto da Elena Croce. Era un mondo piccolo quello della primogenita di don Benedetto ed è un mondo piccolissimo, quasi privato, questo mio dello snobismo cristiano antisportivo, che pure si appoggia sull’essoterico Vangelo: “Così gli ultimi saranno primi, e i primi, ultimi”. Di Scalfari, adesso che è morto, tutti diranno tutto tranne la cosa più luminosa: il disprezzo per lo sport.
Michele Masneri per il FoglioÈcurioso che sia morto proprio ieri, Eugenio Scalfari. Il 14 luglio, infatti, presa della Bastiglia, si festeggiava sempre, più che il compleanno, in grande nel pratone a Velletri, la casa di campagna vicino Roma che amava; e in certi anni essere o non essere invitati a quella ricorrenza era significativo. A Velletri, reggia di campagna, ci si recava in pellegrinaggio (ci andò per esempio Tommaso Cerno, fugace condirettore, portando in dono scritti di Italo Calvino, compagno di banco scalfariano a Sanremo negli anni Quaranta, che pare furono graditi). La casa che era cresciuta nel tempo era stata comprata dal padre di Scalfari, calabrese di Vibo, direttore del Casinò della città dei fiori e gran pokerista, con la vincita a una lotteria, il che riporta a una dimensione d’avventura dimenticata eppure ben presente, sotto l’immagine a un certo punto santificata di Scalfari figlio. Si festeggiava il 14 luglio ma era un sovrano che altrimenti veniva celebrato di continuo (anche dalla necrologistica: si narra che il primo “coccodrillo” girasse già dagli anni Novanta). “Io sono uno di voi”, ha detto alla redazione di Repubblica che gli faceva gli auguri, i penultimi, i novantasettesimi, via Skype, ai tempi del lockdown. Si vede nel documentario “A Sentimental Journey”, fatto dalle figlie Enrica e Donata. “Sono nato a Civitavecchia il 6 aprile del 1924 alle ore 10.30, all’ultimo piano di un palazzo costruito nei primi dell’Ottocento nella piazza centrale della città”, si legge invece in “Racconto autobiografico”, uno degli innumerevoli volumi che hanno raccolto lo Scalfari-pensiero (dalla poesia alla religione, poi tutto riunito in un doppio Meridiano, onore editoriale riservato a pochissimi). Il pezzo in questione veniva anche letto da un emozionato Silvio Orlando nel 2014 al teatro Argentina per le solenni celebrazioni dei novant’anni scalfariani. Eugenio Scalfari era il sovrano di Rep. e come insegna Kantorowicz aveva due corpi, uno sacro e uno profano, uno mistico e uno fisico. Anche, doppia famiglia coi doppi natali tipo De Sica, le prime nozze con Simonetta De Benedetti figlia del direttore della Stampa, e poi con Serena Rossetti figlia di una celebre libreria di via Veneto protagonista di un sogno nel “Male oscuro” di Berto, oggi “nail studio”. Il sovrano, Rep. lo celebrava di continuo, col carattere “Eugenio”, il font introdotto col grande restyling del 2017, ma anche rispettando riti scaramantici e propiziatori cari al Re: le grandi novità aziendali avvenivano il 14 gennaio, giorno del Sommo compleanno ma non del sovrano, di Rep. medesima nata il 14 gennaio 1976). Mentre nulla doveva accadere di martedì e venerdì (rito borbonico che aveva lasciato sconfortato il milanese pragmatico Carlo Verdelli, in occasione del lancio del restyling e del sito). Il regno scalfariano aveva oltre alle sue scaramanzie i suoi simboli: la campagna, la barba, il pianoforte, le sigarette. Era un tutt’uno con una certa estetica di Repubblica, che prevedeva i completi di Sandro Viola, ma anche un’idea molto precisa di come dovesse essere graficamente un giornale, dai primi schizzi che si ispiravano a un tempio greco disegnati da Sergio Ruffolo, designer e scultore e fratello dell’economista Giorgio, dinastia molto Rep. (a Rep. si formavano e disfacevano famiglie, si tramandava la professione, tra rami cadetti e collaterali, come titoli nobiliari, si coltivava anche l’affettuosa appartenenza). Le quinte di questo reame furono neoclassiche, in carattere Bodoni, utilizzato normalmente nei libri, e loro per primi lo applicarono a un giornale; anche, sei colonne invece che nove: l’estetica Rep. del resto era un design totale, dal tempio greco di Ruffolo ai Ruffolo stessi con gli Scalfari a Port’Ercole (sul gozzo di Roberto Olivetti). Era un regno sicuro. Come scrive Stefan Zweig, cantore della nostalgia absurgica, “Ogni cosa, nella nostra monarchia austriaca quasi millenaria, sembrava essere stata fondata per durare nel tempo. Ognuno sapeva quanto possedeva o quanto gli spettava, cos’era permesso e cos’era proibito”. Anche, nella kakania scalfariana, una biforcazione estetica e mondana: da una parte le contesse e le principesse romane, le Verusio, e poi un’estetica da lettrici, le leggendarie professoresse democratiche. C’era il lato “entrepreneur”, visto che Rep. fu anche e soprattutto la maggior startup del giornalismo del Dopoguerra, e poi ancora il lato decadente. E Carlo Caracciolo che univa i due “layers” (aggiungendo ulteriore prestanza fisica al pacchetto). Il Principe, casato napoletano, nome da lungomare, amava frequentare i bassifondi, come il faccendiere Carboni, e Ciarrapico, il Ciarra, mediatore in quel fatidico momento in cui Berlusconi avrebbe potuto conquistare Rep. (sliding door!). Coinvolgeva in leggendari poker il giornalista-fondatore Gigi Melega e il concessionario Malagò, e convocava il compianto avvocato Oreste Flamminii Minuto, principe del Foro, anche per questioni non proprio “core” come un’antenna condominiale – ci raccontò – nel palazzo di Trastevere che doveva essere spostata su un tetto anziché su un altro. Caracciolo poi con la vasta prole pre e post mortem (quella sì sarebbe una serie tv) portava l’eleganza libertina e il legame con la Real Casa foderata in midollino e con giardini Russell Page. Ma a Torino c’era poi anche Cdb, l’azionista, l’Ingegnere, altra figura di spicco della saga, che pure arrivò solo nel secondo tempo, e che però su questa fondò la sua nuova identità. Sotto il Fondatore, il Principe e l’Editore, c’era poi un’aristocrazia di corte, con Mario Pirani, Sandro