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 2022  luglio 14 Giovedì calendario

Franco Barberi, luomo che domò l’Etna

«Nell’anno di nostra salute 254, il primo di febbraio, il che fu il secondo anno dopo la morte di Sant’Agata, gittando l’Etna molte gran palle di fuoco, i Catanesi apersero il suo sepolcro e pigliato il velo col quale era coperto il suo corpo, lo portarono contra le fiamme del monte. Il che fatto (ch’è cosa maravigliosa), subito il fuoco mancò e come s’egli avesse avuto paura di quel velo, lasciando la città di Catania, si rivolse in altra parte».
Il frate domenicano Tommaso Fazello colloca il prodigio due anni dopo il martirio della patrona di Catania. Altri un anno dopo. Ma è più o meno dal lontanissimo 254 che, di fronte alla furia dell’Etna, il solo rimedio conosciuto dalla gente che vive attorno al vulcano è stato portare in processione il velo che avvolse il corpo della Santa. Ma anche tra esperti e vulcanologi nessuno aveva mai osato immaginare che si potesse arginare il fiume di roccia fusa che periodicamente sgorga dall’Etna. Fino al 1992, quando Franco Barberi, oggi 84enne, ipotizzò che il corso di una colata lavica poteva essere deviato, scongiurando danni e devastazione.
Esattamente trent’anni fa Barberi, che nel ’95 sarà nominato ministro nel governo Dini e poi sottosegretario con Prodi e D’Alena, fu il grande regista di un intervento di Protezione civile mai sperimentato al mondo. Era il 27 maggio, quattro giorni dopo la strage di Capaci. E proprio per l’enorme impatto che ebbe quella tragedia la notizia dell’impresa di Barberi sui giornali fu appena segnalata. Mentre fino ad una settimana prima l’Etna era sui media di tutto il mondo.
Il 12 aprile il governo aveva dichiarato lo stato di emergenza e affidato pieni poteri al ministro Nicola Capria. Sull’Etna erano stati mobilitati migliaia tra scienziati, volontari, uomini delle forze dell’ordine e dell’esercito, mentre l’ambasciatore Usa Peter Secchia aveva messo a disposizione marines e i mastodontici elicotteri Black Stallion di base a Sigonella.
L’eruzione, iniziata nel dicembre 1991, fu una delle più imponenti degli ultimi cento anni: alla fine dai crateri verranno fuori ben 235 milioni di metri cubi di materiale incandescente. Nella primavera del 1992 il gigantesco fiume di lava era ormai a ridosso di Zafferana Etnea e i suoi 10 mila abitanti rischiavano di veder sparire per sempre case e attività produttiva. «Non c’era scampo – conferma Barberi – le simulazioni al computer ci dicevano chiaramente che la città sarebbe stata quasi interamente coperta dalla lava».
Prima furono fatti altri tentativi per fermare la colata…
«Sì. Venne realizzata anche una sorta di diga, ma dopo alcune settimane era già stata sovrastata dal magma. Quell’eruzione era particolarmente pericolosa perché le bocche eruttive erano a bassa quota, intorno ai 2.200 metri, e perché nel suo avanzare la lava creava dei tunnel sotterranei. Quindi si raffreddava in superficie, ma sotto rimaneva fluida e correva veloce. Per bloccarne il flusso tentammo persino il lancio nel canale lavico di enormi blocchi di cemento con gli elicotteri di Sigonella. Ma non servì a nulla, la colata era ormai vicinissima al centro abitato».
Non rimaneva che osare la deviazione?
«Esatto. Era la prima volta al mondo. C’era stato un tentativo nell’83, sempre sull’Etna, ma era riuscito solo parzialmente».
Come nacque l’idea?
«Alla base c’è lo studio di una proprietà tipica della lava che è un particolare fluido, definito di Bingham. A differenza dei fluidi newtoniani, come l’acqua, per la lava non basta solo la forza di gravità perché scivoli giù. Per avanzare un fluido di Bingham necessità di una forza aggiuntiva che per una colata è il nuovo magma che esce dalle bocce eruttive. L’idea era: deviare a monte la colata verso un canale artificiale in modo da far venire meno la spinta e quindi bloccare il fronte a valle».
«Nell’operazione fu impiegato un quantitativo enorme di esplosivo. Penso spesso a come in quei giorni in Sicilia fu usato in modi opposti: seminare morte e proteggere una città dalla distruzione»
Andò tutto come previsto?
«Ci furono dei grossi problemi nella gestione dell’esplosivo. Una quantità enorme: ben seimila chili. Per deviare la colata sul canale artificiale c’era bisogno di una potente esplosione. Ma posizionare tutto questo esplosivo su un argine dove ci sono temperature altissime non era uno scherzo. Ci riuscimmo grazie agli “Arditi Incursori” della Marina di La Spezia che coprirono le pareti dove collocare l’esplosivo con teli di lana di vetro e solo all’ultimo momento posizionammo l’esplosivo».
Cosa avvenne dopo l’esplosione?
«Fu un’emozione indescrivibile. Solo io e pochi colleghi eravamo autorizzati a rimanere in zona. Per ripararci ci nascondemmo dietro a una parete di roccia protetti da una lastra di metallo. Mentre eravamo ancora sotto la fitta pioggia di pietrisco vedere il canale principale sfondato e la lava scendere in quello artificiale fu una gioia incredibile. Uno dei momenti più belli della mia vita. Quello che avevamo simulato al computer era perfettamente riuscito».
In quei giorni lei saliva ogni mattina in prossimità dei crateri. Cosa avvenne dopo la deviazione?
«Sono andato su ogni giorno, per mesi. Ormai con il vulcano ci parlavo. Dopo mesi ad emettere quantità impressionanti di lava mi colpì vedere che il giorno dopo la deviazione anche il tasso di emissione dalle bocche era drasticamente sceso. Come se il vulcano si fosse arreso e mi dicesse: “vabbè ce l’avete fatta, ora mi posso calmare”».
Dopo quell’intervento la definirono un «domatore di vulcani»...
«Ma no… posso però dire che abbiamo avuto la conferma che l’uomo può controllare le eruzioni effusive. Ben altro è il discorso per quanto riguarda le eruzioni esplosive, che restano invece difficilmente domabili».
Un’importante scoperta scientifica che, almeno sui giornali, passò sotto silenzio…
«Ciò fu dovuto sicuramente alla coincidenza con la strage di Capaci. Penso spesso a come in quei giorni l’esplosivo in Sicilia sia stato impiegato in modi così opposti: a Capaci per seminare morte, sull’Etna per proteggere una città dalla distruzione».