La Stampa, 13 luglio 2022
Coppie che scoppiano
È chiaro che il mistero della scomparsa del comunicato congiunto Totti-Blasi, annunciato per la serata di ieri e mai arrivato alle redazioni avide di dettagli sulla nuova rottura coniugale, è più adatto a rianimare la spossata attenzione del pubblico di una crisi di governo di mezza estate, tra l’altro forse farlocca. Che fa caldo, ci si concentra a stento anche per via dei sintomi long Covid, un po’ di polveri sottili e di diossina da roghi vanno in testa – Roma, come avrete notato, si va carbonizzando – lui non sarà Johnny Depp ma è pur sempre il Pupone, Ilary è la capofamiglia e poi c’è l’altra. Audience sicura. Oltretutto questa è una crisi vera, si sono lasciati, quest’altra boh, Conte dice che ci farà sapere, deciderà all’ultimo cioè domani. Ma si può sempre sognare, a doversi proprio occupare di politica: lasciarsi cullare dal suono delle parole che alla fine, vedete, son le stesse. “Comunicato congiunto” vale “verifica di governo”, una crisi è una crisi, a ben cercare c’è sempre un tradimento, “rimpasto” fa subito anni Ottanta, una Vespa una Prima Repubblica una rotonda sul mare.
L’enclave democristiana che governa il Quirinale, gran parte del sistema bancario e lo Stato profondo (i funzionari, i capi di gabinetto) – quindi, in definitiva, il Paese – invita a non drammatizzare, come da secolare abitudine: non succederà niente, vedrete. Mattarella e Draghi si sono parlati, la linea è scongiurare la crisi a ogni costo che ci sono in ballo i soldi dell’Europa, se qualcuno lo avesse dimenticato: i superbonus, le facciate nuove, le furbizie vecchie, gli sgravi alle imprese, gli aiuti alle famiglie, i tagli alle bollette, il famigerato reddito di cittadinanza – quello che Giorgia Meloni definisce «una misura fallimentare fonte di abusi» e che i Cinquestelle considerano l’unico successo politico fin qui ottenuto – ecco, tutto questo si traduce in soldi da spendere, e se i soldi non arrivano le chiacchiere stanno a zero. Ma non è così semplice: il già non lineare pensiero di Giuseppe Conte è al momento ulteriormente appesantito da forze centrifughe, dall’incessante bisbiglio di consiglieri che sanno per certo come fare la sua fortuna, dalla sindrome del complotto che sempre coglie chi siede al comando specie se ha un Di Maio vicino – un qualunque antagonista – a insidiarlo.
Mettetevi nei suoi panni, di Conte dico: Domenico De Masi, sociologo e intellettuale di area, lo invita a uscire mostrandogli numeri che dicono che “da fuori” riprenderebbe il 2 per cento di consensi, e ho detto 2, e forse recupererebbe Di Battista, inteso non come minaccia ma come fiorente prospettiva. Michele Santoro si metterebbe a disposizione, ha fatto sapere, magari potrebbe persino conservare in squadra Rocco Casalino. La sinistra pacifista che vede in Draghi l’espressione della Troika saluterebbe lo strappo come lo scisma del “manifesto": non c’è chi non veda, d’altra parte, in questa frattura etica della sinistra lo spettro del ’56, ferita mai chiusa. Insomma, bene. Purtroppo però altri più concretamente gli mostrano schemi da cui risulta che se non votasse la fiducia, domani, sei o sette nuovi senatori potrebbero passare con Insieme per il futuro, o Insieme per restare, o Visione d’insieme, ora un po’ coi nomi dei partiti ci si confonde: con Di Maio, in pratica, e al governo. Il dilemma è reale, perché è vero che è bello far valere i principi, la base li reclama, ma è anche vero che bisognerebbe non estinguersi. Consola sapere che Alfonso Pecoraro Scanio sarà della partita, in onore alle virtù ambientaliste del Nostro, ma non basta. L’ipotesi di “appoggio esterno”, altra reminiscenza veterodemocristiana così insolita per un movimento nato dal Vaffaday, non dal Masifiguriday, ha immediatamente eccitato i veterani della comitiva. Silvio Berlusconi ha difatti convocato un vertice a domicilio, a Villa San Martino: è chiaro che se Conte esce i suoi posti al governo andranno redistribuiti. A una nuova mano di carte corrispondono dividendi nuovi. Quelle poltrone toccano a chi resta. Ci sarebbe anche Salvini, che però al governo ci sta sulle braci, con Giorgia Meloni che prende un punto al giorno dall’opposizione. Ha fatto sapere ieri, Salvini, che lo stop a «droga libera e cittadinanza facile» sono promesse mantenute grazie alle «barricate della Lega». Barricate di governo, questa sì una novità politica. Droga libera e cittadinanza facile sono le battaglie identitarie del Pd: lo ius scholae e (meno) la legge sulla cannabis. Quest’ultima difatti non è propriamente la tazza di tè di Enrico Letta il temporeggiatore, che tuttavia capisce come Mattia Santori e le sardine la considerino una priorità, ai giovani bisogna sempre prestare orecchio specie se ti fanno vincere in Emilia. Letta, tuttavia, nasce da tradizione democratico cristiana ed è uomo prudente: questo campo largo va sminato, perché è un attimo saltare per aria su un Davide Crippa grillino che si avventa contro il termovalorizzatore e il povero Gualtieri, eletto sindaco pur di non darla vinta a Calenda. Vince sempre, il Pd, come male minore: volete le gare bighe al Colosseo con Michetti o Gualtieri in Capidoglio? Questo. Poi c’è Meloni, anche in questa storia c’è “l’altra”. Bisogna votare «non si può pensare di andare avanti così», ha detto ieri, e siamo subito all’ultimatum della crisi coniugale dell’estate: prendi una decisione, o me o l’altra, sono stanca di compromessi e bugie, ha detto lei. Lui ha preso tempo. Poi però il comunicato congiunto atteso per la sera, si vede che pensavano alla chiusura dei mercati, non è arrivato. È saltato all’ultimo, dice, per una questione di soldi. Di società di famiglia, di interessi. Ma pensa te. —