Viola, Bernardo Valli e tanti altri che o non ci sono più o hanno abbandonato il regno cascante negli ultimi anni. Da Velletri a Torino, quella “certa idea dell’Italia”, come sosteneva Ezio Mauro, glorioso direttore nell’èra Seconda (1996-2016), successiva a quella scalfariana (1976-1996), era la costituzione materiale di un regno peculiare, che teneva insieme tutto, il giornale della sinistra occidental-democratica in gessato torinese-napoletano, e le suddette professoresse, le “dieci domande”, il dialogo coi Papi, i post-it per le adunate popolari, e “RepIdee”. Il tutto ha definito le nostre infanzie, e il bianco e nero bodoniano costituiva le quinte di un mondo più facile e più gradevole di oggi, in cui per essere a posto in fondo bastava deprecare il simmetrico politico-esistenziale del mondo-Rep., il Cav., in realtà forse anche clamoroso “specchio” (col gusto per la conquista muliebre e il pianoforte, e un certo vitalismo; Cav. che ieri gli ha reso l’onore delle armi, con una foto di loro due in bianco e nero). Insomma, un mondo tutto finito; un mondo tutto maschile, anche. Nel documentario, racconta Donata, Scalfari spedì lei e la sorella a lezione di stenografia, “perché battere a macchina a una ragazza torna sempre utile”. E in questo, era davvero un regno di un altro secolo.
Pietrangelo Buttafuoco per il FoglioMilano. Ha attraversato così tante vite, su e giù seguendo o risalendo le correnti del secolo breve, nel suo lunghissimo quasi secolo, che nessuna sintesi se non pirandelliana potrebbe ricondurre a unità la sua maschera negli anni sempre più scavata, e mai profetica. Ma per prenderne una, non comunque tra le minori, qualcosa sta a indicare il suo più che ventennale confrontarsi, avvicinarsi, ritrarsi, gigioneggiare con la religione. La religione cristiana, soprattutto. Il dialogo con (d)Io. Anche a non voler dare più peso del necessario all’infatuazione-amicizia degli ultimi anni per Francesco. Com’è tipico di moltissimi intellettuali laici, meglio atei, dell’Europa novecentesca – basterebbe Roberto Calasso, per tutt’altre vie – il raffronto filosofico con la religione, il sacro, diviene inevitabile. Anche fosse solo per il puntiglio di un enigma da risolvere. Ma c’è una corrente più antica, e differente, che intreccia per lungo tempo la storia di Eugenio Scalfari con la storia ecclesiale, e democristiana, italiana. È nel ruolo che Scalfari ha svolto – molto più consapevole di quanto lui stesso abbia mai voluto riconoscere, e molto più decisivo per gli sviluppi della società italiana di tanta attardata e subordinata cultura d’area cattolica – nello smembrarsi, nell’inaridirsi, nel divenire progressivamente irrilevante della Chiesa: della cultura e della politica cattolica (persino della finanza bianca) durante mezzo secolo. Ed è la sua capacità di farsi propugnatore, e anche volgarizzatore – nel senso di far diventare pensiero dominante, di massa (il “partito radicale di massa” profetizzato da Del Noce) – di un’idea di modernità perfettamente laicizzata, ateizzata, a partire dalle élite per poi scendere sul popolino (la detestabile Italia alle vongole), tanto da poter fare finalmente a meno della tutela ecclesiale, molto più pesante di quella democristiana. Il divorzio, l’aborto, certo. Ma la fine del potere temporale, soprattutto. Da questo punto di vista, Scalfari è stato non solo il giornalista più influente della storia italiana, ma anche il “politico” più decisivo in una trasformazione antropologica destinata a svuotare non solo la Chiesa cattolica, ma “le due chiese”, anche quella del Pci. “La questione morale” è del resto anche il titolo della sua celeberrima intervista a Enrico Berlinguer, un mutamento che non riguardava soltanto gli avversari. Nel gennaio 1976, quando nasce Repubblica – benedetta, se non da una “operazione”, senz’altro da una congiunzione astrale che vede unite finanza tecnocratica, banche d’affari, grande capitale e sinistra culturale – il mondo cattolico ha già subìto la sconfitta del referendum: vi abbiamo, contati, siete minoranza nel paese. È l’anno del “sorpasso” (non il film). È il momento di una saldatura tra mondi un tempo opposti che Scalfari aveva intuito giungere da lontano, lui stesso la attribuiva a Raffaele Mattioli. Era il trionfo di una borghesia laicista dotata di “un complesso netto di superiorità derivante dalla padronanza tecnica e culturale” rispetto alle due “chiese”. Da lì l’idea di Mattioli, spiegava, che nella politica italiana bisognasse appunto “tenere insieme l’establishment e l’opposizione”, sottraendo il potere reale al grande magma clericale che lo aveva detenuto dal Dopoguerra. Erano gli anni in cui l’Avvocato spiegava che la Dc non poteva più concentrare l’80 per cento del potere. Repubblica debuttò come un grande progetto culturale-politico che non era solo quello di riunire sotto un giornale guida tutte le forze progressiste, ma quello di svuotare i contenuti ideologici delle due grandi chiese. “Laicizzare tutte le chiese”, diceva. Dirà qualche anno dopo (il successo fu immediato, la formula perfetta, la forza giornalistica): “Il nostro giornale diventa interprete della classe dirigente liberal, compresi i liberal presenti nella Dc e nel Pci, espressione di quella che potremmo chiamare la parte intelligente del paese”, “La Repubblica è davvero il giornale di tutti i laici e di tutti i liberal, dovunque essi siano”. Del Noce aveva scritto per tempo: “È la vittoria di una nuova borghesia che ha coinciso con la negazione dello spirito religioso”. Per un certo periodo il progressismo cattolico e la sinistra democristiana scelsero di stare al nuovo patto. Ma con un decennio abbondante d’anticipo rispetto all’altra chiesa il ruolo pubblico, e il rimasuglio di tutela politica e sociale, della Chiesa in Italia era evaporato. Non fu colpa di Eugenio Scalfari, ovviamente. Lui aveva solo intuito, con grande anticipo e con un’intelligenza giornalistica notevole, verso dove scorreva la corrente della dissoluzione di (d)Io.
