La Stampa, 13 luglio 2022
Biografia di Mo Farrah
Londra
Corre Mo Farah, corre da quando ha 12 anni, corre tanto veloce che ha vinto quattro medaglie d’oro alle Olimpiadi. Ma dopo trent’anni non vuole più scappare dalla verità. E ha deciso di raccontarla. «Non sono quello che pensate», ha detto. Ha raccontato di essere arrivato nel Regno Unito illegalmente, portato da una donna mai vista prima, vittima di trafficanti di essere umani, e di essere stato ridotto in schiavitù all’età di nove anni. E di essere stato salvato dall’atletica e da un insegnante di educazione fisica. Nemmeno il nome con cui è diventato famoso in tutto il mondo è vero. Si chiama Hussein Abdi Kahin. «So di avere preso il posto di qualcun altro, mi chiedo spesso che fine abbia fatto il vero Mohamed», ha detto.
La rivelazione choc è arrivata in un documentario della Bbc. Ha sconvolto e commosso il Paese che lo ha adottato e fatto Sir Mo, baronetto. E paradossalmente ora lo espone al rischio di deportazione per essere entrato con l’inganno. Ma si tratta di un rischio per fortuna solo teorico: il ministero degli Interni ha già fatto sapere che non prenderà alcun provvedimento. Ma se fosse arrivato oggi avrebbe addirittura rischiato la deportazione in Ruanda, secondo la politica durissima del Primo Ministro dimissionario Boris Johnson.
Mo Farah ha vinto da maratoneta e mezzofondista la medaglia d’oro nei 5,000 metri piani e nei 10,000 metri ai Giochi di Londra 2012 e Rio de Janeiro 2016. È uno degli atleti più famosi e amati nel Paese: il suo gesto di vittoria, ribattezzato Mobot, le braccia arcuate con le mani che toccano la testa, è stato tra i più imitati, dai tifosi negli stadi a Usain Bolt.
Farah, che oggi ha 39 anni, aveva sempre detto di essere arrivato dalla Somalia con la famiglia e di essere entrato in quanto rifugiato. Ma la realtà è diversa, e molto più straziante.
Quando aveva quattro anni, il padre Abdi è rimasto ucciso nella guerra civile in Somalia. Lui è arrivato nel Regno Unito dal Gibuti con una donna mai vista, pensando di ricongiursi ad altri familiari in Europa. «Non avevo mai preso un aereo ed ero molto emozionato», ha detto. Aveva documenti falsi e viaggiava con il nome di Mohamed Farah. Ma una volta arrivato a casa della donna, alla periferia ovest di Londra, ha trovato una realtà diversa. La donna ha strappato davanti ai suoi occhi il foglietto di carta in cui aveva annotato i numeri dei familiari. «In quel momento – dice – ho capito che ero nei guai».
Cominciano anni di vera e propria schiavitù, in cui, ad appena nove anni, doveva prendersi cura di bambini più piccoli, lavarli, accudirli, pulirli, preparare loro da mangiare e pulire le loro cose. Per anni non viene mandato a scuola. «Se volevo mangiare, dovevo prendermi cura di loro. E se volevo rivedere la mia famiglia, dovevo tenere la bocca chiusa», racconta. «Spesso mi chiudevo in bagno e piangevo».
A 12 anni viene finalmente mandato a scuola: ai maestri dicono che è un rifugiato somalo, loro capiscono di avere a che fare con un bambino «trascurato» e «alienato». Sulla pista di atletica si trasforma («l’unica cosa che potevo fare per scappare era uscire e correre»), e stringe un rapporto di fiducia con il maestro di educazione fisica. «L’unica lingua che sembrava capire era la lingua dell’educazione fisica e dello sport», dice il maestro, Alan Watkinson.
Alla fine gli racconta la verità, e Watkinson contatta i servizi sociali: Mo viene dato in affidamento ad una famiglia somala. «Mi mancava ancora la mia famiglia, ma le cose cominciavano ad andare meglio», dice oggi. «Finalmente mi sono sentito me stesso. Il vero Mo è uscito fuori». Comincia a gareggiare stabilmente, ma ancora non ha i documenti per viaggiare. Nel 2000 ottiene la cittadinanza britannica con il nome di Mohamed Farah. Il resto è storia dello sport.
Con la sua storia, e il suo coraggio nel raccontarla a tanti anni di distanza, Farah ha vinto il plauso di molti, dal sindaco di Londra alla commissaria britannico contro la schiavitù, da sportivi a VIP.
Farah, per conto suo, ha detto di aver parlato per cercare di rompere il taboo della schiavitù e del traffico di esseri umani. Da quando nel 2015 è passata nel Regno Unito la legge sulla schiavitù moderna, è venuto alla luce un numero enorme di casi. Secondo gli ultimi dati resi disponibili dal governo, nei dodici mesi tra il marzo 2020 e il marzo 2021 si sono registrati oltre 8.700 casi in Inghilterra e Galles.
«Non avevo idea che ci fossero così tante persone che stavano attraversando esattamente la stessa cosa nella quale sono passato io», dice Farah. «Dimostra solo quanto sono stato fortunato».
«Quello che mi ha davvero salvato, quello che mi ha reso diverso, è stato che potevo correre».