la Repubblica, 14 luglio 2022
Nella biblioteca di Umberto Eco
Alla fine, dopo avere riempito di pile di libri tipo grattacieli (c’erano anche Park Avenue e Fifth Avenue negli spazi angusti per camminare) la sua prima casa milanese dominata dai figli piccoli, Eco ha deciso.Toccava a lui, alla moglie Renate, ai bambini Stefano e Carlotta andare ad abitare con i libri, non il contrario. Lo spazio doveva essere grande abbastanza da accogliere le biblioteche che erano andate formandosi per lavoro, per ricerca, per passione, per memoria. Agli esseri umani, secondo il governatore dei libri e sua moglie complice, bastavano le sedie e un letto. Per fortuna Renate era designer negli anni in cui a Milano disegnare spazi e dislocazione di oggetti era più importante che costruire turbine e conferiva autorevolezza anche alle imprese azzardate. Per esempio, Renate aveva trovato locali, immensi e sbrecciati, di una banca abbandonata, e Umberto aveva visto subito il suo progetto avverarsi: libri dovunque, quelli di allora (l’infanzia e la scuola) quelli di adesso, il vasto popolo letterario di un progetto cominciato subito (quando insieme vagavamo per le bancarelle di mezza Europa negli anni Cinquanta), insieme a quelli che Eco aveva già scritto, e continuava a scrivere, spesso capocordata di percorsi radicalmente nuovi, alternati a Diario Minimo per raccontare le cose in un altro modo e di cui subito qualunque lettore le raccontava a un altro, e Filosofia in versi, comica e rigorosa. Era già celebre la sua frase «se c’è un Paradiso deve essere una biblioteca». Eco immaginava un Paradiso molto laborioso. Quando ero ospite nella nuova casa – cantiere, tutta libri e cemento (ma Renate aveva già impiantato un giardino dove una volta c’erano gli sportelli) dormivo nella stanza di Stefano, a cui si arrivava dal corridoio dei libri. Spesso, nella notte continuavo a sentire velocissimi passi su e giù per quel corridoio. Era un percorso lunghissimo, da dove cominciava la casa a dove finiva. Era una sconfinata parete di libri continuamente riorganizzata anche nel cuore della notte. Se Tondelli era finito fuori dalla sua generazione e dal suo percorso di narrazione, o se La luna e i falò era stato inavvertitamente assegnato alla letteratura dell’antifascismo, la sistemazione giusta, scoperta dalla revisione continua dalla immensa stanza di redazione, andava fatta subito, in modo che le zone di errore, in quell’immensità di libri, non rischiassero di espandersi. La stanza di redazione era allo sbocco del corridoio dei libri e fin da subito era la perfetta immagine del romanzo Numero Zero che Umberto avrebbe scritto tanti anni dopo (e che è stato l’ultimo della sua attività di scrittore di fiction). C’erano tre tavoli grandi, uno, con lettere appena aperte, e con fascicoli scritti in varie lingue e calligrafie, uno con manoscritti e raccolte di bozze, che solo a prima vista sembravano buttati per caso, ma solo dopo, mentre aspettavi in piedi (non c’erano sedie) ti accorgevi che c’era ordine in quel pazzesco disordine. E uno con libri appena arrivati, qualcuno con illeggibili copertine di lingue orientali. In fondo allo stanzone “di redazione” vicino alla finestra, c’era il tavolo di lavoro di Umberto, il computer al centro (doveva sempre finire qualcosa prima di accorgersi che eri arrivato) e lo stesso laborioso disordine degli altri tavoli, pagine appena stampate, libri aperti per vedere bene la copertina e il risvolto di copertina, pagine scritte a mano o disegnate con didascalia. Dietro quel tavolo c’era il tavolo di una brava e occasionale segretaria o assistente che – se c’era – appariva perduta dietro barriere di materiale scritto o stampato in continuo arrivo. Una strana e curiosa impressione era che quel rifugio gremito di cose legate ai libri, fosse non il rifugio di uno, ma un lavoro collettivo.
E non avresti mai scoperto la fortezza della solitudine di Eco (citazione sua dai fumetti di Superman contro la kryptonite) se lui non ti avesse guidato. Bisognava rifare all’indietro l’infinito corridoio dei libri (trentacinquemila libri, dove prima stava tutta una banca) e trovare una piccola porta che potevi non notare prima di entrare nella parte di famiglia della casa. Umberto l’apriva agli estranei raramente e prendeva subito l’atteggiamento allo stesso tempo immensamente orgoglioso di chi sta svelando qualcosa di molto raro, e guardingo affiché meraviglia, sorpresa e curiosità fossero tenute a bada dal visitatore. Era la stanza dei libri antichi, 1300 opere dai costi impossibili, reperibili solo in tre o quattro librerie antiquarie del mondo, dove Eco aveva investito tutto ciò che altri narratori di immenso successo avrebbero dedicato alla buona vita.
Ma c’era una meraviglia in più che ti teneva e ti intratteneva sulla soglia dello “studiolo” (definizione di Umberto). Lo “studiolo” era stato disegnato e montato dalla figlia di Umberto, Carlotta.
Il suo primo lavoro di architetto, ed era bellissimo nella sua rigorosa semplicità classica, più bello della pur accurata replica che ne è stata fatta alla biblioteca Braidense di Milano quando l’istituzione ha voluto onorare (nella prima settimana di luglio) il dono fatto a Milano dalla famiglia Eco, di tutta la libreria antica di Umberto, dono straordinario per realizzare il desiderio di uno scrittore straordinario. I “libri del corridoio” invece sono andati all’Università di Bologna, dove Eco ha insegnato per quarant’anni. Quattro suoi allievi ne sono i tutori, e nulla è andato perduto, anche se tutto ciò è il frutto di una appassionata lotta vinta da Stefano Eco con la Libreria dello Stato, che avrebbe voluto tutto, senza distinzione, per metterlo in fila con tutto il resto del suo materiale. Ma, come diceva Eco «se c’è un Paradiso è una biblioteca». Anche in questo aveva visto giusto.