Maurizio Crippa per il FoglioMilano. Ha attraversato così tante vite, su e giù seguendo o risalendo le correnti del secolo breve, nel suo lunghissimo quasi secolo, che nessuna sintesi se non pirandelliana potrebbe ricondurre a unità la sua maschera negli anni sempre più scavata, e mai profetica. Ma per prenderne una, non comunque tra le minori, qualcosa sta a indicare il suo più che ventennale confrontarsi, avvicinarsi, ritrarsi, gigioneggiare con la religione. La religione cristiana, soprattutto. Il dialogo con (d)Io. Anche a non voler dare più peso del necessario all’infatuazione-amicizia degli ultimi anni per Francesco. Com’è tipico di moltissimi intellettuali laici, meglio atei, dell’Europa novecentesca – basterebbe Roberto Calasso, per tutt’altre vie – il raffronto filosofico con la religione, il sacro, diviene inevitabile. Anche fosse solo per il puntiglio di un enigma da risolvere. Ma c’è una corrente più antica, e differente, che intreccia per lungo tempo la storia di Eugenio Scalfari con la storia ecclesiale, e democristiana, italiana. È nel ruolo che Scalfari ha svolto – molto più consapevole di quanto lui stesso abbia mai voluto riconoscere, e molto più decisivo per gli sviluppi della società italiana di tanta attardata e subordinata cultura d’area cattolica – nello smembrarsi, nell’inaridirsi, nel divenire progressivamente irrilevante della Chiesa: della cultura e della politica cattolica (persino della finanza bianca) durante mezzo secolo. Ed è la sua capacità di farsi propugnatore, e anche volgarizzatore – nel senso di far diventare pensiero dominante, di massa (il “partito radicale di massa” profetizzato da Del Noce) – di un’idea di modernità perfettamente laicizzata, ateizzata, a partire dalle élite per poi scendere sul popolino (la detestabile Italia alle vongole), tanto da poter fare finalmente a meno della tutela ecclesiale, molto più pesante di quella democristiana. Il divorzio, l’aborto, certo. Ma la fine del potere temporale, soprattutto. Da questo punto di vista, Scalfari è stato non solo il giornalista più influente della storia italiana, ma anche il “politico” più decisivo in una trasformazione antropologica destinata a svuotare non solo la Chiesa cattolica, ma “le due chiese”, anche quella del Pci. “La questione morale” è del resto anche il titolo della sua celeberrima intervista a Enrico Berlinguer, un mutamento che non riguardava soltanto gli avversari. Nel gennaio 1976, quando nasce Repubblica – benedetta, se non da una “operazione”, senz’altro da una congiunzione astrale che vede unite finanza tecnocratica, banche d’affari, grande capitale e sinistra culturale – il mondo cattolico ha già subìto la sconfitta del referendum: vi abbiamo, contati, siete minoranza nel paese. È l’anno del “sorpasso” (non il film). È il momento di una saldatura tra mondi un tempo opposti che Scalfari aveva intuito giungere da lontano, lui stesso la attribuiva a Raffaele Mattioli. Era il trionfo di una borghesia laicista dotata di “un complesso netto di superiorità derivante dalla padronanza tecnica e culturale” rispetto alle due “chiese”. Da lì l’idea di Mattioli, spiegava, che nella politica italiana bisognasse appunto “tenere insieme l’establishment e l’opposizione”, sottraendo il potere reale al grande magma clericale che lo aveva detenuto dal Dopoguerra. Erano gli anni in cui l’Avvocato spiegava che la Dc non poteva più concentrare l’80 per cento del potere. Repubblica debuttò come un grande progetto culturale-politico che non era solo quello di riunire sotto un giornale guida tutte le forze progressiste, ma quello di svuotare i contenuti ideologici delle due grandi chiese. “Laicizzare tutte le chiese”, diceva. Dirà qualche anno dopo (il successo fu immediato, la formula perfetta, la forza giornalistica): “Il nostro giornale diventa interprete della classe dirigente liberal, compresi i liberal presenti nella Dc e nel Pci, espressione di quella che potremmo chiamare la parte intelligente del paese”, “La Repubblica è davvero il giornale di tutti i laici e di tutti i liberal, dovunque essi siano”. Del Noce aveva scritto per tempo: “È la vittoria di una nuova borghesia che ha coinciso con la negazione dello spirito religioso”. Per un certo periodo il progressismo cattolico e la sinistra democristiana scelsero di stare al nuovo patto. Ma con un decennio abbondante d’anticipo rispetto all’altra chiesa il ruolo pubblico, e il rimasuglio di tutela politica e sociale, della Chiesa in Italia era evaporato. Non fu colpa di Eugenio Scalfari, ovviamente. Lui aveva solo intuito, con grande anticipo e con un’intelligenza giornalistica notevole, verso dove scorreva la corrente della dissoluzione di (d)Io.
