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 2022  luglio 13 Mercoledì calendario

Eugene, dove l’America iniziò a correre

Molto prima del «Born to run» di Springsteen e anche prima che Forrest Gump si sentisse un po’ stanchino per il troppo correre. Qui arrivano per la prima volta in Usa dopo 39 anni i mondiali di atletica. Non era mai capitato che la sede fosse una città così piccola, appena 172 mila abitanti, con Springfield accanto, il posto dei Simpsons, e con Portland, capitale dello Stato, anche quartiere generale della Nike dove lo stregone del mezzofondo, Alberto Salazar, ora bandito, perseguiva a base di doping il suo Oregon Project e dove si allenava anche Mo Farah, mai più competitivo senza gli aiuti del suo stregone.
Qui nel ’75 a mezzanotte e mezza di una notte di primavera (era fine maggio) su un tornante morì Steve Prefontaine, per tutti «Pre», e il sogno di riscatto dell’American dream del mezzofondo tanto che si parlava di Golden Age. Ma anche di guerra all’ipocrisia del dilettantismo. Pre volava nel futuro, non voleva lacci, che altri decidessero come doveva vivere e con quali regole gareggiare. Steve era magro, piccolo, aveva i capelli lunghi, era l’idolo delle folle perché non faceva calcoli, andava sempre all’attacco dicendo: «Non m’interessa vincere, ma vedere chi ha più fegato». Un hippy che viveva in una roulotte, uno che si riteneva artista del movimento, un ribelle che se ne andò in una curva stretta a 24 anni. Di botto. Come Jimmy Dean, che però morì ad un incrocio di Salinas, incornato dal volante della sua Porsche Spyder, mentre Pre venne schiacciato da peso della sua Mg, color caramello, che si ribaltò. Da un ribelle senza causa, a uno che la causa ce l’aveva, battersi per il professionismo, far capire che lui correva per sé stesso, «al diavolo l’amore per la patria», che ogni arte ha bisogno di finanziamento, che il dilettantismo era ormai fuori moda.
Aveva appena accompagnato a casa altri colleghi, dopo aver organizzato, contro l’Aau, federazione di atletica americana, un meeting con atleti finlandesi e aveva un po’ bevuto («Died drinking and driving» titolò un giornale), l’esame del sangue rivelò che il suo tasso alcolico era il doppio di quello consentito oggi (ma la provetta è scomparsa), lavorava in un bar e mandare giù birre non era mai stato un problema. Andava di corsa, come sempre, non gli andava di essere sorpassato. Non si sa se sbandò per evitare un’auto o perché stava gareggiando con un’altra Mg. Sul luogo, su quella roccia che ruppe una vita e tanti sogni, c’è una targa (Pre’s Rock) che ricorda il ragazzo che non vinse le Olimpiadi ma che diventò un campione di stile. Non gli importava il tempo, ma come correre, sempre in testa, sempre in fuga, da guerriero non da ragioniere. Voleva morire in pista, non darla vinta a nessuno, e in America ci riusciva, tutti i record nazionali erano suoi, dalle due miglia ai 10.000 metri.
Nel ’70 il giorno prima delle finali Ncaa si ferì con un chiodo che gli entrò in un piede, saltando da un trampolino, furono necessari 12 punti di sutura, ma lui l’indomani vinse le tre miglia con un ultimo giro da pazzo e con la scarpa che perdeva sangue. Era fatto così, non per il risparmio. A 21 anni ai Giochi di Monaco arrivò quarto sui 5.000 metri, perché si mise subito in testa, e così perse non solo il primo, ma anche il secondo e terzo posto. Troppo spregiudicato e spavaldo, troppo dreamer. Alla fine anche i sogni restano senza fiato. Diventò leggenda, senza medaglia, ma con tanto fegato. La tattica non era il suo forte. Quando i suoi capelli biondi (la madre era tedesca) si alzavano al vento, sapevi che forse sarebbe stato un suicidio, che non avrebbe vinto, ma che sarebbe stato comunque bello. Infatti a Hollywood hanno fanno fatto due film su di lui, ma il più bello è il documentario «Fire on the track», che naturalmente inizia con la musica di Jim Morrison. Steve contava di riscattarsi ai Giochi di Montreal ’76. Non ci arrivò. Era allenato da un altro mito, da Bill Bowerman, grande coach di atletica dell’università dell’Oregon (scomparso nel ’99), che con un altro suo atleta Phil Knight, avrebbe trionfato sulle piste di tutto il mondo, ai piedi di molti campioni. Nike, così si chiamava l’azienda di scarpe da running costruita nel ’67. E Pre fu tra i primi atleti nel ’74 ad indossarle. In cambio di 5 mila dollari (che servirono anche a comprare l’Mg).
Suo padre era un falegname, aveva costruito da solo la casa per la famiglia, così Pre voleva costruirsi la sua vita, con l’indipendenza economica che potevano dare le corse e scegliendo lui dove gareggiare, senza obbedire al patriottismo dell’Aau. «Vorrei che mi lasciassero in pace per fare quello che voglio fare, correre contro i migliori. Se l’Aau non si preoccupa degli atleti, perché dovrei preoccuparmi di loro?».
Il popolo di Pre era quello delletribune di Hayward Field a Eugene, lo stesso dove si disputano questi mondiali (ma lo stadio è stato rinnovato) e i trials. Tracktown, appunto, la città della pista. Dove tutto ancora parla di Pre, dalle fotografie all’aeroporto, al meeting annuale, al Pre’s trail, percorso dove si va ad allenarsi nei boschi. È qui per ironia della sorte, nella patria di Pre, che gli Usa cercano il riscatto come nazione decaduta: a Tokyo hanno perso tutti i loro regni, 100, 200, 400, 110hs e 400 hs, lungo, 4x100. Giocano in casa, devono recuperare i loro territori, anzi risorgere. E magari nei 10 mila scacciare gli uomini dell’Africa orientale che da lunghe stagioni dominano il fondo. Grant Fischer, 25 anni, nato in Canada (ha il doppio passaporto) è il nome nuovo, ha corso in 26’33” 84, settimo uomo più veloce della storia. E l’altro talento (acquisito) è Athing Mu, nata in New Jersey, africana del Sudan (i suoi genitori sono emigrati per fame e guerre), magnifica falcata, che potrebbe forse quest’anno sugli 800 finalmente battere il record di Jarmila Kratochvilova, ormai vicino ai quarant’anni. Se Pre riuscisse a non essere solo il ricordo di una generazione anticonformista, ma la voglia di correre avanti.