la Repubblica, 15 luglio 2022
La ciurma dei primi tempi di Repubblica
Ho conosciuto Eugenio Scalfari nell’autunno 1975 da quasi imberbe volontario del “Rotor”, la ciurma dei sessanta ragazzi e ragazze guidata da Gigi Melega, rumoroso supporto volontario della nascente redazione di Repubblica. Chi non ha partecipato a quell’entusiasmante avventura non sa che cosa s’è perduto. Animati dal sacro fuoco, ci sentivamo privilegiate comparse di un’impresa monarchica. Sì, perché la Repubblica nasce monarchia assoluta quanto illuminata. Non per decreto ma per carisma di re Eugenio. Sotto lo smagato sguardo del nostro altrettanto inimitabile editore, Carlo Caracciolo.Eravamo nell’Italia che non c’è più, quella della vituperata partitocrazia. Paese unico al mondo, dove alla carenza di Stato più o meno brillantemente sopperivano i partiti e le loro diramazioni. “Partito” lo era, a suo peculiarissimo modo, anche il nostro giornale. Però totalmente indipendente dai partiti politici, riferimento inaggirabile del dibattito pubblico e delle correnti culturali che davano il tono a quegli anni.Non credo mi facciano velo l’affetto e la riconoscenza che da allora ho provato per Eugenio nel valutare l’eccezionalità di quella pattuglia, inizialmente esigua ma combattiva e variegata, da lui diretta con mano sicura.Solo prestigio e autorevolezza del direttore potevano comporre personalità così esuberanti come Mario Pirani, Gianni Rocca, Fausto De Luca, Sandro Viola, Giorgio Signorini, Miriam Mafai, Giorgio Rossi, Carlo Rivolta, Rosellina Balbi, per citare solo alcuni dei protagonisti degli anni di fondazione. Ciascuno con opinioni piuttosto robuste, tutti disposti alla contraddizione. Al punto che, quando non trovavano contestatori altrettanto autorevoli, amavano contraddire sé stessi per puro gusto della discussione. Tutti disposti – talvolta a denti stretti – a sottomettersi all’arbitrato finale di Eugenio, senza necessariamente cambiare opinione. Sicché dopo la riunione del mattino il direttore fischiava la fine del primo tempo, quello dialettico, e scatenava la fase finale, che culminava verso le otto con i titoli di prima pagina e la lettura dialogica dell’editoriale di Eugenio per gli ammessi all’udienza.Oggi li ricordiamo come “anni di piombo”. Lo furono, anche. Ma il colore di quegli anni restava quello della speranza e del cambiamento. La convinzione, talvolta un po’ fanatica, di essere “dalla parte giusta della storia”. Di una sinistra liberale e socialdemocratica – nel senso originario del termine – profondamente laica ma non mangiapreti (all’epoca il Vaticano contava qualcosa), orientata da Eugenio verso l’obiettivo strategico del superamento del “fattore K”: la piena integrazione del Pci nel sistema democratico attraverso la sua legittimazione a governare, per la quale necessitava il famoso “strappo da Mosca”. Sul quale si sprecavano le diatribe fra chi lo vedeva compiuto o in via di compimento (il direttore su tutti) e chi lo considerava tutto da verificare o addirittura impossibile. Solo Eugenio poteva dirigere e dirimere quella mischia.Fra tutti gli insegnamenti che ho ricevuto da Eugenio, massimo resta il gusto di cercare chi non la pensa come me per confrontarmici.E di apprezzare la diversità delle opinioni altrui come arricchimento delle proprie. In tempi di cancel culture e di intolleranza esibita, sono specialmente grato a Eugenio di avere sempre difeso e addirittura protetto chi – e aRepubblica ce n’erano parecchi – non condividesse le sue tesi. Di tale suo irremovibile principio sono testimone avendolo sperimentato di persona.Non solo per questo, ma soprattutto per questo, Eugenio è stato e resterà la mia bussola professionale. Così come porterò sempre con me il ricordo della sua burbera dolcezza. Daquel sentimentale che era.