Mimmo Muolo per Avvenire
Era atteso ed è arrivato puntuale il cordoglio del Pontefice alla notizia della morte di Eugenio Scalfari. Papa Francesco, ha riferito infatti nel primo pomeriggio di ieri il direttore della Sala Stampa vaticana, Matteo Bruni, ha appreso «con dolore della scomparsa del suo amico. Conserva con affetto la memoria degli incontri - e delle dense conversazioni sulle domande ultime dell’uomo - avute con lui nel corso degli anni e affida nella preghiera la sua anima al Signore, perché lo accolga e consoli quanti gli erano vicini». Quelle «dense conversazioni», infatti, rimarranno sicuramente come uno dei fatti notevoli di questo pontificato. Pur con il loro contorno di imprecisioni, alcune delle quali davvero gravi. Troppo famoso l’ateismo militante di Scalfari – che non aveva risparmiato critiche a personalità come san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, trovando però punti di contatto con il cardinale Carlo Maria Martini – per non restare sorpresi del ’botta e risposta’ che nel 2013 portò alla prima ’intervista’ di Scalfari al Pontefice e dette il via all’amicizia tra loro.
Forse con un pizzico di senno di poi bisognerebbe riconoscere che quella ’sorpresa’ era stata sostanzialmente preparata proprio da Joseph Ratzinger Benedetto XVI, prima con la sfida alla cultura laica a sovvertire l’etsi Deus non daretur per ragionare invece come se Dio ci fosse, e poi con la bella stagione del ’Cortile dei gentili’, che - come ha ricordato ieri il cardinale Gianfranco Ravasi - vide anche Scalfari confrontarsi con il porporato milanese ’ministro’ della cultura della Santa Sede. Perché in fondo questo è stata l’amicizia tra Francesco e Scalfari. Un ’Cortile dei gentili’ in chiave personale, con il Papa che - rispondendo con una lunga lettera alle domande contenute in un suo articolo - tese la mano al giornalista ateo. Una grande intuizione, l’apertura di credito di papa Bergoglio. E non solo in termini mediatici. Francesco ha mostrato infatti che il cristianesimo è anche capacità di entrare in relazione con l’altro a prescindere dalle sue idee, proprio come faceva Gesù lungo le strade della Palestina. E ha detto al mondo che chi crede in Cristo è capace di accogliere come un fratello anche chi non ha la minima intenzione di cambiare idea. Mettendo perfino in conto di non essere compreso o addirittura travisato.
A mente fredda, infatti, bisogna riconoscere che, al di là della sincera ammirazione per la persona del Papa, Scalfari in questo rapporto ha perso l’occasione di una più profonda comprensione delle realtà in cui non riusciva a credere. Il pensiero corre ad esempio ai celebri errori contenuti nei resoconti dei suoi colloqui con Francesco. L’attribuzione a quest’ultimo di pensieri al limite dell’eresia, come quello di una verità non assoluta (è ben noto invece che per i cristiani la Verità è una sola ed è Cristo stesso), o dell’inesistenza dell’inferno (il teologo Von Balthasar diceva che l’inferno è vuoto a motivo dell’immensa misericordia di Dio, ma è ben diverso) o – cosa più grave di tutte – quando scrisse: «Chi ha avuto, come a me è capitato più volte, la fortuna d’incontrarlo e di parlargli con la massima confidenza culturale, sa che papa Francesco concepisce il Cristo come Gesù di Nazareth, uomo, non Dio incarnato». Quella volta dovette intervenire la Sala Stampa vaticana per precisare che «le parole che il dottor Eugenio Scalfari attribuisce tra virgolette al Santo Padre durante i colloqui con lui avuti non possono essere considerate come un resoconto fedele di quanto effettivamente detto, ma rappresentano piuttosto una personale e libera interpretazione di ciò che ha ascoltato».
Vale questo proposito ciò che ha detto ieri all’Adn Kronos il direttore di Avvenire. Marco Tarquinio ha parlato di «interviste profonde e anche originali al Pontefice», ma anche dell’inserimento in esse di «alcuni passaggi al limite della deformazione del pensiero del Papa». Scalfari, ha aggiunto, «entra certamente fra i ’grandi’ del giornalismo italiano», ma «se devo rimproverargli qualcosa è una certa fatica a fare i conti con i propri errori». Come quando, a proposito della morte del cardinale Martini, «scrisse, sbagliando, che si era trattato di una forma di eutanasia ». Ora su tutto cala il velo della dimensione ’Altra’. Capace di accogliere, come ha auspicato il Papa, anche il suo l’amico non credente.
Roberto Petrini per Avvenire
vevo diligentemente sbobinato il lungo forum tra economisti al quale, giovane cronista, ero stato ammesso. Mi precipitai nella piccola stanza di Piazza Indipendenza da dove Eugenio Scalfari dirigeva il giornale. Gli porsi il lungo dattiloscritto, ansioso di un giudizio. «Puoi vedere se va bene, direttore?», chiesi. La risposta fu carica di insegnamenti: «Sei soddisfatto del lavoro che hai fatto?». Non potevo rispondere che sì, tornai alla mia scrivania, carico della responsabilità che ora pesava interamente su di me, e ripassai tutto: riga per riga.
