il Fatto Quotidiano, 13 luglio 2022
Intervista ad Alessandro Borghi
Un’arena all’Idroscalo di Ostia, ideata da Fabia Bettini e Gianluca Giannelli di Alice nella Città e Francesca Mazzoleni, autrice del bellissimo documentario Punta sacra. Cinque giorni di proiezioni, a ingresso libero, accompagnate dai protagonisti del cinema italiano: è Puntasacra Film Fest.
Alessandro Borghi, perché ha voluto esserci?
Ho una connessione con i posti profonda, inconscia. Tra me e Ostia, tra me e l’Idroscalo ci sono Non essere cattivo, Suburra il film e Suburra la serie, ovvero cinque, sei anni di vita. Li ho visti cambiare quei luoghi, dal punto di vista estetico, riconnettermi oggi era doveroso: tra il Covid e lo stato dell’industria cinematografica, viviamo un momento di grande confusione, anche emotiva, e poter parlare col pubblico, con degli esseri umani è fondamentale. Che ti vuoi di’ in un quarto d’ora? Qui ho potuto parlare per un’ora, e ho dovuto ricacciare indietro le lacrime.
Come è arrivato al festival?
Francesca Mazzoleni: ci conosciamo da poco, ma la sintonia è stata immediata, ora faremo una serie insieme. Francesca e Alice nella Città mi hanno regalato un’accoglienza speciale, identitaria: mi chiedevo, “come dovrò parlare?”, due secondi dopo era come se fossi a casa de mi’ zia.
Nostalgia?
Faccio fatica a gestirla, la nostalgia. Colori, odori, sapori, e mi emoziono. Non essere cattivo è del 2015, da allora sono cambiate un milione di cose, il lavoro e io stesso. Davanti al palco c’era il bar del mio Aureliano nella stagione uno di Suburra, dove ho girato la mia prima posa: ero un ragazzetto coi capelli biondo platino, era la prima serie originale Netflix in Italia, nessuno di noi sapeva che stessimo facendo. Al più si era abituati ai sei milioni di spettatori su Rai Uno, la prima di Suburra l’hanno vista in settanta milioni…
E?
Dal palco guardavo il terreno antistante, e facevo i conti: lì mi avranno sparato trenta, quaranta volte. E poi i camion e i camerini di Non essere cattivo, Claudio Caligari, Valerio Mastandrea e Luca Marinelli.
Marinelli lo ha ritrovato ne Le otto montagne, premiato a Cannes e dal prossimo 22 dicembre in sala.
L’amicizia con Luca sfocia nella fratellanza. Non abbiamo nulla in comune, siamo estremamente diversi e ci vediamo poco, ma ogni volta ridiamo tantissimo.
Siete le uniche star della vostra generazione.
Capiamoci: voler dimostrare di essere i più bravi porta a sbagliare dal punto di vista umano. Perché uno non solo cerca di fare del proprio meglio, ma di frenare l’altro. Ho pochi amici nel mio lavoro, non c’è una vera comunità nel cinema: sarebbe bello, ma non c’è. Tanti colleghi pensano li giudichi negativamente per i film che hanno girato, ma non me ne frega nulla: ho amici fraterni tra chi ha fatto Uomini e donne.
Antidoto all’ossessione del migliore?
Non abituarsi all’idea di poter essere un beneficio per un film, che qualcuno possa gioire della mia presenza.
Di Caligari oggi che le rimane?
È il mio angelo custode. Nella testa mi rimbomba il suo amore smisurato per il mestiere, una devozione più forte del tumore: l’ha tenuto in vita fino al primo montaggio. E poi l’importanza di raccontare storie: è la base per un cinema di qualità, o quantomeno interessante, non si può fare un film per riempire un buco o per il bonifico.
Il 2 novembre del 1975 all’Idroscalo l’ultima notte di Pasolini, di cui ricorre il centenario della nascita: lei chi celebra?
Per Non essere cattivo Claudio ci diede due film: Mean Streets di Scorsese e Accattone, che avevo visto così tante volte da conoscerne a memoria le battute. Non esisterà un altro come Pasolini nella capacità di comunicare, comunicare fortissimo: oggi la tv non la vedo, non c’ho più manco l’antenna, vado su YouTube e mi rivedo Pier Paolo.
Roma invece come la vede?
È complicata, e ricattatoria: mi fa incazzare. Il ricatto è questo: vuoi stare nella città più bella del mondo? E allora devi sostenere che la mondezza esca dai secchioni, che le cose non funzionino, e via dicendo. Ma sempre più spesso te lo dici: ‘fanculo, me ne vado, come posso far crescere i miei figli qui? Poi però torni da un set, prendi la bici, fai un giro al tramonto e capisci subito perché non te ne sei mai andato.
Come se ne esce?
Quando facevo avanti e indietro da Londra, al confronto trovavo una città ferma da due decenni. E, mi interrogavo, perché? Credo che il problema derivi in gran parte dall’approccio dei suoi cittadini, ma dobbiamo chiedercelo: l’hanno abbandonata per primi loro Roma o viceversa?