il venerdì, 8 luglio 2022
Colloquio con Ahmad Aeham - su "Taxi Damasco" (La nave di Teseo)
Non è facile sopravvivere: Aeham Ahmad lo ha imparato sulla sua pelle. Palestinese, cresciuto nel campo profughi di Yarmouk, alla periferia di Damasco, questo musicista dal sorriso da bambino ha iniziato ad essere conosciuto al grande pubblico otto anni fa, nel 2014. Allora, in una della fasi più acute della guerra in Siria, mentre l’esercito siriano e lo Stato islamico combattevano per il controllo di Yarmouk, assieme ai suoi amici iniziò a trasportare la sua pianola per le vie del campo, tentando di portare gioia alle migliaia di persone intrappolate al suo interno, fra fame e mancanza di medicinali. I video delle sue performance diventarano virali su internet e fecero sì che la sua fuga dalla Siria, nel 2015 - all’apice dell’ondata di rifugiati che dal Paese cercavano di raggiungere l’Europa - diventasse un simbolo del destino di un popolo intero.
Alla fine di mesi difficili, dopo due traversate in gommone fra la Turchia e la Grecia, la morte di alcuni compagni di viaggio, tante notti all’addiaccio e migliaia di chilometri percorsi a piedi, Ahmad approdò in Germania, dove dopo qualche mese riuscì a farsi raggiungere dalla moglie e dai due figli. "La musica mi ha salvato la vita" disse a Repubblica quando lo raggiungemmo per raccontare la sua nuova vita, "le devo tutto. Ora spero di poter restituire almeno parte di ciò che ho ricevuto".
La restituzione si chiama Taxi Damasco ed è il libro che il musicista ha scritto nel 2020 e che arriva ora in Italia per La nave di Teseo. Un testo in cui, dopo il successo di Il pianista di Yarmouk in cui raccontava la sua storia, Ahmad torna nella città in cui è cresciuto per narrare il destino di quelli che sono rimasti indietro e che, al contrario suo, non hanno potuto ricominciare lontano da un Paese che, a più di undici anni dall’inizio della rivolta contro Bashar al Assad,è prigioniero di una guerra di cui non si vede la parola fine.
"Sono una persona fortunata" ci racconta dalla Germania. "Sono riuscito a ricostruirmi una vita qui. A far arrivare i miei genitori, dopo mia moglie e i mie figli. A collaborare con musicisti di tutta Europa e incontrare persone speciali. Ma il senso di colpa per quello che avevo qui, mentre le persone che con me avevano iniziato l’avventura della pianola per le vie di Yarmouk sono morte o sono scomparse, non mi ha mai abbandonato. Per anni mi sono svegliato di notte con gli incubi, gridando, con un nodo alla gola: il libro in questo mi ha aiutato".
Così, grazie alla voce di un tassista che percorre tutti i giorni le strade di Damasco, Ahmad torna a casa. E racconta le strade della sua città, i palazzi cancellati dalla guerra, la battaglia quotidiana per il cibo e il carburante. "I racconti dei clienti sono spesso quasi intollerabili. Ne sono pienamente consapevole. Ma desidero darvi un’impressione più esatta delle circostanze in cui i cittadini del nostro Paese devono vivere e con cui devono convivere giorno dopo giorno. Spesso non è facile destreggiarsi per sopravvivere. Per molti il solo rifornirsi di generi di prima necessità o di acqua potabile pulita rappresenta già una grande sfida quotidiana", dice il tassista nelle prime pagine del libro.
Messaggi in bottiglia
"Non è un personaggio di fantasia" ci spiega l’autore, "ma una delle tante persone con cui sono quotidiamente in contatto in Siria: vecchi amici, familiari, colleghi di studio. Non dirò chi è lui, per motivi di sicuezza, ma posso dire che ogni sera mi manda dei messaggi su WhatsApp per raccontarmi la sua giornata e chi ha incontrato. Quei messaggi sono diventati il libro: a lungo ho sentito che avevo parlato abbastanza di me, che era giusto usare la fama che avevo raggiunto per accendere la luce sulle storie di chi era rimasto indietro. Queste pagine mi hanno permesso di farlo e di placare, almeno un po’, il mio senso di colpa".
Nel libro ci sono passaggi molto personali: un amico medico che ha perso il braccio mentre curava i feriti durante un bombardamento sul suo ospedale. I bambini orfani. L’arroganza di chi con la guerra si è arricchito e la prepotenza dei militari verso i civili.
Ma forse nessuno lo è tanto quanto il capitolo in cui a parlare è una donna sopravvissuta alle prigioni siriane, con il loro carico di torture, morte e costante paura: poche parole, piene di pudore, per raccontare un orrore senza fine che anche la famiglia Ahmad conosce bene. Il fratello infatti è una delle decine di migliaia di persone scomparse negli ultimi undici anni nelle celle di Assad. Arrestato nel 2012 ad un posto di blocco fuori da Yarmouk, da allora non se ne sa più nulla. "A lungo mia madre ha rifiutato di lasciare la Siria senza di lui, poi finalmente si è convinta: sono passati dieci anni e spera ancora che torni. Abbiamo provato in ogni modo ad avere sue notizie e guardato tutte le foto dei detenuti morti filtrate dalle prigioni. Non c’è nulla. In Siria è così: un mio amico fotografo è morto in carcere nel 2016, la famiglia lo ha saputo nel 2018. Sono da considerare fortunati, perché almeno hanno avuto notizie certe".
La sua voce si vela di tristezza, la stessa che ha ogni volta che, da anni, parla del suo Paese. Tornerà mai? "Non ora. Non con il dittatore: abbiamo sacrificato troppo per permettere che resti. Quando lui non ci sarà più tornerò. Ma credo che il compito di ricostruire la Siria alla fine toccherà ai nostri figli, alla generazione dell’esilio, che nelle scuole d’Europa ha capito cosa è una democrazia, cosa sono i diritti e un giorno potrà condividere questi valori con chi è rimasto lì e non ha avuto questa possibilità".