L’architettura del metodo-Scalfari partiva da questa pedagogia di base che lui utilizzava per governare e per formare i giovani colleghi. Contrariamente a quanto si possa credere, considerata la barba bianca e il piglio severo delle sue argomentazioni, la sua porta era sempre aperta, ovvero bussavi ed entravi, ti lagnavi e lui ti ascoltava e ti rispondeva cercando di convincerti nel modo più onesto possibile. O ti invitava confidenzialmente a lasciar perdere. Così ti conquistava e forgiava lo ’spirito’ di Repubblica: non terrore, ma abile seduzione. Del resto un giornale piccolo, nato come un nano tra i giganti, con obiettivi che allora sembravano utopici come l’Europa e il compito di portare il Pci su posizioni socialiste e liberali, doveva contare su individualità forti, motivate e leali. Così era. Lo spirito del giornale era totalmente nuovo non solo nella struttura formale, ma anche nella missione cosicché pure il giornalista doveva essere di nuovo conio. Pochi con esperienza del mestieraccio brutale, molti dai movimenti, dalle università, dalla provincia, dai giornali della sinistra giovanile. A costoro venivano affidati gli articoli e i temi da sviluppare: “C’è una linea?”, capitava di chiedere. La risposta di Scalfari era l’invito a fare quattro o cinque telefonate e farsi un’idea. Nascevano così giornalisti informati e competenti che contribuivano a formare dal basso e con i fatti buona parte dell’opinione di quella ’Repubblica’.
La celebre riunione del mattino, di leggendaria lunghezza e mal sopportata da molti, era invece la chiave del giornale-orizzontale di Scalfari: lui animava e provocava, ma il feedback che ricavava da commensali colti e puntigliosi era il carburate del giornale. I nomi sono noti, il meglio del giornalismo e dell’intellettualità: Pansa, Ronchey, Enzo Forcella, Massimo Riva, Pirani, Mirian Mafai persino Galli della Loggia per un breve e irrequieto soggiorno. Dopo aver ascoltato in silenzio non esitava a dare una sterzata alla linea del giornale, se era il caso. «Domani scriverò un pezzo», sentenziò alla fine della cosiddetta ’messa cantata’ quando prese le distanze da De Mita.
Non c’era bisogno di una catena di comando verticistica e ringhiosa, Scalfari con il suo carisma, una volta stabilita la linea, la irradiava metafisicamente fino all’ultimo proto. A quel punto però guai a sbagliare: se si persisteva il rischio era quello di cadere nel temuto ’cono d’ombra’ o dei metaforici ’tre giri di chiglia’. Dal gergo militare Scalfari traeva spesso immagini e argomenti e quando doveva incoraggiare la ’truppa’ citava Napoleone: «Nello zaino di ogni soldato c’è il bastone del maresciallo». Nella bottega rinascimentale di quella ’Repubblica’ si imparava la lezione di giornalismo di Scalfari: la chiarezza e la fuga da metafore e barocchismi. Ma anche lo spirito civile e l’amore per la cosa pubblica. Dopo Tangentopoli Vito Laterza concordò con Scalfari l’idea di pubblicare gli scritti di Ernesto Rossi contro monopoli, corruzione e padroni del vapore. Scalfari scrisse l’introduzione e a me spettò il compito di mettere insieme il volume. In un momento di stanchezza nella lavorazione mi incoraggiò a superare le difficoltà: «Diamo una mano a questa Italia», disse. ’Repubblica’ era anche questo.
Giorgio Ferrari per Avvenire
Eugenio Scalfari è morto ieri a Roma a 98 anni. Nato a Civitavecchia il 6 aprile 1924, Scalfari è stato il primo direttore-manager dell’editoria italiana, fondatore del settimanale ’L’Espresso’ e del quotidiano ’Repubblica’.
Al pari di Indro Montanelli, il nome di Eugenio Scalfari sarà uno dei pochissimi che verrà ricordato nei decenni a venire fra i padri nobili del giornalismo italiano. L’acuminata eleganza del ragionamento, il radicale fastidio per la cialtroneria e l’approssimazione, la strepitosa invenzione di Repubblica, il giornale-partito con cui tutta la politica italiana ha dovuto fare i conti per più di trent’anni dopo che per oltre quindici dalle colonne dell’altra sua creatura, L’Espresso, aveva fustigato e stanato la “razza padro- na” (dal titolo di un fortunato pamphlet-inchiesta in coppia con Giuseppe Turani) e messo all’indice il rumore di sciabole del golpe strisciante del 1967, lo consegnano a una fama monumentale. Una fama che egli stesso negli anni della maturità si era incaricato di prolungare ad aeternum, grazie a un’accurata manutenzione della propria immagine (e del proprio ego).
I suoi giornalisti lo chiamavano Barbapapà, per quella facies mosaica che lo faceva idealmente rassomigliare a un personaggio del Pentateuco. E come tale spesso si comportava. Ma certa alterigia, certa albagia, certa altezzosità che amici e avversari gli riconoscevano e che trascolorava dalle colonne del suo giornale erano parte di quel moralismo laico che Scalfari aveva desunto da uomini come Ugo La Malfa, Mario Pannunzio, Arrigo Benedetti e riconfezionato a propria misura. Un marchio di qualità che alla guida di una corazzata come Repubblica interpose come un cuneo fra le grandi famiglie politiche ritagliandosi un ruolo di arbitro fra vigorose inimicizie (quella con Craxi, memorabile) e insospettate aperture di credito (con Ciriaco De Mita) dopo una lunga collateralità con Il Pci. Non privo di personali ossessioni, come la ventennale sfida personale con Silvio Berlusconi (e in misura minore con Giulio Andreotti), mai conclusa e mai appagata da un armistizio consensuale, Scalfari ha goduto negli ultimi anni di fuggevoli infatuazioni per alcuni nuovi leader politici, rivendicando puntualmente - da philosophe quale si reputava - il diritto di cambiare idea nello spazio di un mattino.
