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 2022  luglio 13 Mercoledì calendario

La Cina a tavola


Durante l’interminabile lockdown, chiusi in casa già da settimane, gli abitanti di Shanghai si sono dati appuntamento alla finestra. Armati di scodelle, nel silenzio irreale della metropoli spenta, hanno iniziato a tambureggiare, una delle più rumorose espressioni collettive di dissenso nella storia recente della Cina. Non ce l’avevano con l’isolamento forzato, con la privazione della libertà: da Wuhan in poi quello è un rimedio estremo che i cinesi hanno sempre accettato, il singolo che si sacrifica per un bene superiore, cioè collettivo. Quel che non potevano tollerare, che non pensavano di dover più patire nella Cina tornata superpotenza, era la fame. Nella fretta di contenere la pandemia le autorità li avevano rinchiusi senza organizzare un’adeguata distribuzione di cibo. Ne arrivava pochissimo, spesso immangiabile, a volte marcio. Mentre le poche società di consegna private ancora operative distribuivano la spesa solo a prezzi esorbitanti. Una situazione esplosiva, che metteva in questione la legittimità stessa di Xi Jinping e del Partito comunista. Perché dall’imperatore i cinesi sono disposti a farsi governare, anche con durezza, a patto che garantisca loro ordine sociale e tre pasti al giorno. Perché in Cina, come spiega Siegmund Ginzberg nel suo Colazione a Pechino, “governare” è soprattutto “cucinare bene”. Quando si vuole raccontare un Paese così sconfinato, un continente, scegliere un angolo è la strategia giusta. E Ginzberg, che in Cina ha vissuto e lavorato dal 1980 al 1987 come corrispondente de l’Unità, ne ha scelto uno allo stesso tempo universale e peculiare: il cibo. «La Cina è la sua cucina, è come e quando si mangia», spiega. Insieme al mandarino scritto, le bacchette e gli orari dei pasti sono i soli elementi che uniscono il Paese da Nord a Sud, da Ovest a Est. Gran parte della socialità ruota attorno alla tavola, un rituale sempre collettivo, durante il quale ci si serve da piatti comuni.
Di più, in Cina il cibo è sempre stato politica, tanto che nei suoi discorsi Mao utilizzava spesso metafore alimentari: la rivoluzione «non è un pranzo di gala» e «non si può fare se non si sopporta il peperoncino piccante». Così anche le memorie cinesi di Ginzberg sono attraversate da episodi culinari. Come l’inattesa, pericolosissima soffiata che gli arrivò un giorno da un’amica funzionaria di Partito, che gli annunciava la rimozione del leader riformista Hu Yaobang. Gli aveva telefonato direttamente da Zhongnanhai, l’impenetrabile fortino comunista a fianco alla Città Proibita. In teoria la linea più controllata del Paese. Ma l’aveva chiamato a mezzogiorno, ora di pranzo: era sicura che gli addetti alla sicurezza fossero in pausa.
Ginzberg ha lasciato la Cina molto tempo fa, ma non ha mai smesso di studiarla. Questa ossessione per il cibo, l’ha cercata e trovata in molti testi della tradizione, convincendosi che nella sua storia millenaria l’entità che oggi chiamiamo Cina non sia cambiata poi molto: sempre in bilico tra volontà di potenza e radicale insicurezza, tra grandi abbuffate e devastanti carestie. La più recente, quella provocata da Mao in nome del grande balzo in avanti, lasciò milioni di morti di fame nelle campagne, costringendo perfino lui a fare autocritica. La Pechino in cui arriva Ginzberg all’inizio degli anni ’80, insieme alla moglie Stefania, si sta reinventando dopo la morte del Grande Timoniere. Prendono residenza in una splendida casa a corte negli hutong, i vicoli mongoli del centro. Si respira un’aria di apertura, politica ed economica. La prima, illusoria, verrà bruscamente interrotta con Tiananmen, la seconda produrrà il miracolo economico che conosciamo. In quel periodo se ne intuiscono solo gli albori: un proliferare di mercati e rigattieri, pochi veri negozi, pochissimi ristoranti. In casa, racconta Ginzberg, ha un cuoco a cui insegna le preparazioni occidentali. Riceve spesso: i giornalisti stranieri sono controllati, anche a ore pasti, ma stringono contatti con le élite del Paese, intellettuali e politiche.
Sono pagine che nell’era di Xi Jinping si leggono con un senso di nostalgia e rammarico. Anche il nuovo leader è attento al cibo e al suo valore politico. La sua crociata contro la corruzione nel Partito ha preso di mira, tra le altre cose, i pantagruelici banchetti dei funzionari. Mentre una delle sue prime uscite da segretario è stata in un ristorante di ravioli di Pechino, un vero uomo del popolo. Intanto però il connubio tra turbo sviluppo e stretta autoritaria cambia anche il modo in cui i cinesi mangiano. In nome del decoro, o meglio dell’ordine, dalle strade della capitale sono spariti tutti i venditori ambulanti di cibo. E i giovani cinesi di città si fanno ormai recapitare i pasti due o tre volte al giorno, a casa o in ufficio, da un sottoproletariato di fattorini pagati a cottimo. Racconta Ginzberg che tra le ossessioni cinesi per il cibo una ricorrente è il cannibalismo, «metafora di un Paese dove da millenni gli uomini si mangiano tra loro». La Cina ha ancora fame, ma è difficile dire se si mangerà il mondo, o finirà per consumare se stessa.