Corriere della Sera, 13 luglio 2022
Cent’anni dalla morte di Moreschi
Ha una lacrima in ogni nota e un sospiro in ogni respiro». L’affascinante scrittrice americana Lillie De Hegermann-Lindencrone, che aveva studiato canto, era moglie d’un diplomatico danese e teneva una frizzante cronaca di vita mondana, era elettrizzata a esser lì, quella sera, a casa della signora Bristed di New York: «I cantanti del Papa sono una vera attrazione… visto che il suo salotto è l’unico posto al di fuori delle chiese dove si possono ascoltare». Alessandro Moreschi, poi! Quando cantava lui in certe occasioni affollatissime, lei mandava un servo con tappeto e sgabello da campo a tenerle un posto: «Le note acute della sua voce struggente diventano quasi sovrannaturali».
Sono cento anni esatti che se n’è andato, l’ultimo cantore castrato del coro della Cappella Sistina. Eppure sentire su YouTube la sua Ave Maria, con tutti i limiti d’una registrazione pionieristica fatta negli studi Gramophone & Typewriter di Londra nel lontanissimo 1904, mette ancora i brividi. Al punto che ti immagini il famoso dialogo tra Paolo VI e Igor Stravinsky nel giugno 1965, quando il Papa chiese al grande compositore russo: «Posso far qualcosa per la musica?» «Santità, restituisca alla musica i castrati».
Rimpianti? Non è il caso. Cosa fossero i castrati lo lasciamo dire alla celeberrima Encyclopédie di Diderot e d’Alembert: «Si nominano così coloro i quali sono stati fatti eunuchi sin dall’infanzia per procurare loro una voce più nitida e più acuta. Vi si trovano in Italia dei padri barbari che, sacrificando la natura alla fortuna, cedono i loro figli all’operazione della castrazione per il piacere di gente voluttuosa e crudele che osa ricercare il canto di questi sfortunati». Un giudizio durissimo. Condiviso da quanti ebbero via via chiarissimo come il prezzo da pagare a quell’«arte» fosse troppo alto. «La cosa più terribile era», scriverà ad esempio Paolo Isotta, «che dovendosi essa effettuare in tenera età perché producesse i suoi effetti, ossia l’abnorme sviluppo della cassa toracica a seguito degli idonei esercizî effettuati nei Conservatorî, tanti fanciulli vi venivano soggetti, a dir così, alla cieca, prima, ossia, che si fosse potuto stabilire se possedessero talento canoro e musicale. Sicché la maggior porzione languiva poi senz’arte». Con responsabilità enormi, spiega Giacomo Baroffio nel saggio La voce perduta. Vita di Farinelli evirato cantore di Sandro Cappelletto, da parte della gerarchia cattolica: «La storia dei cantori evirati è un’orrenda e squallida riprova di quanto il malgoverno ecclesiastico, non la Chiesa ma alcune persone che in essa hanno trovato taciti assensi da parte di un gregge pusillanime, possa arrivare a compiere nel disprezzo dell’uomo e di Dio».
Il primo castrato ammesso nel Coro della Cappella Sistina in base a un’insensata interpretazione bizantina d’una lettera di Paolo di Tarso ai Corinzi («Mulier taceat in Ecclesia») riemersa ai tempi del Concilio di Trento col divieto alle donne di cantare in chiesa, fu Jacomo Vásquez nel 1587. L’ultimo, appunto, Alessandro Moreschi, nato nel 1858 a Montecompatri, sui colli romani, geograficamente vicina a Frascati ma lontanissima, spiega lo storico inglese Nicholas Clapton, autore della preziosa biografia Moreschi. L’Angelo di Roma, Edizioni Controluce, in termini economici, politici e culturali: «il mulo o il cavallo e il carro costituivano ancora il mezzo principale di trasporto», l’agricoltura era avara e «al censimento del 1871 il 67,7% della popolazione era analfabeta». Per capirci: che sapeva dei castrati, lì dov’era cresciuto, il piccolo Alessandro? Aveva una bellissima voce, cantava nei dì di festa nella cappella della Madonna del Castagno, fu sentito da uno «scopritore di talenti» della schola cantorum romana. Fine. Non si sa neanche, scrive Clapton, quando fu evirato. Incidenti d’infanzia, dicevano... «Il più frequente era l’attacco da parte di un cinghiale». La castrazione, non bastasse, «era stata considerata per secoli come una cura per malattie diverse, come la gotta, l’ernia e altre, sia per bambini che per adulti…».
La svolta
Il Papa Pio X nel 1903 decise che le voci acute fossero interpretate
solamente da fanciulli
Fatto è che Alessandro si affacciò su quel mondo che avrebbe affascinato fuori tempo massimo, nel 1871. Dopo Porta Pia. Quando Pio IX era già il primo Papa senza potere temporale e il destino della stessa schola cantorum era ormai segnato. Aveva tredici anni, era un ragazzino di campagna portato nel cuore di una città in subbuglio e alle inquietudini collettive gli si sommavano addosso quelle sulla propria identità. Una realtà scomodissima. Che fece di lui un uomo amareggiato dalla solitudine. Il talento, però, era cristallino davvero. Dodici anni di studi, cori, cerimonie sempre più importanti e nel 1883 (nonostante qualche polemica interna di chi gli rinfacciava, come il direttore della Cappella Giulia, di assumere troppi impegni col risultato di passare da serate «splendidissime» a «repentini abbassamenti di voce») era già «primo soprano» della cappella pontificia. Per diventarne nel 1892 segretario puntatore e l’anno dopo maestro pro tempore.
Il tutto mentre cresceva in parallelo la sua fama di solista amato al punto che, dopo essere stato ribattezzato «l’Angelo di Roma» e aver cantato alle messe annuali in memoria di Vittorio Emanuele II, il 9 agosto 1900 fu invitato al Pantheon a cantare ai solenni funerali di Umberto I, ucciso a Monza da Gaetano Bresci. Sotto la direzione musicale dell’allora trentasettenne Pietro Mascagni. Un momento memorabile. Anche perché, spiega il biografo inglese, «le relazioni tra il Vaticano e lo Stato erano ancora più o meno congelate, malgrado, dai tempi dell’unificazione d’Italia, si fossero già succeduti un monarca e un Papa» e la scelta di Leone XIII di esaudire la richiesta dei Savoia fu un passaggio chiave di distensione. E la prova di quanto Alessandro fosse popolare.
La fine arrivò agli sgoccioli del 1903, quando il nuovo Papa Pio X decise Motu proprio di chiudere la lunga (tre secoli e mezzo) e contestata storia degli evirati cantori: «Se si vogliono adoperare le voci acute dei soprani e contralti, queste dovranno essere sostenute dai fanciulli, secondo l’uso antichissimo della Chiesa». Anzi, «sarà pure conveniente che i cantori, mentre cantano in Chiesa, vestano l’abito ecclesiastico e la cotta». Il 22 giugno del 1905 la decisione fu legge.
Una decina d’anni dopo quel Motu proprio, il sabato di Pasqua del 1913, Moreschi concludeva i suoi 30 anni di contratto con la Cappella Sistina. Era pronto per andare in pensione. Ma cantava ancora alla Cappella Giulia, racconta Clapton, quando, tre mesi prima dello scoppio della Grande guerra, fu contattato dallo studioso viennese Franz Haböck che aveva una mezza idea di proporgli un tour «cantando la musica che era stata scritta per Farinelli». Avevano dei dubbi: ce l’avrebbe fatta? La tragedia bellica spazzò via tutto. Morì nella sua casa di via Plinio, a pochi passi da Porta Sant’Anna.