Figlio di un gestore di Casinò, compagno di banco di Italo Calvino al liceo classico Cassini di Sanremo, forse già da quando indossava la divisa di balilla-moschettiere si collocava senza rendersene conto a mezza strada tra Saint Just e Voltaire, ruolo che sempre più avrebbe coltivato negli anni, sferzando il potere e i poteri, i vari Cefis, Sindona, Gardini, denunciando la maxi-tangente Enimont non meno del malaffare che rodeva dall’interno l’anima dei partiti e che sfocerà in Tangentopoli. La questione morale, più che la politica, era diventata negli ultimi anni del secolo la questione personale di Eugenio Scalfari.
Ci lascia a novantotto anni, dopo una lunga parabola che ha visto La Repubblica superare per vendite e influenza il Corriere della Sera (storica l’urticante telefonata di Scalfari a Gianni Agnelli per informarlo “dell’avvenuto sorpasso strutturale, non episodico”) e una moltitudine di pubblicazioni d’intonazione filosofica - da Incontro con io, a Per l’alto mare aperto, da Scuote l’anima mia Eros a La passione dell’etica a L’amore, la sfida, il destino per citare i più noti - da far invidia ai libertini del Settecento e più di tutti a quel François-Marie Arouet (in arte Voltaire) cui agognava di somigliare.
Uomo del secolo breve più che del nuovo millennio, Scalfari s’arrovellava negli ultimi tempi per trovare un nesso che coniugasse la complessità di un mondo in vorticosa trasformazione, ricorrendo non di rado alla poesia e alla musica (che maneggiava con imbarazzante goffaggine) per decifrarne le istanze più segrete. Gli mancava, nonostante il senso del sacro da cui era attratto, quella fede senza la quale non si colmano “le domande ultime dell’uomo”, come ricorda il Papa, che conserva con affetto la memoria degli incontri e delle dense conversazioni con il patriarca del giornalismo italiano.
Ipse Dixit
Sergio MATTARELLA
Presidente Repubblica
«Addolorato per la scomparsa di Eugenio Scalfari giornalista, direttore, saggista, uomo politico, testimone lucido e appassionato della nostra storia repubblicana»
Mario
DRAGHI
Presidente del Consiglio
«Lascia un vuoto incolmabile nella vita pubblica del nostro Paese. È stato assoluto protagonista della storia del giornalismo nell’Italia del dopoguerra»
Gianfranco
RAVASI
Cardinale Santa Sede
«Conservo nei miei ricordi il nostro appassionante dialogo del 2013, nel vero spirito del “Cortile dei Gentili”, su sfide e futuro dell’informazione»
Elisabetta
CASELLATI
Presidente del Senato
«Ho dedicato un minuto di silenzio in Aula al Senato per ricordare Eugenio Scalfari, uno dei più grandi giornalisti del XX secolo e un protagonista della politica italiana»
Dario
FRANCESCHINI
Ministro della Cultura
«Eugenio Scalfari è stato un esempio di giornalismo civile e un profondo intellettuale che ha segnato con la sua opera il corso della storia dell’Italia repubblicana»
Paolo Garinberti per la Repubblica
Con Eugenio Scalfari eravamo rimasti d’accordo che ai primi di febbraio del 1986 sarei passato a Repubblica per guidare la redazione esteri, allora diretta da Giorgio Signorini. Una sera di gennaio, quasi a mezzanotte, mi chiamò Vittorio Zucconi da Washington: «Eugenio mi ha chiesto di fare un sondaggio per capire se saresti disposto a fare il capo della redazione politica per qualche tempo. Ci sono le elezioni, il ruolo è scoperto. Gli faresti un favore». Accettai a malincuore. Mi ero occupato per sei anni di politica italiana come capo della redazione romana della Stampa e non era stata un’esperienza entusiasmante. Ma con le elezioni alle porte, mi fece notare il mio nuovo direttore, c’era da rimboccarsi le maniche e organizzare «tre tavole rotonde con i leader dei partiti».
Chiesi perché tre e Scalfari rispose: «Democristiani, comunisti e repubblicani ». E i socialisti? «Ah tu dovresti sapere che con Craxi non ho rapporti». Obiettai che non potevamo lasciare fuori il terzo partito d’Italia. «Provaci tu allora. Se ci riesci...». Chiamai Bettino Craxi per sondarlo. «Perché mai dovrei venire a Repubblica? Nella tana di Scalfari?». Senza molte speranze provai a rilanciare: «Il Psi sarà l’unico partito importante assente. Viene De Mita, viene Natta, viene Spadolini. Mancherà soltanto lei». «Allora - fu la risposta - vengo e la responsabilità sarà tutta sua». L’incontro fu freddo, ma molto cortese. E, come notò subito dopo la conclusione Alberto Stabile, che era incaricato di redigere il testo, fu di gran lunga la migliore, la più frizzante delle quattro tavole rotonde: Eugenio e Craxi duellarono con il miglior fioretto della politica e fu uno scontro ad alto livello. Passarono le elezioni ma la fine del mio incarico temporaneo non arrivava.
Finché Scalfari fece una proposta: «Signorini mi ha chiesto di restare ancora un po’ di tempo. Potremmo fare una coabitazione. Non durerà a lungo». Fu allestito un altro box al quarto piano del palazzo di Piazza Indipendenza, dove allora era la redazione, e iniziò un’inedita diarchia, resa possibile dal fatto che Giorgio Signorini, uno dei fondatori di Repubblica,era uno straordinario gentleman, con il quale era impossibile non andare d’accordo. Fu una stagione straordinaria per chi lavorava alla sezione esteri.
A Mosca c’era stato il cambio della guardia tra la gerontocrazia dominante da anni, con tre segretaridel Pcus morti in stretta successione (Breznev, Andropov e Cernenko) e l’arrivo al vertice di Mikhail Gorbaciov, anche se l’inizio dell’era della glasnost, della trasparenza, fu offuscato dalla tragedia di Chernobyl. E poi, tra il 1989 e il 1991, la caduta del Muro di Berlino, il golpe a Mosca, la prima guerra del Golfo, la fine dell’Urss. Il mio ricordo di Scalfari, in quegli anni tumultuosi e affascinanti, è di un grande direttore d’orchestra: dava i tempi e rispettava gli orchestrali, suonare toccava a noi, all’ufficio centrale, agli esteri, ai grafici.
Nel 1986 il corrispondente da Mosca era Alberto Jacoviello, che, poco tempo dopo, comunicò a Scalfari la sua intenzione di concludere l’incarico e tornare in Italia. Eugenio mi chiese una lista di nomi per la successione. Gli proposi un solo nome: Ezio Mauro. «Mi piacerebbe moltissimo, ma non verrà mai, gli piace troppo la politica italiana. Ma se lo convinci ti pago una cena, dove vuoi tu e scegli anche il vino». Io vinsi la scommessa, tra Eugenio ed Ezio cominciò un sodalizio, che fa parte della storia di questo giornale.
Scalfari aveva un grande interesse per la Perestrojka di Gorbaciov. Lo accompagnai in un viaggio a Mosca, dove incontrò alcuni dei protagonisti di quella stagione di riforme incompiute. La personalità che lo colpì di più fu Aleksandr Jakovlev, considerato il vero ideologo del gorbaciovismo. Negli anni 70, in piena restaurazione brezneviana, quando a Solgenitsyn e a Sakharov veniva negato il visto per andare a ricevere il Nobel, aveva scritto un articolo “sovversivo” sulla Literaturnaja Gazeta che gli eracostato un lungo esilio in Canada. Tra i due nacque un rapporto intellettualmente forte. E quando Jakovlev venne in Italia per un congresso del Pci questo rapporto valse aRepubblica un’intervista esclusiva molto invidiata. Peccato che il mattino dopo la foto che corredava l’intervista non era quella di Aleksandr, ma del suo omonimo, il giornalista Egor. Scalfari, al quale avevo fatto una telefonata preoccupatissima per l’incidente diplomatico, rimediò inviando a Jakovlev una cassa di pregiatissimo vino francese. Juan Luis Cebrián, che è stato direttore del País, ha raccontato ieri il sogno di un giornale europeo.
Repubblica e El País erano nati quasi insieme e il forte rapporto di collaborazione che si stabilì tra le due redazione era naturale. C’era un altro giornale molto giovane, The Independent, con il quale si creò un legame “generazionale”: Scalfari e Andreas Whittam Smith, che lo aveva fondato nel 1986, diventaronoamici. Nel 1992, senza dirgli nulla, andai a Londra a correre la maratona. Quando tornai, con tono severo, alla riunione di redazione del mattino, la famosa “messa cantata”, Eugenio deplorò che il capo della redazione esteri fosse «andato in giro per una capitale europea in mutande e canottiera». Era poco dignitoso, disse, e non lo convinse la mia obiezione che il mio omologo dell’Independent, il giornale del suo amico Whittam Smith, avesse fatto la stessa cosa e il suo racconto fosse stato pubblicato in prima pagina. «Gli inglesi sono eccentrici », fu la risposta. Ma quando Giacomo Leone vinse la maratona di New York e scrissi un commento per la prima pagina di Repubblica (già diretta da Ezio Mauro) alle otto del mattino ricevetti una telefonata da Scalfari: «Hai scritto il pezzo più bello da quando sei aRepubblica. Gli ricordai la sua ramanzina di qualche anno prima. «Vabbè, che c’entra. Un conto è correre e un conto è scrivere», fu la risposta.
L’anno dopo lasciai Repubblicaper dirigere il Tg2 della Rai dei “professori”. Scalfari mi diede la sua benedizione con queste parole: «Ti auguro grande successo, ma la Rai è troppo condizionata dalla politica. Sarà dura». Fu grande profeta. Ci fu la “discesa in campo” di Berlusconi, la sua ascesa a Palazzo Chigi e la susseguente “purga” in stile sovietico alla Rai: Demetrio Volcic via dal Tg1, io dal Tg2 e Andrea Giubilo dal Tg3. Scalfari mi chiamò: «Le porte diRepubblica sono sempre aperte. Torna quando vuoi, questa è casa tua». Aveva ragione, come sempre. Non l’ho mai più lasciata.
Simonetta Fiori per la Repubblica
Donata: «Se n’è andato in modo gentile, un gradino alla volta, come se volesse dirci: pian piano vi dovete abituare». Enrica: «È stato un viaggio di tre mesi di straordinaria intensità. Allegria, commozione, paura, incanto, divertimento. Per noi una necessità vitale accompagnarlo fino alla fine, per non perderci niente di nostro padre ». Nell’attico pieno di luce, dietro il Pantheon, le ragazze Scalfari — come le abbiamo sempre chiamate — rievocano gli ultimi momenti d’una vita straordinaria, eccezionale anche in punto di morte.
Il tono della voce è sereno, di chi sa che non avrebbe potuto far di più per quel genitore molto amato. «La sofferenza c’è stata, l’abbiamo condivisa insieme», dice Enrica. «Il timore di qualcosa che si avvicina, del congedo non più evitabile. Ma lui c’è sempre stato, anche quando ha smesso di parlare, c’era con lo sguardo e con i gesti, come a guidarci tenendoci per mano anche in quei frangenti». «Donne c’avete intelletto d’amore...», così Eugenio Scalfari si rivolge alle figlie in uno dei suoi libri più intimi, quello dove rivela la sua vita sentimentale complicata. Insieme alla moglie Simonetta e alla compagna Serena (che poi sposerà), la maggiore Enrica e la più piccola Donata hanno rappresentato «una personale costellazione che è stata il mio significato», un fuoco affettivo senza il quale è impossibile immaginare la vita del fondatore.
E Dante ha continuato a essere un compagno dei loro ultimi giorni, tra giochi e sorprese. Donata: «È rimasto stupefatto quando gli ho recitato a memoria le terzine dei suoi canti infernali preferiti, il V di Paolo e Francesca e il XXVI dedicato a Ulisse. Mi guardava un po’ ironico, come a dire anche tu figlia ce l’hai fatta ». Poteva addormentarsi per giorni, allarmando medici e infermieri che l’hanno assistito a casa. Enrica: «Un giorno abbiamo pensato: ci siamo. Quando all’improvviso si è tirato su dal letto guardandoci fisso: ora che si fa? Come, papà, che si fa? Ti devi riprendere, alla tua età sei fragile. Ma perché quanti anni ho? Novantotto papà. Ma che dici, mi pare un’esagerazione. E giù con una risata pazzesca che portava allegria in ogni angolo della casa».
C’era ancora tempo per riascoltare Mozart, o intonare insieme alle infermiere Parlami d’amore Mariù , o lasciarsi andare alle note del suo brano preferito, Sentimental Journey ,mi raccomando nell’edizione di Ella Fitzgerald. «Fino alla fine non ha mai smesso di essere un direttore», ricorda Enrica. «Era come se disponesse sul suo letto di una scrivania ideale dove organizzava il lavoro degli altri. Oppure mi chiedeva di avvertire i dimafoni per l’articolo che aveva in mente: la scrittura è stata lo psicofarmaco della sua vecchiaia». I medici dicono di non aver mai visto niente del genere: un attaccamento alla vita oltre ogni possibilità fisica. Donata: «Si è arreso solo negli ultimi giorni, forse quando ha capito che il viaggio ormai era terminato». Forse aveva capito anche che le figlie erano pronte. Ma si è mai pronti alla morte del padre? «Non potrò mai dimenticare il suo ultimo sguardo su Simone, mio figlio», racconta Donata. «Sembrava assopito quando la presenza nella stanza del nipote ha avuto l’effetto di riscuoterlo. Simone gli ha suonato qualche canzone al pianoforte e gli occhi di papà non lo lasciavano andar via. Anche con Ettore Viola, mio marito, c’era la stessa intensità di sguardi: come se fosse una cosa tra uomini», chissà forse un passaggio di consegne, ti affido il mio tesoro affettivo, abbine cura. È stato un padre “narciso”, “ingombrante”, “superprotettivo”.
Ma Enrica e Donata hanno fatto in tempo a fare i conti con una figura gigantesca sul piano pubblico, tenerissima nel privato, afflitta da contraddizioni amorose laceranti. La storia sentimentale di Scalfari è stata raccontata molte volte, da lui stesso in molti libri. L’incontro con Simonetta De Benedetti, affascinante figlia del mitico direttore della Stampa .
Il matrimonio, le due figlie desiderate. E poi l’amore con Serena Rossetti, giovane e bella fotografa amica di famiglia. Affetti nuovi in conflitto con sentimenti più antichi, lo sperdimento, l’impossibilità di scegliere. Ma nessuno poteva restituire tutto questo con l’intensità di Enrica e Donata in quello struggente set di terapia famigliare che è il documentario A Sentimental Journey . Eccoli insieme nella casa di piazza della Minerva, le figlie sedute davanti al padre. Poche, selezionate parole per evocare la triangolazione sentimentale che le ha esposte ancora bambine a ciò che non si può capire, alle sofferenze della madre, all’accettazione forzata di un padre diviso. «Ci furono contrapposizioni durissime », ricorda il padre, quasi implorando con lo sguardo il perdono. «Le ricordate?». «Tutte», arriva fulminea la risposta di Enrica. E lì accade qualcosa, un momento di silenzio in cui il dolore condiviso e finalmente riconosciuto si scioglie in un amore che accoglie. «Serena è come se fosse sempre esistita», dice la voce fuori campo di Donata. «Ora è lei il tuo sostegno». Anche le vite complicate possono essere vissute con leggerezza: questa in fondo la morale diA Sentimental Journey . «Talvolta non ci sono alternative alla vita che ci è data e dunque il suo senso non è altro che viverla», annota Scalfari nei suoi taccuini. Anche la cerimonia degli addii non sfugge alla regola, bisogna viverla fino in fondo, senza drammatizzare. Il mare, l’acquaticità, le nuotate nella piscina di Velletri di uno Scalfari sempre più esile. Quasi ogni immagine nel documentario delle figlie sembra richiamare il commiato con levità, l’importante è fare un passo alla volta.
Ora che il viaggio è davvero finito, le ceneri saranno portate nel cimitero di Rosta, un minuscolo borgo vicino a Torino, dove riposa la prima moglie Simonetta insieme a suo padre Giulio De Benedetti. Tutto è stato lasciato scritto. Ciò che è rimasto fuori dalle disposizioni, Scalfari l’ha realizzato senza dirlo negli ultimi cento giorni: bisogna congedarsi lentamente, gradino dopo gradino, abituandoci gli uni con gli altri all’assenza. Dalla Calabria al Piemonte, s’è chiusa una storia lunga un secolo. Ma ne comincia un’altra dentro la memoria, individuale e collettiva,che forse non finirà mai.
Ugo La Malfa intervistato da Clotilde Veltri per la Repubblica